Sapri e la sua evoluzione urbana attraverso l’indagine geo-storica

Piante e Disegni, cartella XXXII, conv. 4

Gli studi

Nel 1987 pubblicai a stampa (1) uno studio sulle origini ed il ruolo dello scalo naturale della baia e del porto di Sapri, negli anni bui del medioevo. Lo studio, iniziato a Salerno e poi a Napoli, fu condotto su vari fronti. Le scarse informazioni che la storiografia locale metteva a disposizione e le scarse fonti archivistiche dell’epoca, rendevano incerti i risultati ma il periodo medioevale meritava ulteriori approfondimenti ed indagini e la ricerca di nuove fonti. Dopo diversi tentativi e dalle diverse notizie che emersero, mi resi conto che ne era valsa la pena. Con la progressiva e definitiva dissoluzione dello Impero romano e, la caduta degli ultimi Imperatori romani, tutta l’Italia fu interessata da continue guerre ed invasioni di popolazioni ‘barbariche’. Le invasioni degli Unni, Ostrogoti, Visigoti, i Vandali di Genserico e, Arabi, produssero sulle popolazioni già stremate, devastazione, pestilenze e, carestie. In questi secoli, anni bui del medioevo, i pochi centri costieri del ‘Cilento’ si desertificarono, restando dei piccoli villaggi di pescatori e ove talvolta, come è il caso di Sapri e Policastro, avevano un porto. Anche se oggi non vi è rimasta memoria di tutto ciò, questo studio cerca di far luce su alcuni aspetti e caratteristiche peculiari che l’aspro territorio del ‘basso Cilento’ e del Golfo di Policastro ha avuto nei secoli. Come vedremo, lo studio delle poche fonti fino a noi giunte, anche se andrebbero ulteriormente indagate, restituisce un piccolo ma utile contributo alla storia del ‘basso Cilento’ e di Sapri nei secoli, le sue origini e l’evoluzione storico-urbana del centro costiero. Questo saggio vuole fare il punto di tutte le notizie storiche raccolte e documentate sulla cittadina di Sapri suntate anno per anno che sono ivi trattate in questo blog in maniera organica e approfondita con altri miei saggi a cui si rimanda per gli opportuni approfondimenti.

golfo-di-policastro

Sapri

SAPRI, TERRITORIO, L’AMPIA BAIA, IL PORTO NATURALE, LA COSTA

Giulio Schmiedt (….), nel 1975, pubblicò un interessantissimo studio per i tipi dell’Istituto Geografico Militare di Firenze, dal titolo Antichi porti d’Italia – Gli scali Fenicio-punici – I porti della Magna Grecia, Parte II- I Porti delle Colonie Greche’ pubblicato a Firenze nel 1975. Schmiedt (2), gà molti anni prima, nel 1972 aveva pubblicato un altro interessante studio sui porti della Magna Grecia ed aveva citato quello di S. Croce a Sapri. Si tratta dello studio ‘Il livello antico del Mar Tirreno – Testimonianze dei resti archeologici, a cura di’ (2.1). Nello studio ‘Antichi porti d’Italia’, lo Schmiedt (2), riferiva che: “Dopo il porto di Policastro il Portolano del Mediterraneo (172), elenca nel Sinus Laus gli scali di Marina di Vibonati, di Sapri e di Maratea, ma non si hanno elementi che documentino se in epoca greca fossero frequentati. Per quanto riguarda il primo (Vibonati) si può solo dire che fu probabilmente uno scalo lucano chiamato Vibo ad Sicam e che il secondo (Sapri) fu sicuramente uno scalo romano, di cui rimarrebbero semisommerse alcune strutture sulla costa immediatamente a nord di Punta del Fortino” (riferendosi al punto ove si trova il Faro Pisacane) (2), a cui abbiamo dedicato lo studio: “Il vecchio Fortino borbonico a Sapri”, a cui rinviamo per gli opportuni approfondimenti e che vediamo illustrato nella foto del satellite di Fig. 1. Al limite della piana costiera, troviamo il rilevato ferroviario che lambisce la corolla di colline (mediamente lungo la curva di livello a quota +15 sopra il livello del mare). Sostanzialmente, il rilevato ferroviario, costituisce anche il limite alle aree urbanizzate, poste quasi tutte fra il rilevato ferroviario e la linea costiera che, con la sua fascia litoranea, lambisce il mare e la caratteristica baia antistante. La formazione e la conformazione che la pianura costiera di Sapri ha assunto nei secoli, può avvalorare alcune ipotesi sulle sue origini. Il paesaggio che oggi vediamo è stato modellato dalle significative variazioni climatiche che si sono avvicendate nel corso del Quaternario ed Olocene e dalle recenti oscillazioni del livello del mare. Il Cesarino, al riguardo, credeva che il Torrente Brizzi ”oggi modesto, scarica in mare le ultime acque di quell’immenso serbatoio idrico che fù la Valle del Noce: l’antico lago pleistocenico si svuotò nel corso dei millenni sia attraverso la vallata di Castrocucco in Calabria, sia attraverso la vallata di S. Costantino che incombe su Sapri. E la profonda gola scavata dal Torrente Brizzi nella roccia rivela la notevole portata che dovette avere nell’antichità. Se si aggiunge che la zona è interessata da quel movimento bradisismico che riguarda la Calabria costiera, e che i detriti alluvionali hanno depositato una coltre di parecchi metri.” (1) I deterioramenti climatici succedutisi nei secoli, hanno causato una serie di ciclici alluvionamenti che hanno provocato notevoli trasformazioni al paesaggio. Tali fenomeni hanno determinato l’accumulo di ingenti quantità di detriti fluviotorrenziali, causando un’aggradazione del piano di campagna ed una progradazione costiera.  L’urbanizzazione del centro abitato è andato adeguandosi alle periodiche esondazioni che talvolta si sono rivelate di notevole portata. Sono testimonianza i molti antichi fabbricati della ‘Marinella’, che presentano porzioni di ambienti e gli ingressi dei fronti principali al di sotto del piano di campagna o stradale. In seguito a scavi effettuati per lavori edilizi, sono stati ritrovate pavimentazioni e manufatti edilizi completamente interrate e ricoperti da terreni alluvionali. I fenomeni alluvionali che nelle varie epoche, hanno interessato gran parte della pianura costiera di Sapri, hanno determinato anche fenomeni di progressivo impaludamento dalla piana. I toponimi ‘Skidros’ o ‘Sapros’ (pantano, palude), richiamano senza ombra di dubbio ad un fenomeno di impaludamento. Inoltre, devo aggiungere che, sul lato nord-est della piana, tra la località ‘Mocchie’ e le colline del Timpone, nell’antichità, doveva aprirsi una piccola insenatura perfettamente navigabile per le leggere barche dell’epoca.

Il fiume Sapri in Leandro Alberti e il Colenuccio

Il barone Giuseppe Antonini (….), nella sua “La Lucania – Discorsi”, nel “Discorso XII”, dopo aver parlato di Scalea, a pp. 446-447 parlando del fiume Lao, in proposito scriveva che: “A tempi vicini Leandro Alberti, non avendo affatto veduto questi luoghi, scrive che ‘l fiume Sapri (che mai non fu al mondo) divide Laino, e la Lucania da Bruzj; poi lo chiama Lao, e quindi taccia ‘Strabone’ e ‘Tolomeo’  di aver quì allogato questo fiume: ‘quando’ (dice) in queste contrade (vedete che altra confusione) non si trova altro che il fiume Melfe’. Egli peraltro copiò questa torta, e non vera sentenza dal ‘Collenuccio’, nel lib. 1 della ‘Storia del Regno di Napoli’, dove scrisse: “Continua poi la Lucania per una gran parte, detta oggi Basilicata, dal Silaro fino al fiume chiamato Sapri, che anticamente era detto Lao”. “. La notizia tratta dall’Antonini merita ulteriori approfondimenti. Oggi il fiume che attraversa Laino borgo, un comune del Cosentino in Calabria e non molto distante da Scalea e dalla costa Tirrenica, viene chiamato Lao. Da Wikipedia leggiamo che il Lao è un breve fiume a corso perenne del versante tirrenico della Calabria. Nasce in Basilicata con il nome di Mercure. Prende il nome dall’antica colonia greca di Laos, polis della Magna Grecia. Nell’antichità il fiume era chiamato Laus (o Laos, Λαός in greco); era uno dei fiumi che segnava il confine tra i lucani e i bruzi. L’altro era il Chratis (Crati) nella parte terminale della foce, ma soprattutto lungo il corso del suo affluente Sybaris (Coscile), che nasce nel massiccio del Pollino, relativamente vicino alle sorgenti del Lao. Sboccava nel Sinus Laus (golfo di Policastro), nel Inferum mare

La baia naturale di Sapri e il porto

Il barone Giuseppe Antonini (….), nella sua “La Lucania – Discorsi” della baia di Sapri in proposito scriveva che: ”che è di figura semicircolare, ha quasi due miglia di circonferenza, e la sua bocca di circa mezzo miglio, guardando per diritto a mezzogiorno; quindi è che spirando quei venti non sono sicuri nel porto;”. Il Troyli (…), nel 1675, parlando dei porti del Cilento, dice: “Con vedersi col medesimo seno di Policastro il Porto che di Sapri oggigiorno s’appella: il quale sebbene alquanto ripieno, è di solito di piccioli bastimenti capace, comecchè da Scirocco gagliardamente battuto; pure fù dalla natura cotanto ben disposto, che rassembra uno dei più bei porti, che abbia mai veduto. E se fosse ugualmente profondo nelle sue acque capace sarebbe di una grandissima armata navale.” (2). Nel 1815, Romanelli (6), parlando della baia naturale di Sapri così scriveva: “di due miglia di circonferenza, e di un miglio di diametro di apertura ecc…Oggi le due punte sono guardate da due Torri, l’una ad occidente della di Buondormire, e l’altra ad oriente detta di Lubertino.” (6).

Troyli, vol. I, p. 59 su Sapri ed il suo porto

La baia di Sapri, una cassa armonica naturale

Come si può vedere dall’immagine satellitale tratta da google maps ed in un disegno del Genio militare napoletano che pubblicai anni fa, il litorale del paese di Sapri, ha la forma di un ferro di cavallo. La particolare conformazione orografica del territorio ed in particolare del litorale saprese, può annoversarsi tra le poche ed uniche baie naturali esistenti al mondo. Simile alla baia di Sapri è la baia di Acapulco in Messico. La particolare conformazione a ciampa di cavallo della baia di Sapri, oltre a donarle la particolare caratteristica di un porto naturale conosciuto e citato nei primi portolani esistenti, le dona anche la particolare caratteristica di naturale cassa armonica di risonanza acustica. Infatti, questa particolare conformazione naturale quasi ad emiciclo (un semicerchio con un angolo di 180°) è stato prima adottato negli Odeon greci (teatri) e poi in seguito proprio come la baia di Sapri a forma di ‘ciampa di cavallo’ la pianta dei primi teatri lirici come il San Carlo di Napoli o la Scala di Milano, rinomati per la loro risonanza acustica. In certe particolari giornate ventose, ma anche non particolarmente ventose, si può ascoltare il rumore del mare e dei gabbiani a centinaia di metri di distanza dalla battigia del mare. Nella mia abitazione che è posta nel centro abitato ma a ridosso della linea ferroviaria cioè a 600 metri dalla spiaggia, mi risveglio spesso con il rumore del mare. Il Rizzi (3), parlando dei porti cilentani, così dice del porto di Sapri: “8 -, In distanza di 15 miglia dall’Infrischi è situato il porto di Sapri, dove si avvisano dei notabili avanzi di antiche fabbriche. Ha la circonferenza di circa 2 miglia, di maniera che possono restare numerosi navali. Quando spirano i venti di libeccio-mezzogiorno, e ponente-libeccio, si stà mal sicuro……Il porto di Sapri, che è di figura circolare, ha la bocca verso mezzogiorno della grandezza di mezzo miglio circa.  Mercè un braccio di fabbrica, che si farebbe stendere dalla parte di occidente, verrebonsi a riparare in parte gli inconvenienti ai quali è soggetto.”. Secondo il Rizzi, nel 1809, Sapri aveva un’attrezzatissima flotta per la pesca formata da 7 pescherecci di 3 tonnellate cadauno e da un numero imprecisato di barche. Nel 1595, Scipione Mazzella Napolitano (…), nel suo “Descrittione del Regno di Napoli” (per i tipi di Stigliola) parlando del Principato Citra, a p. 79 in proposito scriveva che: “Appresso Policastro col suo golfo, che gli antichi chiamavano seno saprico dalla città di sapri, oggi nominata Libonati.”. E’ interessantissima la notizia del Mazzella (…) a cui ho accennato per alcune torri oggi scomparse ma che vi erano lungo la nostra costa da lui citate e descritte, il Mazzella scriveva che il golfo di Policastro anticamente era chiamato “seno Saprico”, ovvero golfo di Sapri. Il Mazzella fa derivare la parola di seno Saprico dalla “città di Sapri oggi nominata Libonati”. Questa notizia conferma che nel 1595, il territorio di Sapri era compreso nel tenimento di Vibonati allora detto “Libonati”.

Scipione Mazzella

Il fiume sotterraneo ‘Lubertino’  e u’ vull j l’acqua, in località Sciarapotamo

Già l’Antonini nel 1795, nella sua ‘Lucania’ a pag. 430, chiamava questo fiume sotterraneo ‘fiume Obertino‘. Nei pressi di questo fiume, oggi si vede solo la Torre cavallara vicereale ‘di Capobianco’, ma all’epoca ve ne era un altra oggi scomparsa la Torre ‘Obertino’. Gli antichi scrittori e viaggiatori, raccoglievano sul posto informazioni dagli abitanti del luogo ma prendevano sempre spunto da vecchie mappe o carte manoscritte come ad esempio la carta che quì pubblichiamo. Antonini (4) nei sui discorsi, così scriveva nel 1795:  “Ritornati al mare di Sapri, e ad oriente secondo l’intrapreso corso, camminando, trovasi allo scoglio detto Scialandro, sorgere in mare un notevole fiume, chiamato Obertino, la di cui acqua nei giorni di calma si può bere senza che sia con quella del mare mischiata, ma nei tempi di mediocre agitazione è coverto o confuso, ne si vede, che il solo suo gorgogliare. Or da quì sino alla marina di Maratea, che n’ è sette miglia lontano, e ch’ è una catena di continuati dirupatissimi alti scogli ( i frontoni), si trovan varie sorgive, e ruscelli di dolcissime acque, e da quando in quando delle grotte, ove i colombi fanno lor nidi, e l’està vi è deliziosa caccia di essi, che anche io due volte con sommo piacere ho…” (4 – p. 435). Lo scrittore e viaggiatore inglese Craunfurd Tait  Ramage. Il Ramage (….), nel suo “Attraverso il Cilento”, parlando del suo viaggio e della sua visita a Sapri, dopo aver descritto alcune cose viste a Sapri fornendo interessanti ed utili notizie storiche, lasciando il paese, in proposito scriveva che: “Ritrovai la barca ad una punta che costituisce una delle estremità del porto. Le due estremità di questo sono protette da due torri, quella ad ovest si chiama Buondormire e l’altra ad est, Lubertino. Fui felice di risalire in barca, perchè il riverbero del sole sulla sabbia rendeva pesante qualsiasi sforzo. Mentre avanzavamo le montagne si avvicinavano sempre di più alla riva, fino a sovrastare il mare. Il sentiero tortuoso si snodava lungo i pendii dei monti, ma a quest’ora del giorno sarebbe stata una vera follia tentare di percorrer la piedi. Non vi era un filo di aria ed il caldo era il più intenso che avessi provato; eppure i marinai non sembravano accorgersene, nonostante che i loro torsi nudi fossero esposti direttamente ai raggi del sole. Ora sono diventato prudente, perchè l’estate scorsa, mentre salivo lungo la strada che portava al palazzo di Tiberio nell’isola di Capri, ecc…”. Sempre il Ramage continuando il suo racconto e, mentre viaggiava in barca in direzione di Acquafredda e Maratea scriveva che: ”Mentre stavamo procedendo in direzione di Maratea i marinai mi parlarono dell’esistenza di un curioso fenomeno, e mi rammaricai di non averlo potuto vedere, prima di lasciare Sapri. Mi dissero che, vicino a Sapri, nei pressi di una roccia chiamata Scialandro, una polla d’acqua ribolle dal fondo del mare con tale forza da creare una corrente d’acqua dolce nel bel mezzo di quella salata e mi dissero pure che, quando il mare è calmo è possibile bere l’acqua dolce perchè questa non si mischia con quella salata, quando invece tira il vento essa si vede solo ribollire in mezzo al mare.”. Il Ramage si riferiva al fiume sotterraneo di natura carsica, che ancora oggi scorre nei pressi dello scoglio dello Scialandro, che l’Antonini (4) chiamava “fiume Obertino“, in prossimità della torre vicereale omonima, oggi scomparsa. Il fiume ‘Lubertino’, figura anche sulla carta geografica inedita, da me ritrovata presso l’Archivio di Stato di Napoli (5). Nella carta, figura il fiume ‘Lubertino’.  Si tratta di un fiume di natura carsica che scorre sotto terra e che sfocia in mare aperto quasi di fronte allo scoglio dello ‘Scialandro‘. La tradizione popolare lo ha sempre chiamato ‘ u vull j l’acqua‘ ( il significato dialettale di ‘u vull‘ è di bollire), ovvero il ribollire di polle di acqua sul pelo dell’acqua di mare, proprio nel tratto di mare antistante lo scoglio dello Scialandro e dovuto alla sorgente d’acqua dolce del fiume carsico e sotterraneo  che in quel punto sgorga direttamente con tale forza da fare ribollire il pelo del mare e visibile ad occhio nudo. Oggi l’acqua del fiume carsico viene captata e va ad alimentare un acquedotto per Sapri. Tutto il territorio che si affaccia sulla costa saprese e soprattutto quello che va verso Acquafredda, ha una natura ed una conformazione geologica di natura carsica con corsi d’acqua sotterranei e sorgenti che qua e la affiorano e che in passato hanno permesso il diffondersi di masserie in quelle aspre montagne come all’Orto delle canne o in località Fenosa e Vigne ecc..ecc..

Il fiume carsico ‘Obertino’ o ‘Lubertino’ e il fenomeno a mare detto “u vull’ j l’acqua”

Nel 1815 la Torre detta di “Capobianco” era ancora visibile tanto che il Romanelli (7), parlando della baia naturale di Sapri così scriveva: di due miglia di circonferenza, e di un miglio di diametro di apertura ecc…..Oggi le due punte sono guardate da due Torri, l’una ad occidente della di Buondormire, e l’altra ad oriente detta di Lubertino.” (7). Dunque, il Romanelli (…), nel 1815 scriveva di Sapri e del suo Porto che vi erano due torri che chiamava 1) Torre del “Buondormire” e l’altra Torre detta del “Lubertino”. Dunque, il Romanelli non la chiamava Torre di “Capobianco” ma la chiamava Torre del “Lubertino”. Il toponimo “Lubertino” deriva molto probabilmente dalla vicina foce del fiume carsico e sotterraneo chiamato dall’Antonini (…) “Obertino” e da altri “Lubertino”. Si tratta di un fiume carsico che a mare da origine al fenomeno carsico detto dalla tradizione popolare “u vull’ j l’acqua”, di cui mi sono occupato in un altro mio saggio. La Torre detta di “Capobianco” o di “Capo Bianco“, era ancora visibile nel 1828, allorquando il viaggiatore inglese Craunfurd Tait Ramage (21), la vide e la citò nel suo ‘Viaggio nel Regno delle due Sicilie’. Ecco cosa scriveva in proposito lo scrittore e viaggiatore inglese Craufurd Tait Ramage (21), letterato scozzese, precettore dei figli del Console Inglese presso la corte borbonica di Napoli che, nell’Aprile del 1828, intraprese un viaggio a piedi nel Regno delle due Sicilie, arrivando sino a Sapri ed oltre parte della Calabria: Ritrovai la barca ad una punta che costituisce una delle estremità del porto. Le due estremità di questo sono protette da due Torri, quella ad ovest si chiama Buondormire e l’altra ad est, Lubertino.”. Il fenomeno carsico del “Vullo di acqua”, venne bene descritto dallo scrittore e viaggiatore scozzese Croufurd Tait Ramage (….), che nel 1828, nel suo “Viaggio nel Regno delle due Sicilie“, lo descriveva. Leggendo la sua traduzione in “Attraverso il Cilento” con introduzione di Raffaele Riccio, edizione dell’ippogrifo il Ramage (….) a pp. 137-138, dopo aver parlato di Sapri, del suo porto e delle sue Torri, continuando il suo racconto ci descrive quando è sulla barca diretto a Maratea. Ramage in proposito scriveva che: “Fui felice di risalire in barca, perchè il riverbero del sole sulla sabbia rendeva pesante qualsiasi sforzo. Mentre avanzavamo le montagne si avvicinavano sempre più alla riva, fino a sovrastare il mare. Il sentiero tortuoso si snodava lungo i pendii dei monti, ecc…Mentre stavamo procedendo in direzione di Maratea i marinai mi parlarono dell’esistenza di un curioso fenomeno, e mi rammaricai di non averlo potuto vedere, prima di lasciare Sapri. Mi dissero che vicino a Sapri, nei pressi di una roccia chiamata Scialandro, emerge dal fondo del mare una polla d’acqua, che esce con tale forza da creare una corrente d’acqua dolce nel bel mezzo di quella salata e mi dissero pure che, quando il mare è calmo, è possibile bere l’acqua dolce, perchè questa non si mischia con quella salata, quando invece tira il vento essa si vede solo ribollire in mezzo al mare.”. Il Ramage si riferiva al fiume sotterraneo di natura carsica, che ancora oggi scorre nei pressi dello scoglio dello Scoglio dello ‘Scialandro’, ed in particolare parla della polla d’acqua che ribolle sul pelo dell’acqua del mare prospiciente il tratto di costa che lo separa dallo scoglio detto dello ‘Scialandro’ (Fig. 2), che figura e viene indicato anche nella carta che abbiamo pubblicato (Fig. 1). La polla d’acqua di cui ci riferisce C.T. Ramage (4), la tradizione popolare l’ha sempre chiamato ‘ u vull j l’acqua ( il significato dialettale di ‘u vull‘ è di ‘bollire’), ovvero il ribollire di polle di acqua sul pelo dell’acqua di mare, proprio nel tratto di mare antistante lo scoglio dello Scialandro e dovuto alla sorgente d’acqua dolce del fiume carsico e sotterraneo  che in quel punto sgorga direttamente con tale forza da fare ribollire il pelo dell’acqua del mare e visibile ad occhio nudo. Altri eruditi che, nel 1700, riferirono alcune notizie su Sapri è stato Beltrano (5) e Pacicchelli (6). Un altro erudito del tempo che ci ha parlato del fiume Lubertino o Obertino e del ‘U vull j l’acqua è stato il dott. Nicola Gallotti, che, dopo l’Unità d’Italia, fu eletto primo Sindaco di Sapri, esercitando nel contempo la professione medica a Sapri e di cui oggi ci restano testimonianze alcuni suoi scritti a stampa (di cui ne posseggo due). Al di là delle osservazioni prettamente mediche che il dottore Gallotti faceva e descriveva, risultano essere un’interessante testimonianza del nostro passato in quanto in essi vengono raccontate alcune notizie di storia locale ed altro. Ad esempio si parla di un fiume carsico sotterraneo che nasce dalla vicina montagna e che sfocia a mare all’altezza dello scoglio dello Scialandro, nei pressi della località detta “Sciarapotamo”, dove passando dal mare si può vedere ancora a pelo d’acqua “u vull’ j l’acqua”, in dialetto il ribollire dell’acqua del mare (7). La natura carsica dei luoghi nei pressi della baia saprese, la presenza del Monte Ceraso è attestato dalla presenza di numerose sorgenti come ad esempio la sorgente dell’Acqua media nei pressi del porto. Questa sorgente di acqua dolce, mista a quella salata di mare, che sgorga ai piedi del costone roccioso nei pressi del porto, si mischiava con l’acqua di mare salata ed è per questo motivo che veniva utilizzata nell’antichità dalle popolazioni locali per le sue qualità purgative. Tutto il territorio che si affaccia sulla costa saprese e soprattutto quello che va verso Acquafredda, ha una natura ed una conformazione geologica di natura carsica con corsi d’acqua sotterranei e sorgenti che qua e la affiorano e che in passato hanno permesso il diffondersi di masserie in quelle aspre montagne come all’Orto delle canne o in località Fenosa e Vigne ecc… Da ragazzo, mio nonno mi mandava a prendere quest’acqua in quanto essa aveva notevoli qualità purgative e depurative. La particolare salinità di questa acqua, gli donava proprietà depurative e purgative. Alla fonte sgorga un’acqua leggermente salina a causa della vena d’acqua carsica che arriva dalla montagna e si mischia con quella salata del mare. La prima citazione che ritroviamo sul fiume di cui parliamo è quello della carta corogra- fica illustrata nella prima immagine (Fig. 1) Carta del’Principato Citra – Regno di Napoli‘, di probabile epoca Aragonese (2). Nella carta corografica manoscritta ‘Principato Citra – Regno di Napoli‘, di probabile epoca Aragonese (XV secolo), da me scoperta all’Archivio di Stato di Napoli (Fig. 1)(2), il fiume figura come “Fiume Lubertino” o ‘Obertino’. La carta di Fig. 1, è di notevole importanza per l’entroterra saprese e per la sua storia, in quanto in essa figurano tantissimi toponimi interessanti. Nella carta, dunque, viene citato questo fiume carsico sotterraneo che scorre nella montagna e sfocia in mare aperto e, la carta lo chiama “Fiume “Lubertino”, che si vede disegnato sulla terra ferma, lungo la costa di Sapri in direzione di Acquafredda e proprio di fronte allo Scoglio dello ‘Scialandro‘ (Fig. 3). Guardando la carta (di probabile epoca aragonese) (Fig. 1), il fiume Lubertino, doveva nascere da due sorgenti, una è nei pressi di Torraca e l’altra invece è la ‘Serra Corbara’, delle montagne poste prima di Lagonegro, forse in località ‘Fortino’. In seguito, il fiume, sarà citato anche dall’Antonini (3) che, nella sua ‘Lucania’ del 1745 (I° edizione) e poi nel 1797, per i tipi di Tomberli, lo chiamava ‘Obertino’. Nei pressi di questo fiume, oggi si vede solo la Torre cavallara vicereale di ‘Capobianco’ ma, più anticamente vi era nello stesso luogo la Torre detta dell’ ‘Obertino’. Io credo che la Torre ‘Obertino’, che nel XIX secolo era chiamata Torre di Capobianco, prendesse il nome proprio dal fiume carsico sotterraneo. Antonini (3) nei sui Discorsi (XI), nel 1745, così scriveva: “Ritornati al mare di Sapri, e ad oriente secondo l’intrapreso corso, camminando, trovasi allo scoglio detto Scialandro, sorgere in mare un notevole fiume, chiamato Obertino, la di cui acqua nei giorni di calma si può bere senza che sia con quella del mare mischiata, ma nei tempi di mediocre agitazione è coverto o confuso, ne si vede, che il solo suo gorgogliare. Or da quì sino alla marina di Maratea, che n’ è sette miglia lontano, e ch’ è una catena di continuati dirupatissimi alti scogli ( i frontoni), si trovan varie sorgive, e ruscelli di dolcissime acque, e da quando in quando delle grotte, ove i colombi fanno lor nidi, e l’està vi è deliziosa caccia di essi, che anche io due volte con sommo piacere ho…” (3). L’Antonini (3) si riferiva al fiume sotterraneo di natura carsica, che ancora oggi scorre nei pressi dello Scoglio dello Scialandro, che l’Antonini (3) chiamava “fiume Obertino“, in prossimità della torre Vicereale omonima, oggi scomparsa. Come l’Antonini (3) che pure era stato a visitare Sapri e questi luoghi, gli antichi scrittori e viaggiatori, raccoglievano sul posto informazioni dagli abitanti del luogo ma prendevano sempre spunto da vecchie mappe o carte manoscritte come ad esempio la carta che quì pubblichiamo (Fig. 1) che è di sicuro una copia di una carta molto più antica e risalente all’epoca Aragonese (2).

La fascia costiera di Sapri, dalla protostoria all’epoca romana

Nel 1995, in occasione della stesura del nuovo Piano Regolatore Generale del Territorio di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte, fui incaricato dal Comune di Sapri di redigere uno studio di Analisi e Storia. Nell’Aprile del 1995, consegnai a mia firma la Relazione sull’“Analisi sull’Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“. Nello studio, raccoglievo e citavo tutti i miei precedenti studi fatti sulla zona di Sapri, i documenti e le testimonianze del passato che da anni erano stati oggetto dei miei studi. Nella Relazione, a p. 7, parlando di alcuni rinvenimenti riferibili ad un’epoca precedente a quella romana, citavo le archeologhe Carla Antonella Fiammenghi e Rosanna Maffettone, che in un loro pregevole studio sulle ricognizioni e ricerche nel Golfo di Policastro (…) così si esprimevano: “La lettura globale dei dati raccolti lascia immediatamente   intravvedere una documentazione straordinariamente ricca per le fasi più antiche della presenza umana dell’ambito in esame. Essa, infatti, si estende per lungo periodo che va dal Paleolitico inferiore sino all’età del Bronzo.”(7). Nella mia nota (7), postillavo che: “(7) Fiammenghi C.A., Maffettone R., ‘Ricognizioni e ricerche effettuate nel Golfo di Policastro’, stà in “A Sud di Velia – I, Ricognizioni e ricerche 1982-1988.”, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, Taranto, 1990, pag. 36.”. Continuando il mio racconto in proposito scrivevo che: “La carenza di documentazione dal Bronzo finale e per la successiva età del Ferro, peraltro più volte sottolineata, sembra allo stato attuale dalle indagini, da connettere probabilmente più alla lacunosità delle ricerche che non ad una effettiva mancanza di testimonianze.”. Continuando il mio racconto, citavo ciò che in proposito scriveva l’archeologa Giovanna Greco (…) e scrivevo che significativo in proposito è quanto scriveva a p. 18, dell’op. cit:  “; ed infine, estremamente significative sono le tombe recuperate a Torraca (22) i cui corredi si dispongono tra la fine del V ed il IV sec. a.C. e dove la presenza di armi, tra cui un bel frammento di cinturone di tipo sannitico, associato a materiale figurato e, per i corredi più antichi, a ceramica attica della fine del V secolo, evidenziano una diffusa occupazione del territorio da parte di comunità lucane che, già negli anni finali del V sec., organizzano forme articolate di sfruttamento del territorio usufruendo attivamente dei traffici coloniali lungo la costa ed occupando quelli che erano i territori delle città coloniali di Scidro e Pixunte (23).”. Giovanna Greco, a p. 18, nella sua nota (22), postillava che: “(22) W. Johannowsky, Atti, XXII, CSMG, Taranto, 1982, p. 422.”. Johannowski, citato dalla Greco, si riferiva ai ritrovamenti fatti in località Madonna dei Cordici. La Greco (…), nella nota (23), postillava che: “(23) Il modello di “colonizzazione indigena della costa” proposto per la prima volta da E. Greco va sfumato ed articolato in quel più complesso fenomeno di incontro-scontro tra le diverse realtà cantonali indigene e quella greco-coloniale dove la possibilità di una comune gravitazione tirrenica consente la partecipazione alle grandi vie di traffico commerciale marittimo ed all’interno, con il controllo dei valichi, forme di contratatto e grado di intensità di traformazioni di volta in volta differenti ed articolati.”. A p. 7, continuavo il mio racconto e parlando di ‘Scidro’, citando l’Archeologa Giovanna Greco (…), in proposito scrivevo che ella, in un suo scritto, sosteneva che: “Il recente recupero a Sapri alle falde della collina del Timpone, di materiale ceramico sia di tipo ionico a fasce che attico a vernice nera pertinente alla fase arcaica ripropone il problema dell’ubicazione di Scidro.” (…). Fernando La Greca (…), più tardi, scriverà: “Molto significativi sono i ritrovamenti di Torraca: in località Madonna dei Cordici, collina con vista su Sapri, nel 1982 durante lavori stradali furono scoperte e purtroppo in gran parte distrutte alcune tombe a cassa in tegole di fine V/prima metà del IV secolo; fra i materiali recuperati, una cuspide di lancia, un coltello, una kylix attica di fine V secolo, vasi a vernice nera, tra cui un frammento figurato di un cratere, frammenti di un cinturone di bronzo di tipo sannitico (…). Tutto ciò evidenzia una diffusa occupazione del territorio da parte di comunità lucane che, già negli anni finali del V secolo, organizzando forme articolate di sfruttamento del territorio ecc.. (…).. Carla Antonella Fiammenghi e Rosanna Maffettone, nello stesso testo, a p. 38, in proposito ai rinvenimenti nell’area scrivevano che: “I rinvenimenti di ceramica a vernice nera della fine del V sec. a. C. da Vibonati (loc. S. Lucia), Tortorella (loc. Reggiano), Torraca (loc. Madonna dei Cordici) e Sapri stessa (loc. S. Croce), sono già da correlare ad una trasformazione dell’assetto territoriale legata al fenomeno della “sannitizzazione”.”.

Nel VI-VII sec. a.C., l’insediamento “Lucano” al Timpone di Sapri

Riguardo gli antichi insediamenti d’epoche passate presenti nell’area Saprese, andrebbe ulteriormente e meglio indagata la notizia citata dallo studioso Domenico Di Lascio (…), nel suo ‘Dal Sele al Lao – le vie Romane del Lagonegrese’, dove a p. 121, parlando di Sapri, citava una notizia tratta dalla studiosa Paola Bottini (…), in ‘Archeologia, Arte e Storia alle sorgenti del Lao’, ed in proposito scriveva che: “In località “Timpone” è venuto alla luce un sito antropico risalente al VII-VI secolo a. C. simile a quello trovato in prossimità della foce del Busento nei pressi di Policastro Bussentino (CAS95).”. Il Di Lascio (…), a p. 62, spiegava il significato di GAS, scrivendo che: “I dati emersi della ricerca Archeologica vengono analizzati e tratti dalle seguenti opere: CAS – (Castelluccio), P. Bottini, Archeologia Arte e Storia alle sorgenti del Lao.”. In effetti, il testo della Bottini stà nel Catalogo della mostra a Castelluccio (PZ) che fu curato da Paola Bottini e la prefazione di Dinu Adamesteanu. Paola Bottini ed altri autori, hanno parlato approfonditamente degli insediamenti e dei recenti ritrovamenti archeologici negli Atti del Convegno che si tenne a Taranto nel 1990 e pubblicati in AA.VV. (…), ‘A Sud di Velia – I, Ricognizioni e ricerche 1982-1988′, a cui rinvio per gli opportuni approfondimenti. Nel testo citato, a p. 17, la studiosa Giovanna Greco, in proposito scriveva che: “Un recente recupero a Sapri, alle falde della collina del Timpone, di materiale ceramico sia di tipo ionico a fasce che attico a vernice nera pertinente alla fase tardo arcaica ripropone il problema dell’ubicazione di Scidro (16) subcolonia sibarita dove, secondo Erodoto, si rifugiarono i Sibariti dopo la distruzione della propria città (Her. VI, 21).”. Nello stesso testo, da p. 34 e sgg., nella ricognizione dei ritrovamenti nel territorio saprese, le studiose Fiammenghi e Maffettone (…), non citano nulla di quanto affermato dal Di Lascio (…), sulla scorta della Bottini (…), ma citano alcuni significativi ritrovamenti fatti in località ‘Canale’ e ‘Giammarone’. In particolare io credo che la Bottini (…), si riferisca all’insediamento “stagionale” ritrovato in località “Carnale”, a cui rimando per gli opportuni approfondimenti. In particolare la Bottini (…), in questo testo, pubblicò “La ricerca Archeologica nell’area del Lagonegrese”, dove però la Bottini, connette i ritrovamenti in località “Colla”, nel territorio di Rivello, con i porti Velini ecc..

Nel VII sec. a.C., l’insediamento arcaico in località Carnale a Sapri

Nel 1998, nella mia Relazione per l’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, redatta per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, in proposito scrivevo che:  “Le archeologhe Carla Antonella Fiammenghi e Rosanna Maffettone,in un loro pregevole studio sulle ricognizioni e ricerche effettuate nel Golfo di Policastro (6) così si esprimevano: “La lettura globale dei dati raccolti lascia immediatamente intravvedere una documentazione straordinariamente ricca per le fasi più antiche della presenza umana dell’ambito in esame. Essa, infatti, si estende per lungo periodo che va dal Paleolitico inferiore sino all’età del Bronzo.”(7). Nella ‘grotta Cartolano’, il Gruppo Archeologico di Sapri segnalava la presenza di testimonianze genericamente riferibili all’età del Bronzo. (8). Nella ‘grotta Mezzanotte’, ubicata sulla costa ad est di Sapri, vi si conserva un giacimento paleolitico dello spessore di m. 5 caratterizzato da livelli contenenti industria litica di tipo musteriano (9). In località Chiappaliscia, nei pressi della ‘Torre Mezzanotte’, a poca distanza dalla scogliera, in corrispondenza di un riparo sotto roccia, (‘Riparo Smaldone’ dal nome dello scopritore), si conserva un giacimento paleolitico contenente livelli con industria litica di tipo musteriano (10).”. Tuttavia, sia pure attraverso la semplice lettura dei dati di superficie, si moltiplicano le evidenze che consentono di rilevare una presenza nel corso dell’età del Bronzo articolata prevalentemente in due distinte fasce di occupazione. L’una, in corrispondenza del litorale,è attestata in grotte e su alcune dominante il mare ( è il caso della Grotta del Noglio, di quella della ‘Cala dei morti’, e della Grotta Grande, lungo la costa tra Marina di Camerota e Scario e quella Cartolano a Sapri), l’altra si disloca in prossimità della costa presso aree ricche di sorgenti e corsi d’acqua (come nel caso delle testimonianze della Valle del Mangano, presso Scario e della ‘Carnale’, presso Sapri). La carenza di documentazione dal Bronzo finale e per la successiva età del Ferro, peraltro più volte sottolineata, sembra allo stato attuale dalle indagini, da connettere probabilmente più alla lacunosità delle ricerche che non ad una effettiva mancanza di testimonianze. Indicativi in tal senso sono due elementi, entrambi da ritrovamenti occatamente significative sono le tombe recuperate a Torraca (17) in località “Madonna dei Cordici” (tra Sapri e Torraca),i cui corredi si dispongono tra la fine del V ed il IV sec.a.C. e dove la presenza di armi, tra cui un bel frammento di cinturone di tipo sannitico, associato a materiale figurato (18) e, per i corredi più antichi, a ceramica attica della fine del V secolo, evidenziano una diffusa occupazione del territorio da parte di comunità lucane che, già negli anni finali del V sec., organizza no forme articolate di sfruttamento del territorio usufruendo attivamente dei traffici coloniali lungo la costa ed occupando quelli che erano i territori delle città coloniali di Scidro e Pixunte.”. Nella Relazione a mia firma, nelle mie note postillavo che: “(6)   Cesarino Felice, Un probabile stanziamento preromano in Sapri, stà in ” G.A.S, L’attività archeologica nel Golfo di Policastro”, Sapri, 1976, p. 8. (7) – Fiammenghi C.A., Maffettone R.,” Ricognizioni e ricerche effettuate nel Golfo di Policastro”, stà in “A Sud di Velia – I, Ricognizioni e ricerche 1982-1988.”, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, Taranto, 1990, pag. 36.  (8) – Carbone G. et Alii, “Ricerche preistoriche nel Golfo di Policastro”, stà in “Atti I Convegno gruppi archeologici dell’Italia Meridionale”, Prato Sannita, 1986, p. 94. (9)   Gambassini P. et Alii, “Notiziario”, stà in “Rivista Scienze Preistoriche”, XXXVI, 1-2, 1981, p. 313. (10)  ibidem. (11)  Per il problema della colonizzazione “indigena della costa” si veda più recentemente Greco Emanuela, “Laos I, Scavi a Marcellina”, 1973-1985, Taranto, – 1989, p. 46. (12)  Fiammenghi C.A., Maffettone R., op. cit., p. 38. (13)  Carbone C., op. cit., Viareggio 1989. (14)  Zancani Montuori P., “Siri Sirino, Pixunte”, stà in “Archivio storico Calabria e Lucania”, 1949. (15)  Vedi “L’attività archeologica nel Golfo di Policastro – I”, AA.VV., 1976. (16)  Napoli Mario, Civiltà della Magna Grecia, Eurodes, p. 181. (17)  Greco Emanuela, Dall’Alento al Mingardo, stà in “A Sud di Velia-I-ricognizioni e ricerche 1982-1988″, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, Taranto, 1990, p. 17. (18)  Johannowsky Walter, Atti XXII Congresso sulla Magna Grecia, Taranto, 1982, p. 422.”. In questi studi e pubblicazioni ritroviamo i risultati di anni di ricerca del Gruppo Archeologico del Golfo di Policastro, dei suoi componenti tutti che hanno contribuito a restituire ulteriore luce ai ritrovamenti di manufatti e nuovi insediamenti, ormai caduti nell’oblio e nell’incuria. Angelo Gentile (….), nel 2001, nel suo “Morigerati”, nell’Introduzione al testo, a p. 12, in proposito scriveva che: “Interessanti, per il presente lavoro, i resti dell’insediamento in località Carnale a 2,5 km ad est di Sapri, tra il vallone del Franco e la stradina della Carnale (7). La zona, infatti, era un punto obbligato per chi volesse raggiungere la Valle del Noce e quindi recarsi sulla costa ionica: non dimentichiamo che è stata ipotizzata, da più parti, l’esistenza di una strada che metteva in comunicazione le poleis Pixous e Siris, frequentata sia in età greca che romana, evidentemente su percorsi già conosciuti o praticati. Grazie a questi rinvenimenti, che gli esperti fanno risalire a 1400-1200 anni a.C., possiamo anticipare la percorrenza e il controllo della via di comunicazione Golfo di Policastro-Golfo di Taranto, o per lo meno il passaggio di genti nomadi, per l’attività predominante, la pastorizia, che vivevano nella zona del Siris e la vallata del fiume Noce, tenuto anche conto dei ricchi pascoli che costituiscono le valli tra il Monte Coccovello Serralunga, Cocuzzo, Pannello, Juncolo e l’abbondanza delle acque per l’abbeveraggio del bestiame. Questi insediamenti si differenziano da quelli costieri, citati, per la presenza di numerosi gruppi, non i solati, dediti all’allevamento del bestiame, mentre gli insediamenti costieri predilivano, tra le attività di sostentamento, la pesca e la raccolta di molluschi affiancata dalla produzione e lo scambio di manufatti. La fase finale del Bronzo (XI-X secolo a.C.) è tutt’ora in fase di studio ecc…Ugualmente poco conosciuta, per il Golfo di Policastro, l’età del Ferro, per la quale bisognerà attendere il VI sec. a.C., in piena colonizzazione greca, per avere testimonianze certe, quali la fondazione di Pyxous che utilizza monete in comunione con Siris, ecc..”. Gentile, a p. 26, nella sua nota (7) postillava che: “(7) Battista Ezio., citato, pag. 272.”. Il Gentile, a p. 26, nella sua nota (1) postillava che: “(1) FI. Battista E.., Su un insediamento dell’età del bronzo in località Sapri, Preistoria d’Italia, Atti del 2° Convegno naz.le di Preistoria e Protostoria, Pescia, 6-7-8 dic. 1980.”. Il Gentile, a p. 26, nella sua nota (7) postillava dell’insediamento di cui aveva relazionato il Battisti e scrive che: “(7) Si sviluppa per un fronte di 500 metri ed una profondità di alcune centinaia di metri. L’insieme presenta i caratteri del castelliere, infatti parte da una quot di 120 metri per arrivare a quota 170. Questo insediamento “si sviluppò verso la fine dell’età del Bronzo, quando si diffuse nell’Italia centro-meridionale la cultura sub-appenninica. La tipica situazione topografica, su alture isolate e la disposizione a catena in modo da controllare ampi settori, e dominare vie di facilitazione e valichi, è riscontrabile anche nel nostro caso dove altre alture a castelliere sono presenti nei dintorni.”. I rinvenimenti constano in frammenti di ceramica a due tipi d’impasto, per i grossi contenitori decorazione plastica, per i piccoli puntiforme. La presenza di fornelli in terracotta, il rinvenimento di un pane di arenaria, forse un macinello per il grano, la varietà e la quantità dei reperti, la loro dislocazione su vasta area fanno presupporre la esistenza di uno stanziamento a cielo aperto dell’età del bronzo, ad economia agricola-pastorale.”.

carnale

Nel 471 a. C. (V sec. a.C.), Pyxous (la Buxentum dei Romani), colonia di Micito di Reggio

Nella mia Relazione sull’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte, nel 1998, in proposito al toponimo di “Scidro” scrivevo che: Strabone (23), così dice: “Dopo Palinuro, il porto e il fiume di Pyxus; unico, infatti, è il nome di tutti e tre. La popolò Micito di Reggio, il signore di Messene in Sicilia, ma gli abitanti andarono via di nuovo, tranne pochi. Dopo Pyxus un’altro golfo e il fiume e la città di Laos, ultima tra le città lucane, poco elevata sul mare colonia di Sibari a 400 stadi da Elea.”. Il barone Giuseppe Antonini (…), nel 1745, nella sua “La Lucania”, nella parte II, a p. 374, parlando di Pyxus, in proposito scriveva che: “Su questa città col nome di ‘Pyxus’ edificata da Micito Signor di Reggio, e di Messina l’anno secondo dell’Olimpiade LXXVII. (I), essendo Arconte in Atene Passiergo; anno notabile, per essere in esso stato Temistocle dalla patria bandito. Ecco come di sua fondazione ‘Diod. Sicol.’ nel lib. XI. ragiona: “Athenis summum gerente Migistratum Praxiergo, in Italia Mycithus Rhegii, & Zancles Princeps, urben condidit Thexunta”. Altri pretendono, che leger si debba ‘Pyxunta’, che sarebbe il più vicino a ‘Pyxus’; e Strabone disse di questa: “Condidit Mycithus Messanae in Sicilia Princeps”. Appresso Tolomeo nella Tavola VI di Europa trovasi chiamata col nome di ‘Pyxus’, che’l traduttor chiama in latino ‘Buxentum’; el P. Arduino’ nel 3. di Plinio disse, che Pixus sia Policastro (2). Due luoghi in Stefano Bizantino si leggono, ove di ‘Pyxus’ si fa menzione, ambidue erronei. In uno si dice: “Pyxus urbs iciliae” (quando è in Italia) opus Mianthi”, in cambio di dir ‘Micythi’; osservazione quest’ultima già prima fatta dall’eruditissimo ‘Salmasio’. Nell’altro leggesi: “Pyxus urbs in mediterraneo Oenotrorum, gentile Pyxus”; ed in questo altamente ingannossi, situandolo fra terra, quando era al mare, ecc…”. Riguardo Pyxous colonia di Micito di Reggio, ha scritto Ettore Pais. Nel 1925, Ettore Pais (…), nel suo “Storia dell’Italia antica”, vol. I, Libro II, cap. V, nel suo “Le vicende di Sibari e di Crotone”, a pp. 295 e sgg e sgg, in proposito scriveva che: Rispetto a PYXOUS apprendiamo che più tardi (nel 471 a. C.) l’arcade Micito, tutore dei figli di Anassilao di Regio, vi condusse una colonia. Regio mirava da un lato a seguire la secolare politica di ostilità contro i pirati Tirreni, dall’altro, avendo relazioni nell’Ionio, cercava controbilanciare, anzi render vana, la concorrenza delle città Achee. Raggiungendo da Buxentum i monti che sovrastano a Sapri e discendendo poi verso le coste dello Ionio nella Siritide, Regio, divenuta signore di Pyxous, si collegava con Taranto invisa agli Achei di Metaponto, di Sibari e di Crotone.”. Emanuele Ciaceri (…), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. I, nel capitolo “Cap. IX – Da Clampezia a Lao e da Velia a Posidonia”, a p. 275 parlando di Pixunte (attuale Policastro Bussentino scriveva che: “Quando al tempo delle origini di Pixunte, gli stateri stessi, dei quali abbiamo fatto menzione, ne attestano già l’esistenza intorno alla metà del sec. VI; onde puossi ritenere che fosse sorta qualche decennio innanzi; chè, del resto, la notizia di Diodoro che Micito, tutore dei figli di Anassilao e come tale reggente di Reggio e di Zancle, nell’anno secondo dell’Olimpiade 77°, e cioè l’a. 471 a. C., fondò la colonia di Pixunte, devesi intendere nel senso che vi portasse  coloni reggini e non che allora quella avesse vita per la prima volta. Ciò ha poi anche il significato che Pixunte allora era di già spopolata o abbandonata: il che farebbe pensare che, caduta Siris, non sorte migliore essa abbia avuto, prima che venisse a termine il sec. VI. Nè lunga durata ebbe la nuova colonia; che sembra abbia cessato di vivere appena il potente Micito, per istigazione di Ierone siracusano fu costretto a lasciare Reggio e a riparare a Tegea in Arcadia (1). Nè Sibari, d’altra parte, godè a lungo delle ingenti ricchezze tratte da codesta politica commerciale, che nel Tirreno faceva estendere la sua influenza sino a posidonia, la più autorevole delle sue colonie.”. Emanuele Ciaceri, a p. 274, nella sua nota (4) cita anche Ettore Pais (…). Il Carucci a p. 274, nella sua nota (4) postillava che: “(4) v. PAIS, op. cit., II, p. 128.”. Il Ciaceri citava l’altra opera del Pais ma io possesso la “Storia dell’Italia Antica” del Pais. Infatti, nel 1925, Ettore Pais (…), nel suo “Storia dell’Italia antica”, vol. I, Libro II, cap. II, nel suo “Relazioni commerciali degli Etruschi con i Greci dell’Italia meridionale, particolarmente con i Sibariti e con i Milesi etc…”, a pp. 200 e sgg, riferendosi alla città greca e Ionica di Sibari in proposito scriveva che: Quivi essa aveva stretto rapporti con gli Etruschi mediante gli scali delle sue colonie di LAOS e di SKIDROS situate nell’altro versante dell’Appennino sulle coste del Tirreno; da qui le merci giungevano fino a Posidonia, ossia a Pesto. Posidonia giovava ai Sibariti per accentrarvi lo scambio di commerci fra Etruschi e Greci reso difficile dai coloni delle città di Regio e di Messane, gelose dominatrici dello Stretto.”. Nel 1925, Ettore Pais (…), nel suo “Storia dell’Italia antica”, vol. I, Libro II, cap. V, nel suo “Le vicende di Sibari e di Crotone”, a pp. 295 e sgg e sgg, parlando di Pixunte in proposito scriveva che: Rispetto a PYXOUS apprendiamo che più tardi (nel 471 a. C.) l’arcade Micito, tutore dei figli di Anassilao di Regio, vi condusse una colonia. Regio mirava da un lato a seguire la secolare politica di ostilità contro i pirati Tirreni, dall’altro, avendo relazioni nell’Ionio, cercava controbilanciare, anzi render vana, la concorrenza delle città Achee. Raggiungendo da Buxentum i monti che sovrastano a Sapri e discendendo poi verso le coste dello Ionio nella Siritide, Regio, divenuta signore di Pyxous, si collegava con Taranto invisa agli Achei di Metaponto, di Sibari e di Crotone.. Emanuele Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (3) postillava che: “(3) v. ad es. Corcia, Storia delle due Sicilie, III, p. 65”. Riguardo l’opera del Corcia citata dal Ciaceri, si tratta di Nicola Corcia (…), vol. III della sua “Storia delle Due Sicilie dall’antichità più remota al 1789”, a pp. 61-62 e ssg parlando del “promontorio, porto e fiume Pissunto, o Bussento”, in proposito scriveva che: “Su questo porto, anzichè nella stessa città di ‘Pissunto’ o ‘Bussento’, io credo si stanziasse nel 2° anno dell’Olimpiade LXXVII (471 a. C.) la colonia speditavi da Micito, il quale pè figliuoli di Anassilao reggeva le città di ‘Reggio e Messene. Di questa colonia parlano Diodoro Siculo e Strabone, e sappiamo dal geografo, che dopo breve tempo abbandonava il luogo (1), per unirsi forse agli abitatori di qualche altra città vicina.”. Il Corcia, a p. 62, del vol. III, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Diodoro Siculo, XI, 59, 4; Strabone, VI, p. 253.”. Dunque, Nicola Corcia citava l’opera di Diodoro Siculo (…) e Strabone. Diodoro Siculo (in greco antico: Διόδωρος Σικελιώτης, Diódōros Sikeliṑtēs; Agyrium, 90 a.C. circa – 27 a.C. circa) è stato uno storico siceliota, autore di una monumentale storia universale, la Bibliotheca historica. Il testo di Diodoro Siculo si può scaricare gratis sul sito della BEIC. Dunque, Diodoro Siculo, nel suo “Bibliotheca historica”, cap. XI, 59, 4, ci parla del passaggio di Micito di Reggio. Oreste Dito (….), nel suo “Notizie di Storia Antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892, nella ristampa anastatica ed. Brenner, Cosenza, a pp. 68-69 parlando di Reggio e di Pyxus, in proposito scriveva che: “Micito non resistette dal continuare la sua politica contro Ierone, e mentre questi colonizzava le isole di fronte al Miseno, egli rinovellava l’antica Pyxus (77, 2; 471 av. C.). Lo scopo di tale rinovellamento era chiaro; i Reggini, già alleati di Velia e forse anche di Posidonia, avrebbero avuto in Pyxus un punto avanzato a guardia del Tirreno; non solo, ma riaperta l’antica via mediterranea che faceva capo a Siri, si sarebbero facilitate le comunicazioni e gli scambi commerciali con Siri e con Tarento tra l’Ionio ed il Tirreno.”. Dunque, in questo passaggio Oreste Dito ci parla di Pyxus, che non chiama più Pyxous.

La “città d’Avenia”, città etrusca

Sulla scorta di questa notizia, Luigi Tancredi (Tancredi Luigi, Il Golfo di Policastro, Napoli, 1976, e pure in ‘Sapri giovane e antica‘, ed. Parallelo 38, Villa S. Giovanni, 1985, p. 280), nel pubblicare il documento notarile (22) al posto di “Velia”, riporta “Avenia“, p. 23 e, successivamente il Guzzo, “Da Velia a Sapri, Itinerario costiero tra mito e storia”, ed. Palumbo, Cava dei Tirreni, 1978, p. 220), affermavano, che tra i rioni di Santa Croce e della Marinella sarebbe sorta “Avenia” di origine etrusca. Il Guzzo così si esprimeva: “Quando i romani vollero conquistarla, divampò una guerra furibonda tra i due popoli, ma la città contesa non rimase in possesso nè degli uni nè degli altri in quanto un tristegiorno colpita da un terribile sisma, venne inghiottita dal mare con tutti i suoi abitanti.. Sulle probabili origini Etrusche di Sapri ha scritto Ettore Pais. Nel 1925, Ettore Pais (…), nel suo “Storia dell’Italia antica”, vol. I, Libro II, cap. II, nel suo “Relazioni commerciali degli Etruschi con i Greci dell’Italia meridionale, particolarmente con i Sibariti e con i Milesi etc…”, a pp. 200 e sgg, in proposito scriveva che: “Gli Etruschi raggiunsero poi la Campania. Apprendiamo da Dionigi di Alicarnasso che nel 524 a. C. in compagnia di molti popoli barbari, come Umbri e Dauni, tentarono di conquistare la città greca di Cuma. Ma i Cumani ricacciarono ecc…Da vari dati si ricava che alcune città della Campania furono soggiogate o fondate dagli Etruschi…..E’ bensì vero che verso la metà del V secolo i Sanniti si sovrapposero agli Etruschi nella Campania;…..Gli Etruschi occuparono il paese degli Oschi fino a Marcina posta non lungi da Salerno. Anche l'”ager Picentinus” limitrofo al Silaro venne in loro potere; il fiume che ivi scorre si chiama anche oggi Tusciano. Gli Etruschi non oltrepassarono tuttavia, per quel che pare, la foce del Silaro, ove era la colonia greca di Posidonia (Pesto). Posidonia era colonia di Sibari; alla sua fondazione avevano concorso anche abitanti della peloponnesia Trizene. Apprendiamo dagli antichi che gli abitanti di Sibari erano congiunti da stretta amicizia con gli Etruschi. A prima vista la notizia appare strana, date le rivalità che esistevano fra Greci e Tirreni, considerando per giunta la distanza e la situazione delle due città. Se si tien però conto che Pesto era colonia di Sibari, la notizia riesce chiara. Sibari esercitava il suo commercio risalendo il corso del Crati ed importando merci greche particolarmente sulle coste del Tirreno. Quivi essa aveva stretto rapporti con gli Etruschi mediante gli scali delle sue colonie di LAOS e di SKIDROS situate nell’altro versante dell’Appennino sulle coste del Tirreno; da qui le merci giungevano fino a Posidonia, ossia a Pesto. Posidonia giovava ai Sibariti per accentrarvi lo scambio di commerci fra Etruschi e Greci reso difficile dai coloni delle città di Regio e di Messane, gelose dominatrici dello Stretto.”, e poi a p. 205 scriveva che: “Comprendiamo che attraverso il commercio dei Sibariti giungevano svariati prodotti dell’Asia. Soprattutto i Milesi diffondevano merci preziose, etc…”. Il Pais, a p. 358, vol. I, nelle sue note al Libro II postillava che: “p. 205. Le mie osservazioni sulle relazioni commerciali dei Sibariti, dei Milesi e degli Etruschi, sull’estensione della potenza Etrusca ecc.., esposi e documentai in miei libri precedenti, (Storia della Magna Grecia; Italia Antica). Ivi ho raccolto e discusso testi e materiali antichi.”.

Luigi Tancredi e la “Città di Avenia”

Il sacerdote Luigi Tancredi (3), scriveva in proposito: “La leggenda narra che lungo la fascia costiera esistesse un borgo consistente, che aveva nome Avenia, fondato dagli Etruschi (4). Volendosene impadronire i Romani, arse la guerra fra i due popoli, ma la città non rimase in possesso nè degli uni nè degli altri, perchè un triste giorno venne inghiottita dal mare.”. Il Tancredi aggiunge in proposito: “E’ certo che un’antica famiglia romana portava il nome di Avenia e questo cognome esiste tutt’ora a Torraca.”. Lo studioso in proposito così si esprimeva: Poco valida è l’intepretazione ‘Saprì’, cioè si aprì: la terra si sarebbe aperta ed avrebbe inghiottito, appunto per evento sismico,  il primitivo agglomerato (1)”. Il Tancredi (3), poi rimanda alla sua nota (1 – Cfr. Platea della Badia di S. Giovanni a Piro, pag. 137 MS.). Il documento a cui rimanda il Tancredi (3) – da cui probabilmente trae queste notizie sulle origini dell’antica città di ‘Avenia’, è l’antico documento notarile manoscritto del notaio Domenico Magliano (2). Poi il Tancredi (3), continua il suo racconto sulla città d’Avenia sempre sulla scorta dell’antico documento (2) del 1595-96. Ma il Gaetani (22), che pubblicò alcuni passi del documento del Notaio Magliano, non parla di ‘Avenia’ ma parla della città di ‘Velia’, mentre invece il Tancredi (3) che, nel pubblicare il documento notarile al posto di Velia, riporta “Avenia (3). Il Tancredi (3), nel pubblicare la trascrizione di un antico documento notarile del Notaio Magliano, parlando della Cappella di S. Fantino e del Porto di Sapri, al posto di Velia, riporta “Avenia (3). Il Tancredi (3), scriveva in proposito: “La leggenda narra che lungo la fascia costiera esistesse un borgo consistente, che aveva nome ‘Avenia’, fondato dagli Etruschi (4). Volendosene impadronire i Romani, arse la guerra fra i due popoli, ma la città non rimase in possesso nè degli uni nè degli altri, perchè un triste giorno venne inghiottita dal mare.”. Il Tancredi aggiunge in proposito: ” E’ certo che un’antica famiglia romana portava il nome di Avenia e questo cognome esiste tutt’ora a Torraca.”. Recentemente lo studioso Antonio Scarfone (25), nel suo “Presenze geomitologiche nell’area costiera di Sapri”, sulla scorta del Tancredi cita la stessa notizia riportata dal Tancredi (…) che, non riporta solo la leggenda tramandata oralmente ma aggiunge delle notizie sulla città di Avenia di cui la tradizione orale non dice. La tradizione orale parla di un violento cataclisma, anzi parla di un “Maremoto” che ingiottì la città antica di “Avenia”, ma non dice nulla sulla città di Avenia se non il suo toponimo. Scarfone (…), a p. 448, parlando di Sapri in proposito scriveva che: “Una ulteriore ipotesi lega Sapri ad un centro etrusco, ‘Avenia’, per il cui importante strategico possesso si scatenò una furiosa quanto vana lotta tra Etruschi e Romani. Narra una locale legenda (6) (Tancredi, 1985) che un giorno, sconvolto da un terrificante sisma, l’abitato fu inghiottito dalla terra e successivamente travolto dal mare. L’origine di questo cataclisma generatosi all’improvviso rimane misteriosa (7). Con il passare dei secoli, quando i suoi effetti sismici, probabilmente seguiti da una coseguente ingressione marina, si rarebbero lentamente attenuati, sarebbe rimasta un’area costiera paludosa, putrida e melmosa, in seguito asciugatasi e poi bonificata.”. Scarfone a p. 448, nella sue note (6 e 7) postillava che:

Scarfone, note 6 e 7

Recentemente, Scarfone (26), a proposito di ‘Avenia’, cita il Tancredi (3) e nella sua nota (6), scrive: “L’origine di questa antica leggenda locale si perde nella notte dei tempi. Nonostante ciò, è stata spesso ricordata non solo a Sapri ma anche nel territorio circostante. È il caso di una resoconto trascritto, nel 1695, dal notaio Domenico Magliano al fine di un censimento dei beni e delle rendite appartenenti all’Abbadia di San Giovanni a Piro ubicata nell’omonimo centro urbano di San Giovanni a Piro (SA) distante circa 20 km da Sapri (SA). Lo stesso, dopo aver descritto lo stato di conservazione della cappella di San Infantino ubicata questa nel territorio di Torraca (SA) avanza anche un probabile periodo di costruzione affermando che […] tale edificio sia stato costruito in tempo dell’opulenza dell’antica città di Avenia, distrutta ed ingoiata dal mare, che oggi viene detta la Marina et Porto di Sapri, perché s’aprì il monte et entrò il mare […]. Il documento viene riportato da TANCREDI L., in Sapri giovane e antica 1985, pp. 353: 280.. Infatti, correttamente Scarfone (…) a p. 449 aggiunge che:

Cataldo,,,

Dunque, Antonio Scarfone cita il sacerdote Biagio Cataldo (…) e lo studioso Felice Cesarino (…) , riferendosi a due loro studi. Ma, come vedremo, la notizia dell’antica città scomparsa di ‘Avenia’, non deriva dal documento notarile del Magliano dell’anno 1695-95, ma è una esclusiva illazione del Tancredi (3) che, sulla scorta della tradizione popolare orale – di cui parleremo e che tramanda l’esistenza di una antichissima ‘città di Avenia’, trasformava ‘Velia’ (citata nel documento Notarile del Magliano), in ‘Avenia’. Nel 1906, il sacerdote Rocco Gaetani (22), in un suo pregevole studio sulla storia di Torraca e del territorio Saprese, sulla scorta del Di Luccia (24), parlando dell’antica Cappella di San Fantino nel territorio Saprese, cita la città di ‘Velia’, citata in un antico documento “Platea di beni e Rendite della Badia di S.Giovanni a Piro: 1695-96(2), redatto dal Notaio Domenico Magliano, 1695-96 e, conservato all’Archivio Diocesano di Policastro e a cui abbiamo dedicato uno studio ivi pubblicato e a cui rinviamo per gli opportuni approfondimenti (Fig. 7)(2).

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(Fig…..) Pag. 163 della “Platea di beni e Rendite della Badia di S.Giovanni a Piro: 1695-96“, redatta dal Notaio Domenico Magliano, nell’anno 1695-96 (2) – il documento che descrive la Cappella di S. Fantino ed i suoi confini, sita nel territorio Saprese (Torraca) e posseduta dall’Abbazia di S. Giovanni a Piro.

Il documento (2), citato dal Gaetani (22), scritto nel 1695-96, dal notaio Domenico Magliano, che censiva i  beni e le rendite appartenenti all’Abbadia di San Giovanni Battista di San Giovanni a Piro, dopo aver descritto lo stato di conservazione della ‘Cappella di San Infantino’, ubicata nel territorio Saprese — allora facente parte ed appartenente a Torraca – parlando della ‘Grancia di San Fantino’ nel territorio Saprese, ne descrive limiti e confini e dice che doveva appartenere alla Badia di San Giovanni a Piro e che “tale edificio sia stato costruito in tempo dell’opulenza dell’antica città di Velia”. Il Gaetani (22), pubblicando la trascrizione dell’antico documento (2), scriveva correttamente e, come si vede nel particolare del documento originale: “La Venerabile Cappella di S. Infantini sita et posita in Terra Torracae……Nota sul Porto di Sapri, scriveva: “….stimandosi che tale edificio sia stato costruito in tempo di opulenza dell’antica città di Velia, distrutta ed ingoiata dal mare, che hoggi viene detta la Marina, et Porto di Sapri, perchè s’aprì il monte ed entrò il mare: la detta cappella era diruta, senza tetto, ecc.. ecc…“. Il Gaetani (22), non parla di ‘Avenia’ – come ha voluto scrivere il Tancredi (3), ma parla della città di Velia’.

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(Fig. 7) Pag. 163 della “Platea di beni e Rendite della Badia di S.Giovanni a Piro: 1695-96“, particolare in cui si parla della Cappella di S. Fantino

La tradizione popolare e la Città d’Avenia

Forse ‘Avenia’, fu una città posta sulle colline della contrada di S. Martino (Santu Martino), quelle colline che dai ‘Cordici’, degradano verso  il mare di S. Croce a Sapri. Mia zia Maria, racconta una leggenda tramandata oralmente dai suoi avi, ovvero che, all’epoca di Cristo, in seguito ad un violento maremoto che aveva inghiottito l’antica ‘città di ‘Avenia‘, i cui resti, semisomnmersi, si vedevano in località S. Croce a Sapri, un viaggiatore o un viandante, vide la Madonna che trascinava il grande e pesante cancello della città di Avenia, unico superstite oltre ai ruderi semisommersi, che la Madonna trascinava a spalle per portarlo a Policastro. Il viandante,  rivolgendosi alla Madonna, gli imprecò di posarlo a terra e lasciare il grosso e pesante cancello – con le sue chiavi –  della ‘città d’Avenia’, distrutta dal violento maremoto che, la Madonna portava in salvo a Policastro e, gli disse: “Maria posalo, posalo”. Ma la Madonna gli rispose: “…e se sapessi cosa significa posa,.. mi imponeva Velia ed ogni cosa“. Nello studio già pubblicato, scrivevo: “Sappiamo di resti antichi, forse di una antica città, rinvenuti nelle campagne tra Sapri e Torraca.”. Infatti, nella carta che quì ripubblichiamo (Fig. 1), il luogo che figura con il toponimo di ‘Bibo ad Sicam odie rui.‘, viene proprio posto nell’entroterra Saprese, nelle campagne tra i Cordici ed il litorale verso il cimitero di Sapri. Secondo la tradizione orale locale che ancora si tramanda e secondo alcuni studiosi della bibliografia antiquaria, pare che nel nostro territorio vi fosse una città chiamata ‘Avenia’ e che essa fosse scomparsa in seguito ad un maremoto. Scrive Scarfone (25): “L’origine di questo cataclisma generatosi all’improvviso rimane misteriosa (7). Con il passare dei secoli, quando i suoi effetti sismici, probabilmente seguiti anche ad una conseguente ingressione marina, si sarebbero lentamente attenuati, sarebbe rimasta un’area costiera paludosa, putrida e melmosa, in seguito asciugatasi e poi bonificata. Nonostante ciò, è stata spesso ricordata non solo a Sapri ma anche nel territorio circostante. Desta tutt’oggi particolare interesse scientifico la presenza al largo del Mar Tirreno di numerosi apparati vulcanici sottomarini (seamunts). Tra di essi, proprio al largo del Golfo di Policastro, si registra quella del Marsili e del Palinuro.”. L’abate Pacichelli (5), nel 1703 e, poi l’Alfano (4), nel suo ‘Regno di Napoli in Prospettiva’ parlando di Maratea a p. 288, così scriveva: “credono alcuni che sia stata l’antica città di Velia”. E poi ancora a p. 288, il Pacichelli (…) scrive: “Al Porto di Sapri, che è aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel Golfo di Policastro, à dodici miglia nè confini del Superior Principato ecc..ecc..”. E’ l’Antonini (14), che ci segnala la notizia creduta dall’abate Pacichelli e ne fa una sua personale disertazione nella nota 2 di pagina 430. L’insigne archeologo Mario Napoli (13), localizzava il sito archeologico della colonia greca della Magna Graecia di Elea (Velia) e, affermava che i ruderi scoperti nell’attuale Velia del Cilento (località Casalvelino), fossero i resti dell’antica Elea di cui ci parlava il geografo Strabone. Riguardo l’eventuale localizzazione di una città d’epoca pre-romana a Sapri o nel suo entroterra, la scarsezza di fonti certe e di documentazione certa non danno conforto all’attestazione del sito di Sapri. Tuttavia, nonostante gli studi intorno all’antica colonia greca eleatica, bisognerebbe ulteriormente indagare sulle affermazioni di alcuni eruditi del ‘600 e del ‘700 che la credevano localizzata nell’entroterra saprese. Riguardo il toponimo di ‘Avenia’ o di città d’Avenia, non è stato ancora precisato. Si sa solo che, questo era il nome di un antica famiglia romana. Andrebbero ulteriormente indagati i toponimi di “Avenia“, ocittà d’Avenia e quello di ‘Biboad Sicam.

Nel VI sec. a.C., il ‘Periplo’, opera di Pseudo Scylace ricorda il porto di Scidro ?

Mario Napoli (…), nel suo “Civiltà della Magna Grecia”, dove l’autore ci fa un’exursus storico-geografico della Magna Grecia proprio sulla scorta del racconto Straboniano lo commenta a modo suo e, nel suo capitolo “Da Pixunte a Reggio”, a p. 168 parlando delle coste Tirreniche, in proposito scriveva che: “Lo Pseudo Scylace (Peripl., 2) ricorda lungo queste coste, dopo Poseidonia e Velia, le città greche di Laos, fondazione di Turi, Pandosia, Platea, Terina, Ipponio, Medma, e quindi il promontorio e la città di Reggio; Pomponio Mela (‘De Chorograf., II, 69), ricorda Buxento, Blanda ecc…”. Dunque, Mario Napoli, cita l’opera del geografo Pseudo Scylace. Questo autore fu citato anche da Ettore Pais (….), nella sua “Storia della Sicilia e della Magna Grecia”, dove l’autore a p. 247, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Su Scidro, colonia di Sibari, Herodt. VI, 21, su Lao v. Herodt. l. c.; Strab. VI, p. 253; C; cfr (SCYL.) 12 ove in luogo della distrutta Sibari si nomina Turio. Il testo dei codici Ποσειδω. ιαι χαι ‘Ελαα Θουριων απ si può semplicemente correggere Ποσειδωγια χαι Λαος Θουριων αποιχιαι, e senza aggiungervi ‘Elea’, la colonia focese, come piace a C. Muller, ad l. G.G. M. I, p. 20. Sulle monete di Lao del VI sec. v. Head, op. cit., p. 61.”. Ettore Pais (…), riguardo il periplo di Scylace postillava che: “(1) Su Scidro, colonia di Sibari, cfr (SCYL.) 12 ove in luogo della distrutta Sibari si nomina Turio.”. Il Periplo di Scilace (titolo completo in greco Σκύλακος Καρυανδέως Περίπλους τῶν ἐκτὸς τῶν Ἡρακλέους στηλῶν, Periplo esterno alle colonne di Eracle) è un antico periplo, risalente alla fine del VI secolo a.C., di cui resta una copia o un’epitome successiva databile al IV secolo a.C., o Periplo dello Pseudo-Scilace (titolo completo in greco Σκύλακος Καρυανδέως Περίπλους τῆς θαλάσσης τῆς οἰκουμένης Εὐρώπης καὶ Ἀσίας καὶ Λιβύης, Periplo dell’ecumene marittima di Europa, Asia e Libia). Molti ritengono, tuttavia, che il nome di Scilace sia piuttosto un richiamo pseudoepigrafo all’autorità di Erodoto, il quale cita uno Scilace di Carianda: navigatore greco già al servizio del Re dei Re di Persia Dario I in qualità di esploratore del basso corso dell’Indo e della costa vicina alla sua foce. Scilace fa una circumnavigazione in senso orario del mar Mediterraneo e del mar Nero, partendo dall’Iberia e terminando in Africa occidentale, oltre le colonne d’Ercole. La parte africana deriva chiaramente dal Periplus di Annone il Navigatore. Ne resta un manoscritto, quello di Pithou. Il Periplo di Scilace fu pubblicato la prima volta ad Augusta nel 1600 da David Höschel, assieme ad altre opere cartografiche greche minori. Ad Amsterdam il Periplo venne ripubblicato dal Vossius, nel 1639; poi da Hudson nel suo Geographi Graeci minores. A Parigi fu ripubblicato nel 1826 da Gail; a Berlino lo ristampò nel 1831 R.H. Klausen.

Nel V sec. a.C., il toponimo “Sipron” citato da Erodoto di Alicarnasso, nelle sue Storie

Della misteriosa ed antichissima ed in seguito scomparsa colonia greca di ‘Scidro’, ci dà notizia Erodoto nel VI Libro delle Storie. L’archeologo Mario Napoli (…), nel suo “Civiltà della Magna Grecia”, dove l’autore ci fa un’exursus storico-geografico della Magna Grecia proprio sulla scorta del racconto Straboniano lo commenta a modo suo e, nel suo capitolo “Da Pixunte a Reggio”, a pp. 177-181 dove ci parla di Scidro. In particolare il Napoli, a p. 182 in proposito scriveva che: “L’altra colonia di Sibari sul mare Jonio, ove si sarebbero rifugiati i profughi sibariti dopo il 510, è Scidro, ma Strabone non ne fa cenno, e ne abbiamo ricordo solo nell’episodio citato da Erodoto, in Stefano di Bisanzio (s.v. Σχιδρος , con ricordi in Lico di Reggio, storico del terzo secolo avanti Cristo) ed in Ateneo (XII, 523 c., d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele). Ecc…”. Dunque, l’archeologo Mario Napoli, scriveva che il geografo Strabone (….), nella sua “Geographia”, non accenna mai alla colonia di Scridro. Il Napoli scriveva che questa colonia dei Sibariti, sorta probabilmente solo dopo la caduta di Sibari, del ‘510 a.C., si fa cenno in Erodoto (….) e, nel passo precedente a p. 177, il Napoli dice che Erodoto ci parla di Scidro nella sua opera “(Herod. VI, 21)”. Il barone di S. Biase, Giuseppe Antonini (…), credeva che la città in un primo tempo fosse ‘Sibarys’ e in seguito si chiamò ‘Sapri’ (Subaris-Subaron-Sipron-Sapron )”. Oreste Dito (….), che nel suo “Notizie di Storia Antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892, nella ristampa anastatica ed. Brenner, Cosenza, a p. 88 parlando di Lao, in proposito scriveva che: “La distruzione di Sibari ci fa conoscere negli storici l’esistenza di Laos. Erodoto ricorda che à Milesii che soffrirono da parte dei Persiani, non corrisposero i Sibariti, che, espulsi dalla loro città, abitavano Laos e Skidro. Imperocchè essendo stata presa Sibari dai Crotoniati, i milesii tutti in età vigorosa si rasero i loro capi e fecero gran lutto ecc…”. Dunque, anche Oreste Dito, sulla scorta di Ettore Pais (…) ci segnala il racconto di Erodoto, lo storico greco ci racconta della disfatta di Sibari da parte dei Crotoniati. L’archeologo Mario Napoli ci ricorda che attraverso il racconto di Erodoto di Alicarnasso veniamo a sapere che in seguito alla distruzione di Sibari nell’anno 510 a.C., i profughi sibariti si rifugiarono sulle coste del Tirreno ed andarono nelle loro due colonie: Scidro e Lao. Secondo il grande storico greco Erodoto, in questo centro e a Laos, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510 a.C. Egli racconta che, nel 510 a.C., a Scidro ed a Lao vi trovarono rifugio i profughi dell’allora fiorente colonia greca Sibari, distrutta poi dalla rivale città dio Crotone. Il barone di San Biase, Giuseppe Antonini (….), a p. 430 così scriveva in proposito alla colonia Sibaritica di Scidro: “Appresso pochissimi degli antichi trovo di esso fatta menzione. Uno di questi fu Erodoto, l’altro Frontino. Quello che solo ci da lumi di esserci stato, ma anche da chi abitato: Questo ci fa sapere verso i suoi tempi qual fosse. Allor che i Crotoniati distrussero Sibari al tempo di Dario Istaspe (1), circa l’Olimpiade LXV, siccome molti scrivono, i Sibariti all’eccidio avanzati, per varj luoghi si dispersero: altri andarono in Posidonia, siccome sopra si è detto, altri ad abitar Lao o Talao, città degli Argonauti edificata, ed altri vennero dieciotto miglia più ad occidente a Sapri. De primi che andarono in Posidonia ci diede notizia Strabone. Dei secondi, il già citato Erodoto nel libro 6, narrando i travagli che i Milesi, da Persiani soffrivano, e la poca corrispondenza da quelli ne’ Sibariti trovata, così in latino ce’ il dice: ‘Haec Milesiis a gente Persarum passis parem gratiam non reddiderunt Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, Sipron (2) incolebant: Nam Sybari a Crotoniatis direpta, universi Milesii, puberes ad moestitiam ostendendam caput abraserunt, luctum exbibuerunt’. Abitavan dunque Sibariti ed in Lao, ed in Sipro, che dalla costante inveterata opinione di tutti fu creduto essere detto anche Sybaris, dal nome dell’abbandonata (3) patria, e nel corso degli anni corrottamente poi fu detto Sapri”. Dunque, nel 1745, nella sua prima edizione della “Lucania”, il barone Antonini, parlando di Sapri, citava il libro VI di Erodoto. L’Antonini scriveva che Erodoto “….narrando i travagli che i Milesi, da Persiani soffrivano, e la poca corrispondenza da quelli ne’ Sibariti trovata, così in latino ce’ il dice: ‘Haec Milesiis a gente Persarum passis parem gratiam non reddiderunt Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, Sipron (2) incolebant: Nam Sybari a Crotoniatis direpta, universi Milesii, puberes ad moestitiam ostendendam caput abraserunt, luctum exbibuerunt’. Abitavan dunque Sibariti ed in Lao, ed in Sipro, che dalla costante inveterata opinione di tutti fu creduto essere detto anche Sybaris, dal nome dell’abbandonata (3) patria, e nel corso degli anni corrottamente poi fu detto Sapri”. Dunque, l’Antonini, ricordava una frase di Erodoto: ‘Haec Milesiis a gente Persarum passis parem gratiam non reddiderunt Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, Sipron (2) incolebant: Nam Sybari a Crotoniatis direpta, universi Milesii, puberes ad moestitiam ostendendam caput abraserunt, luctum exbibuerunt’, che tradotto significa che: Queste parole non restituirono un uguale favore ai Milesi, che avevano sofferto dal popolo dei Persiani, i Sibariti, che, dopo aver spogliato la città, abitarono Laon, Sipron; …”. Dunque, l’Antonini ricorda il “Sipron” di Erodoto. Erodoto, nel libro VI delle sue “Storie”, parlando della guerra Persiana, dei Milesi e dei Sibariti, citava il centro pre-ellenico o italico di “Sipron”. L’Antonini, a p. 430, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Il trovarsi alcuni esemplari scritto ‘Scidron’, e non ‘Sipron’ ha fatto credere all’Olstenio, che sia più tosto il Cetraro per una certa conformità di nome; ed anco appresso Stefano si legge   ΣΚΙΛΡΘC………………..Scidrus Urbs Italiae, gentile Scidranus.”. Dunque, l’Antonini, citava L’Olstenio e Stefano di Bisanzio. Nella mia Relazione sull’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte, 1998, in proposito al toponimo di “Scidro” scrivevo che: Erodoto, (24) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: “Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron icolebant” (i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero “Scidron” perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. In questo centro e a Laos, secondo il grande storico greco, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510. Ecc…”. Oreste Dito (….), nel suo “Notizie di Storia Antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892, nella ristampa anastatica ed. Brenner, Cosenza, a p. 71 parlando di Buxentum, in proposito scriveva che: “Molti scrittori, dietro la lezione sbagliata d’un testo d’Erodoto, vollero porre a Sapri la ‘Scidro’ d’Erodoto (la lez. era ‘Sipron’); ecc…”. Dunque, alcuni hanno letto in Erodoto “SIPRON” altri invece hanno letto SKIDROS. Nicola Corcia (…), in proposito, affermava che l’Antonini sbagliasse a leggere Erodoto il quale parlava di Sipron e non di Skidron. Riguardo poi al toponimo “Sipron” che la storiografia locale persiste a riesumare, sulla scorta della citazione dell’Antonini, e di cui il Corcia credeva fosse un abbaglio, Carlo Battisti (….), nel suo “Penombre della toponomastica preromana del Cilento” diceva, tra l’altro: “consideriamo toponimo pre-italiano anche Sapri, che ha certamente una storia preromana…..Se Sapri è un nome antico, è chiaro che non vi può corrispondere l’antica Skidros di Erodoto, a meno che ‘Scidros’ non sia una traduzione del nome in lucano o risalga ad un periodo pregreco e prelucano. In latino non esiste questo nome anche se scrittori locali ci dicono che ‘Scidrus’ passò nel 273 alla Lega di Roma. Molto più alla mano è però la derivazione dallo aggettivo greco ‘Sapros’ (putrido, marcio), con riferimento alla presenza di paludi”. Il Cesarino (…), faceva notare come “alcune sopravvivenze toponomastiche sembrerebbero confortare l’ipotesi sibarita di Sapri. Alcuni toponimi greci nella zona presentano la stessa radice sci-Ski di Scidro: Scifo, (località nei pressi del Canale di Mezzanotte) e Scialandro (isolotto sottocosta non molto distante dallo Scifo.)”. Nella mia Relazione sull’“Analisi dell’evoluzione storico-Urbanistica di Sapri”, del 1998, redatta per il P.R.G. di Sapri, nella mia nota (32) postillavo che: “(32)  Battisti C., Penombre della toponomastica preromana del Cilento, stà in “Studi Etruschi”, vol. XXXII, Firenze, 1964.”. Riguardo la citazione di Erodoto (….), nel 1894, a Palermo fu ristampato il testo di Ettore Pais (….), “Storia della Sicilia e della Magna Grecia”, dove l’autore a pp. 246-247 cita le città di Lao e Scidro e a p. 247 postillando di “Scidro” il Pais in proposito, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Su Scidro, colonia di Sibari, Herodt. VI, 21, su Lao v. Herodt. l.c.; Strab. VI, p. 253; C; cfr (SCYL.) 12 ove in luogo della distrutta Sibari si nomina Turio. Il testo dei codici Ποσειδω. ιαι χαι ‘Ελαα Θουριων απ si può semplicemente correggere Ποσειδωγια χαι Λαος Θουριων αποιχιαι, e senza aggiungervi ‘Elea’, la colonia focese, come piace a C. Muller, ad l. G.G. M. I, p. 20. Sulle monete di Lao del VI sec. v. Head, op. cit., p. 61.”. Il testo di Pais Ποσειδωγια χαι Λαος Θουριων αποιχιαι significa che: Colonie di Poseidonia e Laos Thurion”. Dunque, nella sua nota (1) a p. 247 il Pais (…) citava i corretti riferimenti di rimando al racconto di Erodoto (….), in cui egli accennava alla colonia Sibaritica di Scidro. Erodoto, (…) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: “Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron icolebant” ( i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero ‘Scidron’ perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. Secondo il grande storico greco Erodoto, in questo centro e a Laos, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510. Erodoto, (…) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: “Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron icolebant” ( i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero ‘Scidron’ perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. Dal punto di vista bibliografico e storiografico, il toponimo di Scidro, la cui matrice è di origine greca, è riferito ad una colonia della Magna Grecia, sorta e fondata da profughi di un’altra colonia della Magna Grecia: Sibari. Sybaris (Sibari), colonia greca sulla costa ionica fra i fiumi Crati e l’omonimo fiume Sibari, celebre per la sua ricchezza e raffinatezza e per il suo ciclo di vita altrettanto splendido che breve, la sua prosperità, i rapporti con paesi lontani e la fine precoce e violenta (511- 510 a.C.), hanno reso leggendaria Sibari già nel mondo antico. Erodoto, (….) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: “Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron incolebant” (i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero “Scidron” perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. In questo centro e a Laos, secondo il grande storico greco, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510. Erodoto, (…) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron icolebant “ ( i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero Scidron perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. Secondo il grande storico greco Erodoto, in questo centro (a Scidro) e a Laos, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510. Nel Libro VI delle Storie Erodoto narra che i Sibariti privati della loro città andarono ad abitare nelle colonie Lao e Scidro. Erodoto, detto di Alicarnasso o di Thurii, (in greco antico: Ἡρόδοτος Hēródotos, pronuncia: [hɛːródotos]; Alicarnasso, 484 a.C. – Thurii, circa 425 a.C.) è stato uno storico greco antico, fu considerato da Cicerone come il «padre della storia». Nella sua opera, ispirata a quella dei logografi (in particolare Ecateo di Mileto), egli cerca di individuare le cause che hanno portato alla guerra fra le poleis unite della Grecia e l’Impero persiano ponendosi in una prospettiva storica, utilizzando l’inchiesta e diffidando degli incerti resoconti dei suoi predecessori. Della misteriosa ed antichissima ed in seguito scomparsa colonia greca ‘Scidro’, ci dà notizia Erodoto nel VI Libro delle Storie. Secondo Wikipedia Erodoto nel V libro delle città ioniche guidate da Aristagora insorgono contro il dominio di Dario I e di seguito la ribellione viene sostenuta in Ellade dai politici Milziade e Aristide i quali formano un esercito oplita. La battaglia si svolge nel 490 a.C. a Maratona e l’esercito greco, di gran lunga inferiore di numero a quello nemico, riesce a sconfiggere Dario. La vittoria la si deve all’unione delle polis Sparta e Atene e al coraggio degli uomini ellenici. Non molti anni dopo il figlio di Dario Serse riprende il progetto espansionistico del padre e assalta alcune città ioniche come Mileto (libro VII). Ora veramente l’intera Grecia è minacciata e tutte le polis, dopo il sacrificio dello spartano Leonida alle Termopili, si uniscono politicamente e militarmente per fronteggiare il copioso esercito di Serse. Nel Libro VI delle sue “Storie”, egli racconta che, nel 510 a.C., qui ed a Lao vi trovarono rifugio i profughi dell’allora fiorente colonia greca Sibari, distrutta poi dalla rivale città dio Crotone. Nel Libro VI delle Storie Erodoto narra che i Sibariti privati della loro città andarono ad abitare nelle colonie Lao e Scidro. Erodoto, (….) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: “Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron incolebant” (i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero “Scidron” perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. In questo centro e a Laos, secondo il grande storico greco, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510.

Scidro: la leggenda dell’eroe eponimo Scidro che fondò l’omonima città e che sposò Siri, figlia del re Morgete

Emanuele Ciaceri (….), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. I, nel capitolo “Cap. IX – Da Clampezia a Lao e da Velia a Posidonia”, nel 1940, a p. 274, in proposito scriveva di SCIDRO che: “Ora la supposizione che Siri, alleata di Pixunte, da quando s’era formata la lega achea esercitasse anche la sua influenza su Scidro, nonostante questa fosse colonia di Sibari, troverebbe conferma nella leggenda secondo cui la figlia del re Morgete, Siri, sarebbe stata moglie di Scidro, l’eroe eponimo della città del golfo di Policastro, – ove si potesse dare come sicura l’interpretazione dell’antico racconto (5).”. Il Ciaceri a p. 274, nella sua nota (5) postillava che: “(5) v. s. a p. 134 n. 2.”. Il Ciaceri scriveva che l’alleanza (“Lega Achea”) tra le due colonie greche di Siris, sullo Ionio e l’altra di Pixunte sul Tirreno, troverebbe conferma nella leggenda “secondo cui la figlia del re Morgete, Siri, sarebbe stata moglie di Scidro, l’eroe eponimo della città del golfo di Policastro”. Il Ciaceri scriveva pure che la lega Achea, l’alleanza che avrebbero stretto Siris e Pixunte avrebbe avuto anche influenza sulla vicina colonia greca di Scidro, nonostante questa fosse una colonia della città greca di Sibari sullo Ionio. Dunque, secondo il Ciaceri vi era la leggenda di Siri, figlia del re Morgete (il re dei Morgeti, popolazione italiota) che avrebbe sposato Scidro. “Siri”, figlia del re Morgete, avrebbe sposato “Scidro” che lui chiama “eroe eponimo”. Cos’è un eroe eponimo ?. L’eponimo (dal greco ἐπώνυμος, composto di ἐπί, «sopra», e ὄνομα, «nome»; cioè «soprannominatore») è un personaggio, sia esso reale o fittizio, che dà il suo nome a una città, un luogo geografico, una dinastia, un periodo storico, un movimento artistico, un oggetto o altro. Dunque, il Ciaceri intendeva dire che “Scidro” sarebbe stato l’eroe eponimo in quanto egli sarebbe stato un personaggio (in questo caso, secondo la eggenda, sarebbe stato il marito di Siri, figlia del re Morgete) che diede il suo nome a una città, un luogo geografico, ovvero diede il suo nome alla sua città omonima di “Scidro”. Il Ciaceri a p. 274, nella sua nota (5) postillava che: “(5) v. s. a p. 134 n. 2.”. Nella ristampa anastatica dello stesso testo del Ciaceri del 1924 (forse la I edizione), la stessa notizia ci è data nello stesso Cap. IX, a p. 285, ma la nota cambia perchè ivi è la nota (2)(non la nota 5). Nella sua nota (2), il Ciaceri postillava che: “(2) v. s. a p. 139 n. 2.”. Dunque, è a stessa nota e ci dice che egli ne parla a pag. 139 del vol. I. Il Ciaceri, parlando degli scambi commerciali che avvenivano tra le due potenti città Ioniche di Siris (alleatasi con Pixunte) e di Sibari, con la sua colonia sul Tirreno di Scidro, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Se nell’Etym. Magn. s. v. Σìρις , ove è ricordata Siri come figlia del re Morgete e moglie di Scindo, invece di   Σχìνδου si dovesse leggere Σχìδρου (v. Pais, Stor. d. Sic. e d. M. Grec., p. 225 n. 4), si potrebbe pensare che tale forma di leggenda fosse sorta intorno a quel tempo, in cui si sarebbe cercato di creare la giustificazione di buoni rapporti fra le città di Siri e Scidro, colonia di Sibari. E ciò indipendentemente da quanto scrive il Mayer Apulien p. 330 n. 3, il quale, leggendo egualmente nel testo in questione, non vedo perchè, pone il nome di Scidro in relazione con quello del fiume Chidro nella campagna di Lecce che ha visto ricordato dal De Giorgi, Prov. di Lecce, I, p. 13, II, p. 511.”. Dunque, il Ciaceri, cita Ettore Pais (…) ed il suo “Storia della Sicilia e della Magna Grecia”, p. 225, n. 4. Inoltre, il Ciaceri scriveva che: “(2) Se nell’Etym. Magn.”, intendeva l’antico testo di cui leggiamo in Wikipedia l’Etymologicum Magnum (in greco antico: Ἐτυμολογικὸν Μέγα; talvolta abbreviato in EM) è il titolo di un lessico compilato a Costantinopoli da uno sconosciuto lessicografo intorno al 1150. L’EM si basa in gran parte su lessicografie, su opere di grammatica e di retorica: in particolare l’Etymologicum Genuinum e l’Etymologicum Gudianum. Tra le altre fonti vi sono: l’Etnica di Stefano di Bisanzio, l’Epitome di Diogeniano, il cosiddetto Lexicon Αἱμωδεῖν, l’Ἀπορίαι καὶ λύσεις di Eulogio, gli Epimerismi in Psalmos di Giorgio Cherobosco, l’Etymologicon di Orione di Tebe e una collezione di scoli. Il compilatore dell’Etymologicum Magnum non assume le caratteristiche di un mero copista, piuttosto di un sapiente “riorganizzatore”, in grado di modificare anche le proprie fonti, così da creare un lavoro nuovo e personale. L’editio princeps fu pubblicata da Zaccaria Calliergi e da Nikolaos Vlastos sotto la direzione di Anna Notaras a Venezia nel 1499. La più recente edizione dell’Etymologicum Magnum risale al 1848 ed è stata curata dal grecista Thomas Gaisford. In fase di preparazione vi è una nuova edizione a cura di F. Lasserre e N. Livadaras, chiamata Etymologicum Magnum Auctum. Dunque, il Ciaceri scrive che in questo testo alla parola Σìρις , è ricordata Siri come figlia del re Morgete e moglie di Scindo. Ciaceri scrive che nel testo medievale dell’Etym., il termine di Scindo si dovrebbe leggere diversamente. Il Ciaceri lo scrive sulla scorta di Ettore Pais. Dunque, il Ciaceri, cita Ettore Pais (…) ed il suo “Storia della Sicilia e della Magna Grecia”, p. 225, n. 4. Infatti, il Pais, a p. 225, nella sua nota (4) postillava dell’origine di Siris e scriveva che: “(4) Nell’Etym. Magn. s.v. Σìρις si legge che il nome derivò alla città ………Sul nome Σιχελìα ed i Morgeti v. s. p. 5, n. 1 in luogo di ………io credo si debba leggere……..e le ragioni le dirò in seguito.”. Dunque, il Pais, a p. 5 parla dei Morgeti. Sui Morgeti e su Siri, la figlia di Morgete re dei Morgeti ha scritto Emanuele Ciaceri. Il Ciaceri (….), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. I, nel capitolo “Cap. I…..”, nel 1924, a pp. 42-43, in proposito scriveva che: “Nè traccia alcuna restava in quel tempo del popolo dei Morgeti, così detti dal loro re eponimo, e che già da un re più antico, Italo, si sarebbero chiamati Itali, ed ancor prima Enotri (3). Narravasi allora che Morgete aveva accolto presso di sè Siculo, fuggito da Roma o dal Lazio, cedendogli parte del suo regno, sicchè da quel momento il popolo sarebbe constato di Siculi e di Morgeti; ed aggiungevasi che gli uni e gli altri eran stati cacciati dagli Enotri, i quali abitavano il territorio di Reggio che qui venne popolato dai coloni calcidici, ed eran quindi passati in Sicilia, ove fu la città di Morganzio (4). Codeste tradizioni, che probabilmente risalivano tutte a scrittori siracusani, in quanto avevano in sè, come è chiaro, la tendenza politica di dimostrare la parentela dei Siculi con gli abitanti del Bruzzio, non erano certo prive di contenuto storico; e valevano ad indicare genericamente la sede di questo popolo scomparso dei Morgeti, del quale dovette perdurare a lungo il ricordo se appresso narravasi che la città di Siris aveva avuto nome dalla omonima figlia del re Morgete (1).”. Il Ciaceri, a p. 43, nella sua nota (1) postillava che: “v. Etym. Magn., s. v. Σìρις “. Riguardo questa notizia che andrebbe ulteriormente indagata, vorrei citare alcune notizie intorno ai due paesi di Sicilì e di Morigerati. Angelo Gentile (…), nel suo “Morigerati”, ed. Palladio, a p. 22, in proposito così si esprimeva: “Alcuni storici (14) asseriscono che col termine “lucani s’intendevano più tribù di origine sannitica, inviati come coloni nell’Italia Meridionale per controllare questa regione e/o, anche, per contrapporsi, come poi fu, alla colonizzazione greca, atteso che sin dal II millennio a.C. c’erano frequentazioni micenee in questa zona per scambi commerciali”. Plinio (15) scrive che l’Italia meridionale era tenuta dai Pelasgi, dagli Enotri, dagli Itali, dai Morgeti, dai Siculi e in seguito dai Lucani nati dai Sanniti, comandati da Lucio da cui il nome. Già con questo autore latino i confini della Lucania sono più certi: dal Sele in giù con l’oppidum di Paestum, Velia, Buxentum (già Pyxous), Lao. Strabone asserisce lo stesso (16). Quest’ultimo si riferisce a Timeo, a Posidonio e ad Eratostene, il grande geografo-bibliotecario di Alessandria del secolo III a.C. Ecc…“. Il Gentile, in questo passaggio, parlando dei popoli pre-Italici o italioti, fa un richiamo ai Morgeti ed ai Siculi. Il barone Giuseppe Antonini (…), nella sua “La Lucania”, nel Discorso X, parte II, ci parla di Morigerati. Antonini, a pp. 414-415, in proposito scriveva che: “Più sopra verso le colline, circa cinque miglia dal mar lontano, trovansi due altri luoghi chiamati Sicilì, e Morigerati, sede un tempo dè Morgeti (I), e dè Sicoli, che conservano nel nome la gloria dè loro antenati (2), siccome nella prima parte di quest’opera da noi fu detto. ‘Samuel Bochart’ nel ‘Chanaam’ al cap. 39. nega quello, che dice Tucidite di esser ancor Sicoli in Italia a suo tempo, e vien così a negare quanto scrive ‘Alicarnasseo’, cioè che duravano finalmente a’ suoi giorni molte vestigia dè medesimi. Che se fosse Bochart avesse saputo trovarsi tuttavia questo monumento di cotal gente, l’avvrebbe approvato, non come conghiettura dipendente da qualche Ebraica, o Fenicia parola, ma come incontrastabil verità. Altra parte di essi era già passata nell’Isola (poi da medesimi detta Sicilia), ed occupato i terreni abbandonati dà Sicani per lo fuoco dell’Etna, lunga guerra vi fecero, sinonchè furono dalle due nazioni stabiliti i confini, siccome dal lib. 5 di Diodoro si vede……Tre miglia sotto alli morigerati nel luogo detto li Zirzi, e sei lontano da Policastro, sbocca il fiume che ingrottasi vicino Casella, ecc…ecc..”. Sui Morgeti e su Morigerati scrisse anche Giuseppe Volpi (….) nel suo ‘Notizie storiche delle antiche città e dè principali luoghi del Cilento, Roma, 1888, dove scriveva che: “…nell’Archivio della Cattedrale di Policastro si conservano diversi registri di Dimissione rilasciate dal Vescovo ai sacerdoti di Morigerati di rito greco e specialmente due del 1592 e del 1608.”Il Volpi (…), a p. 132 (vedi ristampa di Ripostes), parlando di Morigerati, nella sua nota (16), postillava che: “(16) Questo luogo, sede un tempo dè ‘Morgeti’, sin a pochi anni addietro, era di rito greco, ed il suo protettore n’era San Demetrio, della chiesa greca. Nell’archivio della Cattedrale di Policastro si conservano diversi ‘Registri di dimissorie’ rilasciate dal Vescovo ai sacerdoti di Morigerati, di rito greco, specialmente due del 1592 ed una del 1608.”. Dunque, anche il Volpi (….), forse sulla scorta del Laudisio (….) scriveva che Morigerati un tempo era luogo sede della popolazione antichissima dei “Morgeti”. Riguardo l’antico popolo dei Morgeti, l’Antonini citava il libro 5 di Diodoro Siculo. L’Antonini scriveva a proposito di Sicilì e di Morigerati che ha detto dei popoli Siculi e Morgeti nella prima parte della sua ‘Lucania’. L’Antonini, a p. 414, nella sua nota (I) postillava che: “(I) Sino a pochi anni addietro, questo paese era di rito Greco, e ‘l suo protettore è S. Demetrio della Chiesa Greca. Nell’Archivio della Cattedrale di Policastro viddi diversi registri di dimissioni fatte da quel Vescovo à Preti de’ Morgerati di rito Greco, specialmente due nel 1592, ed una del 1608.”. L’Antonini a p. 414, nella sua nota (2) postillava che: “(2) I moltissimi, e ragguardevoli avanzi di fabbriche laterizie, che veggonsi oggi giorno all’incontro Morgerati di là dal fiume, che cala da Tortorella nel luogo detto Romanù, e che sono di rimotissimi secoli, fanno più vera, e stabiliscono la nostra sentenza: eppure a questa evidenza non si arrende l’Abbate Troilo, che anzi meco ragionando, pretende allogare i Morgeti vicino Matera, ecc…”. I Morgeti (in greco antico: Μόργητες, in latino: Morgētes) furono un antico popolo, che faceva parte del gruppo delle cosiddette genti “italiche” che occuparono le aree estreme meridionali della penisola italiana e parte della Sicilia. I Morgeti facevano parte del gruppo delle cosiddette genti “italiche”, che occuparono le aree della Calabria ionica e tirrenica. Secondo alcuni storici si tratterebbe di uno dei tre rami in cui si distinsero gli Enotri (Itali, Morgeti, Siculi). Per altri, invece, furono popoli italici che furono scacciati dalle loro terre dagli Enotri, rifugiandosi poi in Sicilia. Altri ancora, li identificano tra coloro che, tra gli Itali, alla morte del re Italo/Italos accettarono suo figlio Morgete/Morgetes quale suo successore, prendendone il nome. Un’ulteriore partizione avrebbe originato i Siculi, che si sarebbero spostati in Sicilia sotto la guida del re omonimo, con Siculo/Sikelòs indicato sia come parente di Italo (che sarebbe stato fratello o padre), sia come proveniente da Roma. Dionigi di Alicarnasso basandosi sullo scritto di Antioco, afferma l’esistenza di una terza Roma antecedente alla fondazione del discentente di Enea, Romolo, e anche alla presenza di Evandro sul Palatino. Una terza Roma — che per antichità sarebbe quindi la prima — dalla quale discenderebbe l’eroe Sikelo. In Calabria, si sarebbero stanziati nell’entroterra. Girolamo Marafioti attribuisce a re Morgete la fondazione del nucleo abitativo di San Giorgio Morgeto e Altanum. Girolamo Marafioti (….), nel 1613 scrisse “Croniche et antichità di Calabria”.  Nel 1595 Abramo Ortelio pubblicò una carta storica del regno dei Morgeti, inserendo Altanum, Medema e Emporum Medeme. Secondo Antioco di Siracusa, Morgete succedette ad Italo nel governo della Calabria (allora detta Italia) sino a quando essa fu invasa dai Bruzi, un popolo dalle ignote origini che si stabili nella parte centro-settentrionale della regione ed elesse come capitale Cosenza. Mi propongo di approfondire la notizia di questa leggenda dataci dal Ciaceri. La prima menzione di Morgete/Morgetes si trova nei frammenti di Antioco di Siracusa. In seguito ne parla Tucidide descrivendolo come figlio di re Italo. Dopo la morte del padre, Morgete ne ereditò dunque il potere. E così come Italo aveva chiamato il suo regno “Italia”, a sua volta Morgete chiamò il proprio “Morgetia”. Un’ulteriore partizione avrebbe originato i Siculi, che si sarebbero spostati in Sicilia sotto la guida del re omonimo, con Siculo/Sikelòs indicato sia come parente di Italo (che ne sarebbe stato fratello o padre), sia come proveniente da Roma (dalla quale venne esiliato) e giunto nella Morgetia, terra degli Enotri. In Calabria, si sarebbe stanziato nell’entroterra, le opere di Proclo, Plinio, Strabone, narrano dell’antico popolo dei Morgeti, e di re Morgete, che secondo le leggende locali avrebbe fondato il castello di San Giorgio Morgeto (edificato nel IX – X secolo). In Sicilia, si sarebbe stanziato nell’entroterra, allontanando i Sicani, fondando nel X secolo a.C. – tra le altre – la città di Morgantina (Morganthion). Queste informazioni sono state dedotte analizzando le fonte antiche, in particolare quanto riferito da Antioco di Siracusa. Secondo Antioco di Siracusa, Morgete succedette ad Italo nel governo della Calabria (allora detta Italia) sino a quando essa fu invasa dai Bruzi, un popolo dalle ignote origini che si stabili nella parte centro-settentrionale della regione ed elesse come capitale Cosenza. Battisti (…) diceva, tra l’altro: “consideriamo toponimo pre-italiano anche Sapri, che ha certamente una storia preromana…Se Sapri è un nome antico, è chiaro che non vi può corrispondere l’antica Skidros di Erodoto, a meno che ‘Scidros’ non sia una traduzione del nome in lucano o risalga ad un periodo pregreco e prelucano. In latino non esiste questo nome anche se scrittori locali ci dicono che ‘Scidrus’ passò nel 273 alla Lega di Roma. Molto più alla mano è però la derivazione dallo aggettivo greco ‘Sapros’ (putrido, marcio), con riferimento alla presenza di paludi”. Il Cesarino (…), faceva notare come “alcune sopravvivenze toponomastiche sembrerebbero confortare l’ipotesi sibarita di Sapri. Alcuni toponimi greci nella zona presentano la stessa radice sci-Ski di Scidro: Scifo, (località nei pressi del Canale di Mezzanotte) e Scialandro (isolotto sottocosta non molto distante dallo Scifo.)”.

Battista Becario. Biblioteca Estatal Baviera, Múnich, 1426

(Fig…..) Battista Becario, carta nautica, 1435 (….), in cui figura il toponimo di Scridro – Carta nautica di Battista Becario,del 1435, conservata alla Biblioteca Palatina di Parma e pubblicata in Almagià Roberto (….), op. cit., tav.3, 3.

Nel VI sec. a.C., le colonie della città greco-Ionica di Sibari: Pyxous, Pixunte, Scidro e Lao, prima dell’avvento dei Lucani

Cattura,,,,

(Fig….) Da Romanelli (…), p. 97: “Statere di Siri e Pyxous con leggenda EIPINOE, 550-530 a.C. (da P.R. Franke – M. Hirmer)”.

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Dal punto di vista bibliografico e storiografico, il toponimo di Scidro, la cui matrice è di origine greca, è riferito ad una colonia della Magna Grecia, sorta e fondata da profughi di un’altra colonia della Magna Grecia: Sibari. Sybaris (Sibari), colonia greca sulla costa ionica fra i fiumi Crati e l’omonimo fiume Sibari, celebre per la sua ricchezza e raffinatezza e per il suo ciclo di vita altrettanto splendido che breve, la sua prosperità, i rapporti con paesi lontani e la fine precoce e violenta (511- 510 a.C.), hanno reso leggendaria Sibari già nel mondo antico. Nel 510 a.C., dopo una guerra durata 70 giorni, i Crotoniati che con 10.000 uomini presidiarono un perimetro di 50 stadi (circa 9 km), guidati dal pluri-campione olimpico Milone, e dopo avere deviato uno dei fiumi conquistarono la città e la sommersero. Nel 444-443 a.C. ci fu la fondazione panellenica di Thurii, dal nome di una fonte nelle vicinanze. In seguito Thurii fu assoggettata dai Lucani. La città perse importanza e nel 193 a.C. i Romani vi dedussero una colonia, cui diedero nome Copia. Nell’84 a.C. fu trasformata in municipio e in periodo imperiale, tra il I e il III secolo d.C., si sviluppò nuovamente. Nel corso del V e del VI secolo iniziò a decadere per l’impaludamento della zona. Un secolo dopo l’area era completamente abbandonata. Ecco ciò che scriveva Strabone (…) nel suo libro IV della sua “Geografia”: “Segue nell’ordine, a distanza di duecento stadi, Sibari, fondata dagli Achei; è tra due fiumi, il Crathis e il Sybaris. Il suo fondatore fu Is of Helice.1 Nei primi tempi questa città era così superiore nella sua fortuna che governava su quattro tribù nelle vicinanze, aveva venticinque città sottomesse, fece la campagna contro i Crotoniati con trecentomila uomini e i suoi abitanti solo sul Crathis riempivano completamente un circuito di cinquanta stadi. Tuttavia, per la lussuria e per l’insolenza furono privati ​​di tutta la loro felicità dai Crotoniati entro settanta giorni; poiché, presa la città, questi la condussero sopra il fiume e la sommerse. In seguito, i superstiti, solo pochi, si radunarono e ne fecero di nuovo la loro dimora, ma col tempo anche questi furono distrutti dagli Ateniesi e da altri Greci, i quali, pur essendo venuti lì per vivere con loro, ne concepirono un tale disprezzo che non solo li uccisero, ma spostarono la città in un altro luogo vicino e la chiamarono Thurii, da una sorgente con quel nome. Ora il fiume Sibari fa timidi i cavalli che ne bevono, e perciò tutti gli armenti ne sono tenuti lontani; mentre il Crathis rende gialli o bianchi i capelli delle persone che vi si bagnano, e inoltre cura molte afflizioni. Ora dopo che i Thurii ebbero lungamente prosperato, furono ridotti in schiavitù dai Leucani, e quando furono portati via dai Leucani dai Tarantini, si rifugiarono a Roma, e i Romani inviarono coloni per integrarli, poiché la loro popolazione era ridotto, e ha cambiato il nome della città in Copiae.”. Dunque Strabone non cita la colonia Sibarita di Scidro. Ma come ho già detto in precedenza ne ha parlato Erodoto (….), nel suo Libro VI delle sue “Storie”Nella mia Relazione sull’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte, 1998, in proposito al toponimo di “Scidro” scrivevo che: “L’archeologa Giovanna Greco, in un suo scritto sostiene che “il recente recupero a Sapri alle falde della collina del Timpone, di materiale ceramico sia di tipo ionico a fasce che attico a vernice nera pertinente alla fase arcaica ripropone il problema dell’ubicazione di Scidro.”(19). Sybaris (Sibari), colonia greca sulla costa ionica fra i fiumi Crati e l’omonimo Sibari, celebre per la sua ricchezza e raffinatezza e per il suo ciclo di vita altrettanto splendido che breve. La prosperità, i rapporti con paesi lontani e la fine precoce e violenta (511-510 a.C.) hanno reso leggendaria Sibari già nel mondo antico. Ce ne parla Strabone (VI, 263), il quale tra le altre cose ci riferisce che si impiantò solidamente sulle coste tirreniche fondando tre città: Poseidonia (l’attuale Paestum), Pyxus (l’attuale Policastro) e Lao. Sibari, subì una tremenda distruzione da parte dei crotoniati. L’altra colonia di Sibari, ove si sarebbero rifugiati i sibariti dopo il 510, è Scidro, ma il noto storico antico Strabone non ne fa cenno nella sua Geografia (20), e ne abbiamo ricordo solo nell’episodio citato da Erodoto, in Stefano di Bisanzio (21), con ricordi di Lico di Reggio (storico del III secolo a.C.) ed in Ateneo (22). Strabone (23), così dice: “Dopo Palinuro, il porto e il fiume di Pyxus; unico, infatti, è il nome di tutti e tre. La popolò Micito di Reggio, il signore di Messene in Sicilia, ma gli abitanti andarono via di nuovo, tranne pochi. Dopo Pyxus un’altro golfo e il fiume e la città di Laos, ultima tra le città lucane, poco elevata sul mare colonia di Sibari a 400 stadi da Elea.”. Erodoto, (24) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: “Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron icolebant” (i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero “Scidron” perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. In questo centro e a Laos, secondo il grande storico greco, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510. Di Skidros, eccetto il passo di Erodoto, ritroviamo la citazione del toponimo fatta in un passo di Lyco di Reggio, riferita da Stefano di Bisanzio, dove si parla della spedizione di Alessandro il Molosso poco prima  del 330 a.C.: “Scidrus urbs italiae, gentile scidranus”: Il Berard (25) afferma: “di Scidro, salvo questo particolare, non sappiamo nulla: ne ignoriamo completamente la storia, ma pare che sia sempre restata una piccola borgata, di scarsa importanza forse una semplice base fortificata. La si vuole di solito localizzare a Sapri, nelle immediate vicinanze di ‘Pissunte’: localizzazione non troppo assurda, se Pissunte nel sec. VI non fu una postazione sirita, ma per ora nessuna scoperta archeologica l’ha confermato.”. Secondo il Corcia (26), “Scidro sarebbe una città antichissima non molto discosta dal Bussento e di origine pelasgica”, ma tali origini non sono provate. Il Nissen  (27) e il  Ciaceri (28), collocano Scidro non lontano da Pixunte (l’odierna Policastro). Il Ciaceri sostiene: “trovarono i sibariti di Laos un punto di appoggio nell’altra colonia di Scidro, la quale più che una città, era forse un semplice castello o luogo fortificato che non giunse ad avere un’esistenza politica propria”: Gli archeologi Maiuri (29) e Napoli (30), in assenza di dati topografici certi, negarono la localizzazione di Scidro con Sapri, mentre invece senza valide prove la collocarono a Belvedere marittimo in Calabria. Una forte tradizione locale vuole Scidro localizzata a Sapri, forse sulla scorta dell’Antonini e di alcuni storici eruditi locali come il Gallotti (31). In particolare, il barone di S. Biase, Giuseppe Antonini, credeva che  la città in un primo tempo fosse ‘Sibarys’ e  in seguito si chiamò “Sapri” (Subaris-Subaron-Sipron-Sapron). Il Corcia, in proposito, affermava che l’Antonini sbagliasse a leggere Erodoto il quale parlava di Sipron e non di Skidron. Riguardo poi al toponimo “Sipron” che la storiografia locale persiste a riesumare, sulla scorta della citazione dell’Antonini, e di cui il Corcia credeva fosse un abbaglio, il Battisti (32) diceva, tra l’altro: “consideriamo toponimo pre-italiano anche Sapri, che ha certamente una storia preromana…Se Sapri è un nome antico, è chiaro che non vi può corrispondere l’antica Skidros di Erodoto, a meno che ‘Scidros’ non sia una traduzione del nome in lucano o risalga ad un periodo pregreco e prelucano. In latino non esiste questo nome anche se scrittori locali ci dicono che ‘Scidrus’ passò nel 273 alla Lega di Roma. Molto più alla mano è però la derivazione dallo aggettivo greco ‘Sapros’ (putrido, marcio), con riferimento alla presenza di paludi”. Infatti, il Cesarino (33), faceva notare come “alcune sopravvivenze toponomastiche sembrerebbero confortare l’ipotesi sibarita di Sapri. Alcuni toponimi greci nella zona presentano la stessa radice sci-Ski di Scidro: Scifo, (località nei pressi del Canale di Mezzanotte) e Scialandro (isolotto sottocosta non molto distante dallo Scifo.)”. Scidro figura sulla carta nautica della nautica dell'”Italia” di Battista Becario, del 1435 (34).”. Nella mia Relazione, nelle mie note postillavo che: “(18)  Johannowsky Walter, Atti XXII Congresso sulla Magna Grecia, Taranto, 1982, p. 422. (19)  Greco Emanuele, op. cit., p. 17. (20)  Lepore Ettore,”Elea e l’eredità di Sibari”, stà in P. d. P., 1966, p. 265 s. Napoli Mario, Civiltà della Magna Grecia, ed. Eurodes, p. 181. (21)  Stefano Bizantino, Lessico geografico, Etnikà, Amsterdam, 1678. (22)  Ateneo, XII, 523, c ,d, che si rifà a Timeo ed Aristotele. (23)  Strabone, Geografia, (I sec.a.C.), Libro VI, 1. (24) Erodoto, libro VI, 21. (25)  Berard J., La Magna Grecia – Storia delle colonie greche dell’Italia meridionale, Einaudi, Torino, 1963, p. 150. (26)  Corcia Nicola, Storia delle due Sicilie, dall’antichità più remota al 1789. (27)  Nissen Heinrich, Italianische Landeskunde, Berlino, I-II (28).  Ciaceri Emanuele, Storia della Magna Grecia, Roma, 1932, vol. II, p. 273. (29)  Maiuri Amedeo, Passeggiate in Magna Grecia, stà in “II Congresso sulla Magna Grecia”, Taranto, 1963. (30)  Napoli Mario, op. cit., pp. 181, 182. (31)  Gallotti Nicola, Sapri nella storia e nella tradizione popolare, Napoli, 1899. (32)  Battisti Carlo, Penombre della toponomastica preromana del Cilento, stà in “Studi Etruschi”, vol. XXXII, Firenze, 1964. (33)  Cesarino Felice, Sapri archeologica, stà in “I Corsivi”, Marzo, 1987, n.3, p. 5.”.

Secondo Nicola Corcia (…): “Scidro sarebbe una città antichissima non molto discosta dal Bussento e di origine pelasgica”, ma tali origini non sono provate. Il Nissen  (…) e il  Ciaceri (…), collocano Scidro non lontano da Pixunte (l’odierna Policastro). Il Ciaceri sostiene: “trovarono i sibariti di Laos un punto di appoggio nell’altra colonia di Scidro, la quale più che una città, era forse un semplice castello o luogo fortificato che non giunse ad avere un’esistenza politica propria”. Il Corcia, in proposito, affermava che l’Antonini sbagliasse a leggere Erodoto il quale parlava di Sipron e non di Skidron. Riguardo poi al toponimo “Sipron” che la storiografia locale persiste a riesumare, sulla scorta della citazione dell’Antonini, e di cui il Corcia credeva fosse un abbaglio, il Battisti (…) diceva, tra l’altro: “consideriamo toponimo pre-italiano anche Sapri, che ha certamente una storia preromana…Se Sapri è un nome antico, è chiaro che non vi può corrispondere l’antica Skidros di Erodoto, a meno che ‘Scidros’ non sia una traduzione del nome in lucano o risalga ad un periodo pregreco e prelucano. In latino non esiste questo nome anche se scrittori locali ci dicono che ‘Scidrus’ passò nel 273 alla Lega di Roma. Molto più alla mano è però la derivazione dallo aggettivo greco ‘Sapros’ (putrido, marcio), con riferimento alla presenza di paludi”. Infatti, il Cesarino (…), faceva notare come “alcune sopravvivenze toponomastiche sembrerebbero confortare l’ipotesi sibarita di Sapri. Alcuni toponimi greci nella zona presentano la stessa radice sci-Ski di Scidro: Scifo, (località nei pressi del Canale di Mezzanotte) e Scialandro (isolotto sottocosta non molto distante dallo Scifo.)”. L’archeologo Mario Napoli (…), in un suo studio, scriveva in proposito: ” L’altra colonia di Sibari sul mare Jonio, ove si sarebbero rifugiati i profughi sibariti dopo il 510, è Scidro, ma Strabone non ne fa cenno, e ne abbiamo ricordo solo nell’episodio citato da Erodoto, in Stefano di Bisanzio (s.v. Exidqos, con ricordi in Lico di Reggio, storico del terzo secolo avanti Cristo) ed in Ateneo (XII, 523 c,d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele).”.  Erodoto, (…) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: “Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron icolebant” ( i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero ‘Scidron’ perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. Secondo il grande storico greco Erodoto, in questo centro e a Laos, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510. Erodoto, (6) (libro VI, 21), in proposito, così riferisce: Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, et Sipron icolebant “ ( i Sibariti, che fuggiti dalle loro città, abitavano a Lao e a Scipro), altri tradussero Scidron perchè i romani, in seguito alla conquista e colonizzazione del III sec., ne latinizzarono il nome in ‘Scidrus’. Secondo il grande storico greco Erodoto, in questo centro (a Scidro) e a Laos, si dovettero rifugiare i sibariti che sopravvissero alla distruzione della loro città da parte dei crotoniati nel 511-510. Di ‘Skidros’, eccetto il passo di Erodoto, ritroviamo la citazione del toponimo fatta in un passo di Lyco di Reggio, riferita da Stefano di Bisanzio, dove si parla della spedizione di Alessandro il Molosso poco prima del 330 a.C.: “Scidrus urbs italiae, gentile scidranus “. In particolare, il barone di S. Biase, Giuseppe Antonini (17), credeva che la città in un primo tempo fosse ‘Sibarys’ e in seguito si chiamò ‘Sapri’ (Subaris-Subaron-Sipron-Sapron )”. In particolare, il barone di S. Biase, Giuseppe Antonini (17), credeva che la città in un primo tempo fosse ‘Sibarys’ e in seguito si chiamò ‘Sapri’ (Subaris-Subaron-Sipron-Sapron )”. L’Antonini (17), dopo aver riportato il passo nel libro 6 di Erodoto, scriveva in proposito: “Abitavan dunque Sibariti ed in Lao, ed in Sipro, che dalla costante inveterata opinione di tutti fu creduto essere detto anche Sybaris dal nome dell’abbandonata (3) patria, e nel corso degli anni corrottamente fu detto Sapri.”. Gli archeologi Amedeo Maiuri (11) e Mario Napoli (lo scopritore di Elea l’attuale Velia) (12), ritenevano che “in assenza di dati topografici certi”, negavano la localizzazione di ‘Scidro’ con Sapri, mentre invece senza valide prove la collocarono a Belvedere marittimo in Calabria. Mario Napoli (…), nel suo “Civiltà della Magna Grecia”, dove l’autore ci fa un exursus storico-geografico della Magna Grecia proprio sulla scorta del racconto Straboniano lo commenta a modo suo e, nel suo capitolo “Da Pixunte a Reggio”, a pp. 177-181 dove ci parla di Scidro. In particolare il Napoli, a p. 182 in proposito scriveva che: “L’altra colonia di Sibari sul mare Jonio, ove si sarebbero rifugiati i profughi sibariti dopo il 510, è Scidro, ma Strabone non ne fa cenno, e ne abbiamo ricordo solo nell’episodio citato da Erodoto, in Stefano di Bisanzio (s.v. Σχιδρος, con ricordi in Lico di Reggio, storico del terzo secolo avanti Cristo) ed in Ateneo (XII, 523 c., d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele). Fu certamente un piccolo centro, forse solo un emporio fortificato, ma non sappiamo dove sorgesse: sono state proposte alcune località, e particolarmente Sapri (Nissen), una località a sud di Lao (Beloch) o non lungi da Pixunte (Ciaceri), a Papasidero (Byvanck) o più opportunamente alla estremità di una via istimica, a Belvedere Marittimo, dove sfocia la valle dell’Esaro, o nella zona del Cetrano, ove sfocia la valle del Fellone (Bérard). Certamente non doveva trovarsi lì dove oggi è Sapri, nè in altra non precisata località presso Pixunte, se, come crediamo, Pixunte sia da collegarsi con Siris, e le monete di Pixunte e Siri siano da datarsi in data successiva al 510 avanti Cristo. Crediamo più logivo porre Scidro a sud di Lao, e forse proprio allo sbocco della valle dell’Esaro, cioè a Belvedere Marittimo.. Dunque, l’archeologo Mario Napoli, scriveva che il geografo Strabone (….), nella sua “Geographia”, non accenna mai alla colonia di Scridro. Il Napoli (….), a p….., nelle sue note scriveva che a p. 181, riguardo la citazione del Nissen scriveva che: “J. Nissen, op. cit., II, p. 898)”. Nella sua nota il Napoli riporta un J. Nissen ma a me pare vi fosse un errore perche si tratta di Heinrich Nissen (….). Dunque, vi è un evidente errore. Riguardo invece la citazione del Ciaceri (…) che pure avanzava una ipotesi interessante postillava che: “(E. Ciaceri, I, pag. 273)”. Riguardo l’opera del Nissen a cui si riferiva Mario Napoli, si tratta di Heinrich Nissen (….). Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I (parte I), a p. 37, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Cfr. Nissen, o. c., II, p. 898.”. Il Magaldi (…), a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted U., Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p.22.”. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I (parte I), a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted U., Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p.22.”. Riguardo il Ciaceri, citato da Mario Napoli si tratta di Emanuele Ciaceri (…), nel suo “Storia della Magna Grecia”, voll. I-II-III. Emanuele Ciaceri (…), nel suo, ‘Storia della Magna Grecia’ pubblicato nel 1940, nel suo vol. I, a p. 264, sulla fine di Sibari, in proposito così scriveva che: “Così tragicamente chiudeva la sua vita la grande e ricca città di Sibari. I suoi cittadini superstiti riparavano (in parte almeno) a Lao e a Scidro, colonie sibarite, (1), donde poi doven fare vari tentativi di ricostruzione della loro patria, anche dopo che fu fondata Turio, la quale doveva essere la legittima erede.”. Il Ciaceri (…), a p. 264, vol. I, nella sua nota (1), postillava che: “(1) Herodot. VI-21”. Emanuele Ciaceri, nel 1940, forse è uno dei pochi che ha scritto sulle tre colonie dei Sibariti. Emanuele Ciaceri (…), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. I, nel capitolo “Cap. IX – Da Clampezia a Lao e da Velia a Posidonia”, a pp. 272-273 in proposito scriveva che: “Trovarono i Sibariti di Lao un punto di appoggio nell’altra colonia di Scidro ( Σχιδρος ), la quale, più che una città, era forse un semplice castello o luogo fortificato che non giunse mai ad avere una esistenza propria politica; onde di essa manca ogni traccia di monete e non è neanche ricordata dagli scrittori latini (3). Niente oggi puossi affermare circa il tempo in cui Scidro ebbe origine, nè riguardo il suo vero sito; chè la notizia più antica che abbiamo di Erodoto (l.c.), secondo cui a Scidro, come pure a Lao, sarebbero riparati i Sibariti superstiti alla catastrofe della loro patria (a. 510), nulla aggiunge a quanto v’è naturalmente da supporre che, sia sorta al tempo della potenza di Sibari e che quindi la sua origine non sia stata di molto posteriore a quella di Lao. Non ebbe vera importanza, ma non è da credere che sia scomparsa assai presto, come è stato affermato (1), se lo storico Lico la menzionava a proposito della spedizione di Alessandro (probabilmente il re di Epiro), e cioè d’un fatto avvenuto nella seconda metà del sec. IV. (2). Molto si è discusso nel passato sul vero sito di Scidro; (3) e della bontà dell’opinione prevalsa fra i moderni, secondo la quale è stata posta ove oggi è Sapri, (4) si dubita assai oggigiorno. Che però giacesse a sud di Lao, (5) non è per niente dimostrato; e molto meno si vede la ragione di collocarla a mezza strada della vallata superiore del fiume Lao, ove si tolga la supposta omofonia del nome di Scidro con quello odierno della località di “Papasidero” (6). V’è piuttosto, a nostro credere, ragione di giudicare che non si trovasse molto lontana da Pixunte. Pixunte, in greco ecc…”. Dunque, come ci informa correttamente l’archeologo Mario Napoli, il Ciaceri voleva che Scidro si trovasse non lontano da Pixunte. Il Ciaceri, nel riferirsi a Pixunte intendeva la città di Pyxous, che dovrebbe corrispondere ad un luogo ben fortificato vicinissimo all’odierna Policastro Bussentino. Il Ciaceri, a p. 272, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Herodot. VI 21; Steph. B.: Σχιδρος, χολις ‘Ιταλιας. Di Scidro si occupò Oreste Dito, Notizie di storia antica (Roma, 1892).”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (1) postilava che: “(1) Beloch, Gesch. I(2) 1, p. 238, n. 1”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Lyc. Rheg., apd Steph. B.. s.v. Σχιδρος : – το εθνιχον Σχιδρανος, ως Λνχος εν τφ περι ‘Αλεξανδρον = fr. 1 in F.H.G., II, p. 370″. Dunque, Emanuele Ciaceri (…) citava Oreste Dito (….), che nel suo “Notizie di Storia Antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892, nella ristampa anastatica ed. Brenner, Cosenza, a pp. 54-55, nel suo capitolo “La battaglia di Laos (390 av. C.)”, leggiamo che: “Più naturale invece mi sembra collocarvi Scidro. Veramente questa di Scidro è una quistione lasciata lì da parecchio, per la sua pochissima importanza. In Scidro si ritirarono parte dè Sibariti, che furono costretti a cercarsi un rifugio, distrutta la loro città, e l’unico accenno d’Erodoto, è così generale che nulla si può azzardare. Identificarla in Sapri, sol per una lezione sbagliata d’un codice, non c’è da pensare; solamente qualche nome può spingersi a delle ipotesi. Il nome di Cetraro può richiamarci ad un ‘Scidranum’ da cui Cedraro o Cetraro; però esso più verosimilmente si può riscontrare in ‘Citarium’, il ‘Citerium’ che Stefano Bizantino, sulla fede d’Ecateo Milesio, ricorda come città enotrica. Sembra invece che il nome Scidro s’avvicini molto di più al nome di Papa-Sidero, nome, come si vede, formato da due elementi, dalla parola greco-bizantina ‘papa’ (vecchio, antico), mentre l’altro è la trasformazione dello Σχιδρος d’Erodoto in ‘Shidro’, Sidero. Il comparire di questo borgo nel periodo bizantino, ricordando l’antica città ivi esistita, città che per la sua posizione mediterranea e per la sua pochissima importanza, doveva sfuggire agli occhi degli storici, è una conferma della nostra ipotesi. Essa trovavasi a metà sulla via che da Sibari portava a Laos, e come il moderno villaggio di Papa-Sidero, così Scidro era reso forte dalla stessa natura del luogo che la rendeva la chiave di Laos (1). Così si spiegano le parole di Diodoro, e l’imprudenza di cui taccia i Turiesi cade considerando la posizione di Scidro; perchè così padroni dello sbocco sul Coscile e di questa fortezza, ben possono spingersi ad un’azione comune cò Reggini su Laos. La via che da Sibari portava a Laos faceva sosta a Scidro, incominciando da questa fortezza a percorrere al piano di Laos, dall’attuale capo Scalea all’isola di Cirella. Precisa, sotto questo rispetto la descrizione di Diodoro. Il piano poi è atto ad una battaglia, non certo però nelle proporzioni esagerate di Diodoro. Strabone aggiunge presso l’eroo di Dracone. In seguito vedremo poi l’errore in cui è caduto Strabone per l’importanza da dare a queste sue parole. I Greci, senza speranza di ritirata, si rifugiarono parte sovra un’altura presso il mare (forse Cerilli, o il piano di Batum o Mercuri); parte s’affidarono alla liberalità di Leptine che s’ebbe favore presso i Greci contribuì a rompere l’alleanza trà Lucani e il fratello Dionisio. Ecc…”. Dunque, Oreste Dito così spiegava la sua tesi in merito alla posizione di Lao, della battaglia di Lao e della posizione sconosciuta di Scidro sua vicina. Oreste Dito, a suo dire analizza i versi di Diodoro Siculo e di Strabone che ci raccontano della battaglia dei Lucani contro la colonia sibaritica di Lao, avvenuta nell’anno 390 a.C..: “Questa battaglia che tanto importanza ebbe nelle vicende politiche delle popolazioni italiche, che d’allora, sotto il comando d’un Lucio presero quella personalità storica e politica dè tempi avvenire. Avvenne nel 390 av. C., data accettata in generale dagli storici moderni; Diodoro veramente la ricorda nella stessa olimpiade in cui i Romani divisero il territorio di Veio (393) e portarono la guerra agli Equi, a Veliterni; ecc..”. Sempre il Dito (…), a p. 52, in proposito scriveva che: “Così Diodoro (XVI, 18) confermato, per altro, da Strabone, che parlando di Laos accenna al fatto.”. Oreste Dito (…), a pp. 34-35, parlando della città greca di Siris sciveva che: “Città enotra, forte delle relazioni con gli Enotri, essa potette dominare incontrastata, contribuendo, come ricorda malamente Strabone  alla distruzione di Metaponto; inoltre, essa facilmente potette estendere il suo dominio fino a Pyxous sul Tirreno prima che fossero aperte le vie di Laos e di Posidonia, escogitando così quel sistema di scambi commerciali per le vie di terra, sistema che tanta importanza ebbe nello sviluppo delle città dell’Ionio. Però queste stesse ragioni, che favorirono l’esistenza di Siri, generarono quella gelosia, che assolutamente doveva esser prodotta dal cozzo d’interessi, che mettevano Sibari di fronte a Siri in una regione comune, qual era quella degli Enotri. Se Siri, salendo il corso del fiume omonimo (Sinno9, aveva un facile sbocco a Pyxus; anche Sibari, seguendo la via tracciata dal fiume Sibari (Coscile), aveva aperto, a traverso le foreste degli Enotri, quella via che passando per Campo-Tenese e toccando Scidro (vedi in prosieguo) faceva capo a Laos. Un’altra via da Campo-Tenese (Muranum) continuando per la regione, dove poi sorse Nerulo, sottoposta all’influenza degli Enotri-Sirini, e per la valle del Tanagra, conduceva a Posidonia; sicchè gl’interessi delle due città venivano a svolgersi nella medesima regione, di cui Sibari voleva il possesso assoluto e che ottenne facendo una politica del tutto italica.”. Il Dito in questo passaggio parla delle vie istimiche, degli itinerari che i greci delle città sullo Ionio percorrevano per arrivare sulle coste del mar Tirreno, toccare le colonie siritiche di Pyxous e quelle Sibaritiche di Scidro e di Lao per commerciare e raggiungere la colonia greca di Posidonia da dove partivano gli scambi commerciali con l’Etruria. Ma non mi trovo con alcune conclusioni del Dito che a me sembra ponga Scidro all’interno e non sul mare. Dito, a p. 34, scriveva che: “Se Sibari erasi resa potente nel commercio, non aveva dimenticato che in gran parte tale potenza era dovuta agli Enotri stessi. Laos doveva la sua importanza a tali relazioni, e Scidro era stata fondata a metà via tra le due città; la via che conduceva a Posidonia attraversava il territorio dè Sirini, e forte di tale posizione facile divenne il compito d’assoggettare Siri.”. Riguardo il posizionamento di Scidro, il Dito (….), partendo dal La Cava (…), “sul sito di Blanda, Lao, Tebe Lucana”, analizza pure le parole di Erodoto. Ma l’ipotesi di Dito, sebbene avesse dei fondamenti logici, rimane molto contraddittoria. Il Dito, analizzando ciò che scriveva Diodoro Siculo sulla battaglia, ipotizza luoghi e fatti non ancora del tutto chiariti. Oreste Dito (…), a p. 59 parlando delle due colonie di Pyxus e di Laos, in proposito scriveva che: “La posizione di queste città era garantita dalla stessa natura, e i due luoghi, i migliori della costa, dovettero essere sicuro rifugio à primi navigatori. Laos, fra l’isola di Cirella e il porto di S Nicola Arcella, e Pyxus fra i due porti di Scario e di Sapri, erano due stazioni di fermata per la navigazione di cabotaggio dei Tirreni, e offrivano lo sbocco più facile e naturale à Greci di Sibari.”.

Emanuele Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (3) postillava che: “(3) v. ad es. Corcia, Storia delle due Sicilie, III, p. 65”. Riguardo l’opera del Corcia citata dal Ciaceri, si tratta di Nicola Corcia (…), vol. III della sua “Storia delle Due Sicilie dall’antichità più remota al 1789”, a p. 65 e ssg parlando del “promontorio, porto e fiume Pissunto, o Bussento” parlando di Scidro, in proposito scriveva che: “tempo all’invasione dè Lucani. Ma di fuori di queste, ignote sono tutte le altre memorie di Scidro, che conservava certamente Lico di Reggio nella sua storia della Sicilia, giacchè coll’autorità di questo storico, coetaneo di Demetrio Falereo (1), parlava di ‘Scidro’ Stefano Bizantino (2). Senza investigare veramente il sito, sospettava il Mazocchi che sorgesse nelle vicinanze di ‘Lao’ (3); nè prima di quel celebre archeologo ne determinava meglio la posizione l’Holstein, il quale situava ‘Cetraro’, all’oriente del fiume ‘Lao’ o ‘Laino’ (4), senza considerare ch’esser doveva una città marittima, al pari dell’altra città vicina, anche colonia dè ‘Sibariti’. Perciò con più di verisimiglianza avvisavasi l’Antonini che sorgesse nell’odierno porto di ‘Sapri’, tuttochè vi credesse l’antica città di ‘Sipro’, ingannato dalla falsa lezione di alcune edizioni di Erodoto, in cui leggesi Σχιπον invece che  Σχιδρος (5). Se non chè, affermandosi per costante tradizione che il nome di Sapri non fosse che un’alterazione di ‘Sybaris’, egli sembra che ‘Scidro’ ritenesse il suo nome sino all’arrivo dè Sibariti, che le imponevano quello della desolata patria.”. Il Corcia, a p. 65, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Suida, v. Λνχος”. Il Corcia, a p. 65, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Steph. Byz., v. Σχιδρος.”. Emanuele Ciaceri (…), però a p. 273, nella sua nota (1) postillava che: “(7) Plinio, n.h., III, 72: ‘Oppidum Buxentum Graeciae Pyxus’. E ‘Buxentum’ hanno gli scrittori latini. Ma una vera forma latina del nome non c’è stata tramandata. Πνξονς troviamo in Strab. VI 253; Diodoro, XI, 59 e Steph. B.., il quale ultimo erroneamente distingueva Πνξις da Πνξονς, ponendo l’una nell’interno dell’Enotria e l’altra in Sicilia. In Ptolom. III, 1, 18 si ha Βονξεντον “. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Nissen, It. Landesk, II, p. 898.”. Il Caiaceri, a p. 273, nella sua nota (5) postillava che: “(5) Beloch, Griech. Gesch., l. c. “. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (6) postillava che: “(6) Byvanck, op. cit., p. 109, n. 3., il quale, secondo noi a torto, ripetendo a quanto pare l’interpretazione di scrittore locale, afferma: “hodie Papasidero, i. e. Scidrus vetus”.”. Infatti, il Byvanck (…), nel…….. nel suo “De Magnae Graeciae Historia Antiquissima”, a p. 109 così scriveva: “Scidrs 3) castellum in media via sita esse videtur, quo loco nunc ‘Papasidero’ est in valle Lai superiore. Colonia erat Sybaritarum qui post Sybarim eversam Laum et Scidrum fugissent 4).“. Il Byvanck (…), a p. 109, nella sua nota (3) postillava che: “(3) (Scridrus)(Latine non memoratur), Graece Σχιδρος, hodie Papasidero, i. e. Scidrus vetus; – cfr. tab. mil. 220-221, – O. Dito, Notizie di Storia antica, Roma, 1892. – Alii non recte Scidrum ‘Sapri’ hodiernum esse contendunt.”. Sempre il Byvanck, a p. 109, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Her. 6, 21; Steph. Byz. s.v., qui Lycum laudat εν τψ περι ‘Αλεξανδρον saeculo IV igitur urbs exstabat.”. Emanuele Ciaceri (….), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. I, nel capitolo “Cap. IX – Da Clampezia a Lao e da Velia a Posidonia”, nel 1940, nel suo vol. I, a pp. 273-274-275, parlando di “Pixunte”, in proposito scriveva altre cose interessanti anche su Scidro e diceva che: “Pixunte in greco Πνξομς, e presso gli scrittori latini ‘Buxentum (7) da cui traeva il golfo (G. di Policastro). giaceva sulla sponda sinistra dell’omonimo fiume, e cioè sul colle ad esso soprastante ove oggi è “Policastro di Bussento” (1) Non è detto che essa fosse colonia della ionica Siri; ma per affermarlo ne hanno dato argomento e l’osservazione che giaceva sul mare Tirreno, per così dire, dirimpetto a lei, e il fatto che già intorno all’a. 560 esistevano magnifici stateri di Siri sui quali leggevasi da un lato Σιριος, e dall’altro Πνξοες (2). La circostanza, che codesti stateri sono del tutto simili alle più antiche monete dell’achea Sibari ed hanno in caratteri achei la leggenda Σιριος, troverebbe spiegazione in ciò che allora v’era una monetazione uniforme e federale di pezzi d’argento incusi attestante l’esistenza della cosiddetta lega achea; che, come dicemmo, ionica era la città di Siri (3). E’ indubitato che nella posizione di Pixunte e nella sua alleanza con Siri devono ricercarsi le ragioni delle gelosie e della rivalità dei potenti Sibariti verso la città ionica, che prima costrinsero a riconoscere la loro egemonia e poi attaccarono e distrussero, dal momento che da quella posizione e da quella alleanza essi si vedevan tagliata la via di comunicazione per Lao e Scidro, con Posidonia e quindi con le coste dell’Etruria (4). Ora la supposizione che Siri, alleata di Pixunte, da quando s’era formata la lega achea esercitasse anche la sua influenza su Scidro, nonostante questa fosse colonia di Sibari, troverebbe conferma nella leggenda secondo cui la figlia del re Morgete, Siri, sarebbe stata moglie di Scidro, l’eroe eponimo della città del golfo di Policastro, – ove si potesse dare come sicura l’interpretazione dell’antico racconto (5). E in tal caso si giungerebbe facilmente alla conclusione che la colonia di Scidro doveva trovarsi, come noi riteniamo, non molto lungi da Pixunte.”. Il Ciaceri, nel suo vol. I, a p. 275 continua il suo racconto su Pixunte e ci parla di Micito di Reggio ecc…Il Ciaceri (…), a p. 273, nella sua nota (1) postillava che: “(7) Plinio, n.h., III, 72: ‘Oppidum Buxentum Graeciae Pyxus’. E ‘Buxentum’ hanno gli scrittori latini. Ma una vera forma latina del nome non c’è stata tramandata. Πνξονς troviamo in Strab. VI 253; Diodoro, XI, 59 e Steph. B.., il quale ultimo erroneamente distingueva Πνξις da Πνξονς, ponendo l’una nell’interno dell’Enotria e l’altra in Sicilia. In Ptolom. III, 1, 18 si ha Βονξεντον “. Il Ciaceri, a p. 274, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Sarebbe stata presso la foce del Bussento, a due km. ad ovest dell’odierna Policastro; v. L. PONELLE, Melag. d’archeol., 1907, p. 270 sgg.; Byvanck, op. cit., p. 106, n. 7.”. Riguardo la citazione del Ciaceri del Ponelle L., in una nota si postillava che: “Pixous era una sorta di statio lungo una via che da Sibari , per Siri , arrivava al Tirreno e di qui a Paestum : L. Ponnelle , Le commerce de la première Sybaris . Sybaris et Siris rivales commerciales in “ Mélanges d’Archéologie ..”, ovvero il saggio di Ponelle è contenuto in “Mélanges d’Archeologie et d’Historie”, XXVII ( 1907 ) , III – IV , pp . 243-276. Infatti, L. Ponelle (….), a p. 270 parlando della rivalità commerciale tra Sibari e Siris cita anche Pixunte e scriveva che:

Ponelle L., p. 270

Il Ciaceri a p. 274, nella sua nota (2) postillava che: “(2) v. Garrucci, II, p. 145, tav. CVIII, n. 1, 3; HEAD2, P. 83 SG.”. Il Carucci a p. 274, nella sua nota 3) postillava che: “(3) v. sopra a p. 134 sg.”. Il Carucci a p. 274, nella sua nota (4) postillava che: “(4) v. LENORMANT, I, p. 263 sgg., p. 275; BUSOLT, Griech. Gesch., I°, p. 412; PAIS, op. cit., II, p. 128.”. Il Ciaceri a p. 274, nella sua nota (5) postillava che: “(5) v. s. a p. 134 n. 2.”. Dunque, facciamo il punto della situazione. Il Ciaceri a p. 274, in proposito scriveva di SCIDRO che: “Ora la supposizione che Siri, alleata di Pixunte, da quando s’era formata la lega achea esercitasse anche la sua influenza su Scidro, nonostante questa fosse colonia di Sibari, troverebbe conferma nella leggenda secondo cui la figlia del re Morgete, Siri, sarebbe stata moglie di Scidro, l’eroe eponimo della città del golfo di Policastro, – ove si potesse dare come sicura l’interpretazione dell’antico racconto (5).”. Continuando a riflettere su ciò che scriveva il Ciaceri, vorrei ritornare sulla questione dei rapporti commerciali della colonia greca di Scidrus. Il Ciaceri, a p. 274 scrivendo dei rapporti della colonia Siritica di Pixunte (Pissunte) scriveva che: “E’ indubitato che nella posizione di Pixunte e nella sua alleanza con Siri devono ricercarsi le ragioni delle gelosie e della rivalità dei potenti Sibariti verso la città ionica, che prima costrinsero a riconoscere la loro egemonia e poi attaccarono e distrussero, dal momento che da quella posizione e da quella alleanza essi si vedevan tagliata la via di comunicazione per Lao e Scidro, con Posidonia e quindi con le coste dell’Etruria (4).”. Il Carucci a p. 274, nella sua nota (4) postillava che: “(4) v. LENORMANT, I, p. 263 sgg., p. 275; BUSOLT, Griech. Gesch., I°, p. 412; PAIS, op. cit., II, p. 128.”. Infatti, Francois Lenormant (….), nel suo vol. I, della sua “La Grande-Grèce”, a p. 263 scriveva dei rapporti della colonia vicina di Posidonia e gli Etruschi (i Tirreni) che venivano a prendere le merci per portarle al Nord d’Italia. Le merci che provenivano dalla Grecia, da Mileto venivano trasportate dalla potente Sibari e da Siris, poste sullo Ionio, attraverso la via Istimica interna arrivavano a Lao e a Scidro e poi anche a Pixunte. 

Lenormant, vol. I, p. 263

Il Ciaceri, a p. 274, nella sua nota (4) cita anche Ettore Pais (…). Il Carucci a p. 274, nella sua nota (4) postillava che: “(4) v. PAIS, op. cit., II, p. 128.”. Il Ciaceri citava l’altra opera del Pais ma io possesso la “Storia dell’Italia Antica” del Pais. Infatti, nel 1925, Ettore Pais (…), nel suo “Storia dell’Italia antica”, vol. I, Libro II, cap. II, nel suo “Relazioni commerciali degli Etruschi con i Greci dell’Italia meridionale, particolarmente con i Sibariti e con i Milesi etc…”, a pp. 200 e sgg, in proposito scriveva che: “Gli Etruschi raggiunsero poi la Campania. Apprendiamo da Dionigi di Alicarnasso che nel 524 a. C. in compagnia di molti popoli barbari, come Umbri e Dauni, tentarono di conquistare la città greca di Cuma. Ma i Cumani ricacciarono ecc…Da vari dati si ricava che alcune città della Campania furono soggiogate o fondate dagli Etruschi…..E’ bensì vero che verso la metà del V secolo i Sanniti si sovrapposero agli Etruschi nella Campania;…..Gli Etruschi occuparono il paese degli Oschi fino a Marcina posta non lungi da Salerno. Anche l'”ager Picentinus” limitrofo al Silaro venne in loro potere; il fiume che ivi scorre si chiama anche oggi Tusciano. Gli Etruschi non oltrepassarono tuttavia, per quel che pare, la foce del Silaro, ove era la colonia greca di Posidonia (Pesto). Posidonia era colonia di Sibari; alla sua fondazione avevano concorso anche abitanti della peloponnesia Trizene. Apprendiamo dagli antichi che gli abitanti di Sibari erano congiunti da stretta amicizia con gli Etruschi. A prima vista la notizia appare strana, date le rivalità che esistevano fra Greci e Tirreni, considerando per giunta la distanza e la situazione delle due città. Se si tien però conto che Pesto era colonia di Sibari, la notizia riesce chiara. Sibari esercitava il suo commercio risalendo il corso del Crati ed importando merci greche particolarmente sulle coste del Tirreno. Quivi essa aveva stretto rapporti con gli Etruschi mediante gli scali delle sue colonie di LAOS e di SKIDROS situate nell’altro versante dell’Appennino sulle coste del Tirreno; da qui le merci giungevano fino a Posidonia, ossia a Pesto. Posidonia giovava ai Sibariti per accentrarvi lo scambio di commerci fra Etruschi e Greci reso difficile dai coloni delle città di Regio e di Messane, gelose dominatrici dello Stretto.”, e poi a p. 205 scriveva che: “Comprendiamo che attraverso il commercio dei Sibariti giungevano svariati prodotti dell’Asia. Soprattutto i Milesi diffondevano merci preziose, etc…”. Il Pais, a p. 358, vol. I, nelle sue note al Libro II postillava che: “p. 205. Le mie osservazioni sulle relazioni commerciali dei Sibariti, dei Milesi e degli Etruschi, sull’estensione della potenza Etrusca ecc.., esposi e documentai in miei libri precedenti, (Storia della Magna Grecia; Italia Antica). Ivi ho raccolto e discusso testi e materiali antichi.”. Dunque il Pais scriveva che le due colonie greche di Lao e di Skidro, la potente colonia di Sibari, posta sullo Ionio, commerciava le merci provenienti dalla Grecia e dai Milesi attraverso le due sue colonie alleate di Lao e Scidro, dai cui porti le merci venivano trasportate a Posidonia da dove venivano acquistate dagli Etruschi. Nel 1925, Ettore Pais (…), nel suo “Storia dell’Italia antica”, vol. I, Libro II, cap. V, nel suo “Le vicende di Sibari e di Crotone”, a pp. 255 e sgg e sgg, in proposito scriveva che: “Nel non lungo periodo del suo fiorire Siris si alleò con Pixous (Buxentum) posta sul Tirreno allo sbocco dell’omonimo fiume, e con essa battè moneta federale. Colonia dei Colofoni, Siris era l’esponente del commercio Ionico. Destò quindi la gelosia degli Achei, i quali deliberarono di cacciare d’Italia tutti gli altri Greci, che non fossero della medesima stirpe. Non era soltanto odio di razza, ma anche rivalità di commerci internazionali. Verso il 550 a.C. i Sirini furono sconfitti dai Metapontini, dai Sibariti e dai Crotoniati. Siris non fu, a quanto, pare distrutta, ma, come par dimostrato dale monete, fu occupata dagli Achei o per lo meno obligata a far parte della loro federazione……Le vicende di queste due città s’intrecciano. Sibari, alla confluenza dell’omonimo fiume Crati, era in amena regione costituita da ampia vallata. A settentrione sovrastava solenne il monte Pollino (2270 m.) le cui falde erano coperte di boschi, ecc…Erodoto diceva che non vi erano state altre città legate da vincoli così cordiali. Quando verso il 510 a.C. Sibari fu distrutta, i Milesi si rasero per il dolore il capo; ma Erodoto aggiunge che i coloni Sibariti a Skidros ed a Laos situate sulle coste opposte del mar Tirreno non mostrarono altrettanto dolore, allorchè Mileto nel 494 a. C. fu presa dai Persiani. I Milesi importavano in Sibari vasi, vesti e preziosi prodotti dell’Oriente e ne esportavano materie prime. Per mezzo della cittàà amica inviavano le loro mercanzie a Laos, a Skidros, a Posidonia, colonie dei Sibariti, e, come abbiamo già notato, ve le ritiravao i Tirreni signori appunto del paese limitrofo a Posidonia. Gli Etruschi consegnavano in cambio fra l’altro metalli, rame, stagno ed il ferro dell’Elba, che fu poi sottoposta alla vicina Populonia. I Sibariti furono sconfitti e dopo settanta giorni di assedio la loro città fu presa. I Crotoniati la distrussero e, stando alla tradizione, fecero passare su di essa il corso del fiume Crati……(a p. 271, cap. VII) Scacciati dai Crotoniati, i Sibariti cercarono rifugio presso le loro colonie di Laos e di Skidros sulle opposte coste del Tirreno; ma ve li perseguitarono i loro tenaci nemici finchè Ierone di Siracusa mandò in difesa dei fuggiaschi il fratello Polizelo. La perenne inimiciazia dei Crotoniati, od il timore dei popoli Sabellici, e particolarmente dei Lucani i quali già invadevano il suolo della Magna Grecia e si spingevano sino ale coste del mare, indussero gli abitanti ecc…La nuova Sibari fu fondata ove, secondo il responso, nasceva la fonte Thuria. Ecc…Uomini illustri furono inviati a stabilirsi nella nuova città. Fra essi fu Erodoto, che ivi scrisse parte della sua opera e fu perciò anche designato col nome di Thurios. La SIBARI preellenica prese allora, per distinguersi dalla terza Sibari, il nome di Thurii. Ecc….(p. 281, cp. VII) La distruzione di Sibari tornò a beneficio dell’achea Crotone. (p. 284) S’intende che dopo la distruzione di Sibari i Crotoniati non sentissero più ritegno nella loro sete d’Impero. Allo stesso modo che non si trattennero di perseguitare i fuggiaschi Sibariti, che avevano cercato riparo sulle coste del Tirreno nelle colonie di Laos e di SKIDROS, essi mossero arditamente guerra ai Locresi, traendo ragione o pretesto della circostanza che costoro avevano già per il passato inviato aiuti agli abitanti della ionica Siris. Avvenne allora la battaglia della Sagra, celebrata da Stesicoro detto Imera, ecc…..(p. 294) Nella regione situata nel golfo Lamentino (S. Eufmia) si trovava Terina ecc…Seguivano SKIDROS e Laos, colonie di Sibari, di cui abbiamo già avuto modo di discorrere. Teneva lor dietro Pixous, la Buxentum dei Romani. Quest’ultima, come provano i suoi stateri incusi, era alleata sin dal VI secolo con la colofonia Siris, di cui abbiamo pur fatto parola……(p. 295) Locri mediante le colonie di Ipponio e di Messana raggiungeva i medesimi fini e gli abitatori di Siris sino dal VI secolo, risalendo il fiume omonimo, giungevano presso ai monti ed alle marine di Pyxous o Bussento. Questa rivalità aveva destata la gelosia delle vicine città Achee di Sibari e Metaponto. Non è chiaro se le monete incise della fine del VI secolo o del principio del seguente, in cui figurano i nomi di PYXOUS e di SIRIS, accennino ad accordi anteriori con la lega Achea od a sottomissione posteriore dell’età in cui Siris fu da questa conquistata. In pari modo non sappiamo quali conclusioni cronologiche e storiche sia lecito ricavare da analoghe monete federali, ossia dagli stateri incusi delle due città a noi ignote, in cui sono segnate le sigle “PAL” e “MOL”. Si è pensato che tali nummi vadano riferiti a Palinuro ed a Melphes (Amalfi ?). Siamo purtroppo nel campo delle ipotesi che, come nel caso di Siris e di Pyxous, le monete federali appartengano a città che tentavano analoghi commerci di trasbordo fra l’Ionio ed il Tirreno. Il fatto che di queste due città non vien fatto più tardi memoria suggerisce il pensiero che la loro attività sia stata ben presto soffocata o distrutta da quella delle più potenti città Achee, che non tollerava rivalità commerciali e politiche. Rispetto a PYXOUS apprendiamo che più tardi (nel 471 a. C.) l’arcade Micito, tutore dei figli di Anassilao di Regio, vi condusse una colonia. Regio mirava da un lato a seguire la secolare politica di ostilità contro i pirati Tirreni, dall’altro, avendo relazioni nell’Ionio, cercava controbilanciare, anzi render vana, la concorrenza delle città Achee. Raggiungendo da Buxentum i monti che sovrastano a Sapri e discendendo poi verso le coste dello Ionio nella Siritide, Regio, divenuta signore di Pyxous, si collegava con Taranto invisa agli Achei di Metaponto, di Sibari e di Crotone.. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I (parte I), a pp. 36-37, in proposito scriveva che: “A 9 km. oltre il fiume Bussento, nel posto dove oggi è Sapri, si vuole da alcuni allogare ‘Scidrus’, che da altri si colloca a Papasidero, oppure la stazione ‘Cesernia’ della strada litorale ionica (1). Continuando a scendere lungo la costa, si oltrepassa Maratea e si raggiunge la foce del Noce che, prima di sboccare, lasciava a sinistra ‘Blanda’. Poco dopo l’isoletta Dino, ricca di grotte, fronteggia da vicino la costiera. Proseguendo si incontra, poco dopo, Scalea, che sembra fosse il porto di Lao (2). Ecc..”. Il Magaldi, a p. 37, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Di queste identificazioni topografiche si riparlerà nel c. VIII.”. Dunque, il Magaldi ci parla di Sapri cap. VII che si trova nel suo vol. II della sua “Lucania Romana”. Il Magaldi, a p. 37, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Cfr. Nissen, o. c., II, p. 898.”. Riguardo l’opera del Nissen, citato dal Magaldi, si tratta di Heinrich. Nissen (…).  Il Magaldi, a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted U., Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p.22.”. Dunque, in Hinrich Nissen, vol. I a p. 534 leggiamo che: “…….

L’archeologo Jean Berard (7) affermava: “di Scidro, salvo questo particolare, non sappiamo nulla: ne ignoriamo completamente la storia, ma pare che sia sempre restata una piccola borgata, di scarsa importanza forse una semplice base fortificata. La si vuole di solito localizzare a Sapri, nelle immediate vicinanze di ‘Pissunte’: localizzazione non troppo assurda, se Pissunte nel sec. VI, non fu una postazione sirita, ma per ora nessuna scoperta archeologica l’ha confermato.”.

L’archeologa Giovanna Greco, in un suo scritto sostiene che, “Il recente recupero a Sapri, alle falde della collina del Timpone, di materiale ceramico, sia di tipo ionico a fasce che attico a vernice nera pertinente alla fase arcaica, ripropone il problema dell’ubicazione di Scidro.” (1). Il Nissen (9) e il Ciaceri (10), collocano Scidro non lontano da Pixunte (l’odierna Policastro). Il Ciaceri sostiene : “trovarono i sibariti di Laos un punto di appoggio nell’altra colonia di Scidro, la quale più che una città, era forse un semplice castello o luogo fortificato che non giunse ad avere un’esistenza politica propria”. Una forte tradizione locale vuole Scidro localizzata a Sapri, forse sulla scorta dell’Antonini e di alcuni storici eruditi locali come il Gallotti (13). Secondo il Corcia (8): “Scidro sarebbe una città antichissima non molto discosta dal Bussento e di origine pelasgica”. Il Barone di San Biase, Guiseppe Antonini (….), così scriveva in proposito alla colonia Sibaritica di Scidro: “Appresso pochissimi degli antichi trovo di esso fatta menzione. Uno di questi fu Erodoto, l’altro Frontino. Quello che solo ci da lumi di esserci stato, ma anche da chi abitato: Questo ci fa sapere verso i suoi tempi qual fosse. Allor che i Crotoniati distrussero Sibari al tempo di Dario Istaspe (1), circa l’Olimpiade LXV, siccome molti scrivono, i Sibariti all’eccidio avanzati, per vaj luoghi si dispersero: altri andarono in Posidonia, siccome sopra si è detto, altri ad abitar Lao o Talao, città degli Argonauti edificata, ed altri vennero diciotto miglia più ad occidente a Sapri. De primi che andarono in Posidonia ci diede notizia Strabone. Dei secondi, il già citato Erodoto nel libro 6, narrando i travagli che i Milesi, da Persiani soffrivano, e la poca corrispondenza da quelli ne’ Sibariti trovata, così in latino ce’ il dice: ‘Haec Milesiis a gente Persarum passis parem gratiam non reddiderunt Sybaritae, qui Urbe exuti, Laon, Sipron (2) incolebant: Nam Sybari a Crotoniatis direpta, universi Milesii, puberes ad moestitiam ostendendam caput abraserunt, luctum exbibuerunt’. Abitavan dunque Sibariti ed in Lao, ed in Sipro, che dalla costante inveterata opinione di tutti fu creduto essere detto anche Sybaris, dal nome dell’abbandonata (3) patria, e nel corso degli anni corrottamente poi fu detto Sapri”. Vediamo le note dell’Antonini (…). La nota (1), riguarda una sua dissertazione sulla datazione. La nota (2), ci pare più interessante in quanto egli scrive: “Il trovarsi in alcuni esemplari scritto Scidron e non Sipron, ha fatto credere all’Olstenio, che sia piuttosto il Cetraro per una certa conformità di nome; ed anche appresso Stefano, si legge: EKIAPOC, polis Italias, …….Scidrus Urbs Italiae, gentile Scidranus.”. Nella sua nota (3) dice: “Circa quindici miglia lontano da Sapri abbiamo un simile esempio anche Greco; cioè che altri dall’abbandonato paese abbian dato il nome al nuovo, che son passati a fondare, o ad abitare. Egli è tre miglia sopra Maratea tra quelle colline, ed è chiamato Trecchina. Questo luogo fu fondato dai Greci che tenevano le montagne vicino le Termopile, chiamate anche Trechina, come si può da Erodoto, da Pausania, e da altri autori vedere. L’abbandonarono durante la Guerra Peloponnesiaca.”. L‘Antonini nella sua nota (2) di pagina 429, a proposito del ‘Sipron’, citato nel passo di Erodoto, scriveva: “Il trovarsi in alcuni esemplari scritto ‘Scidron’, e non ‘Sipron’, ha fatto credere all’Olstenio che sia piuttosto il Cetraro per una certa conformità di nome; ed anche appresso Stefano (3), si legge: “Scidrus Urbs Italiae, gentile Scidranus.”. Ettore Pais (…), nel suo “Italia Antica“, vol II, nel capitolo “La spedizione di Alessandro il Molosso in Italia”, a pp. 170-171 e ssg., in proposito scriveva che: “Un illustre storico moderno afferma infatti che Alessandro atraverso per via di terra tutto quanto il territorio dei Lucani, e che in tal modo si spinse fino a Pesto (1) (p. 171). Ma questa affermazione riposa su un semplice equivoco, o, per meglio dire, su una falsa interpretazione di un passo di Livio. Da Livio, non meno da un passo di uno storico pressochè contemporaneo, Lico Regino, che, per quanto io noto, è stato finora trascurato, si apprende invece che Alessandro costeggiò tutte quante le Calabrie e che a Pesto giunse per via di mare (2).”. Questo dunque è il passaggio chiarificatore della notizia ripetuta più volte su Scidro e su Alessandro il Molosso. Infatti, il Pais, a p. 171, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Beloch, griech. Geschicthe, II, p. 594.”. Il Beloch è l’autore moderno di cui parla il Pais e che credeva che Alessandro il Molosso avesse attraversato con le sue armate per via terra. Il Pais, a p. 171, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Livio, VII 17, 9: “Ceterum Samnites etc…….”; Lyc. apud Steph. Byz. s. v.  “Σχιδρος etc…..”. Questo passo risolve anche il dubbio di quei critici che, come il ………………..Che Scidro fosse sulle coste del Tirreno non si ricava nè da Erodoto, VI 21, nè da Stefano. Tutto però fa credere, come generalmente si ammette, che essa non fosse sulle coste dell’Ionio aperta agli assalti dei Crotoniati, bensì non molto lungi da Laos, ove del pari che in essa trovarono riparo i Sibariti, dopo la distruzione della loro città. v. Herodoto l. c. Anche il Nissen, Italische Landeskunde, II, p. 898, registra l’ipotesi che Scidro fosse dove ora è Sapri.”. Sempre riguardo la colonia sibaritica di Scidro vorrei segnalare che Giulio Giannelli (….), nel 1924, nel suo “Culti e miti della Magna Grecia – contributo alla storia più antica delle colonie greche dell’Occidente”, a pp. 138-139 (Appendice III) parlando di Sibari e della sua monetazione, in proposito scriveva che: “Non si può fare a meno di pensare alla tradizione della Ktisis di Sibari, conservataci da Aristotele (2), la quale faceva arrivare sulle sponde dell’Ionio, insieme agli Achei, anche un nucleo di coloni Trezenii, che dovettero poi sloggiare da Sibari; ed è felice ipotesi quella secondo la quale propro questi Trezenii sarebbero i fondatori della colonia alle bocche del Silaro, ove probabilmente già i Sibariti avevano uno stabilimento commerciale (3). A sostegno di questa teoria viene appunto la testimonianza delle monete, della grande diffusione del culto di Posidone in quella città e dell’onore in cui questo dio era ivi tenuto (1). ecc…ecc…Sulle monete del secondo periodo, esibendi anch’esse la figura del dio di Trezene, troviamo però sul retro, il tipo del toro sibarita: è il portato dell’emigrazione a Posidonia dei fuggiaschi di Sibari, i quali evidentemente, oltre che a Lao e a Scidro (4), dovettero trovar rifugio anche in questa città (5). Il significato fluviale del toro, che già ci apparve manifesto sui coni^ di Sibari, permane sulle monete Posidoniati: cambia però il fiume simbolizzato dalla figura taurina. Non è più il Crati, bensì il Silaro, un fiume che i coloni di Posidonia già verosimilmente veneravano ecc…”. Il Giannelli, a p. 143, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Così vuole la tradizione; le fonti in Byvanck, p. 126, n. 2”, in cui il Byvanck ci parla della monetazione di Sibari. Il Byvanck parla di Scidro a pp. 108-109. 

Nel IV secolo d.C., lo storico Lico di Reggio in “Lessico Geografico” di Stefano di Bisanzio cita “Scidro”

Di Skidros eccetto il passo di Erodoto, ritroviamo la citazione del toponimo fatta in un passo di Lico di Reggio (…), riferita da Stefano di Bisanzio (…), dove si parla della spedizione di Alessandro il Molosso poco prima  del 330 a.C.: “Scidrus urbs italiae, gentile scidranus”. Come vedremo, la colonia Sibaritica di Scidro verrà citata più volte dallo storico reggino Lico di Reggio (…). Alcuni autori citano lo storico reggino Lico di Reggio (…), che citava sia l’antica colonia sibaritica di Scidro e l’altra di Pixunte (attuale Policastro Bussentino). Riguardo la figura di Lico di Reggio, ha scritto Emanuele Ciaceri (…), nel suo vol. III, della sua “Storia della Magna Grecia”, a pp. 289-299, ritorna sulla figura di Lico di Reggio (…) ed in proposito scriveva che: “Continuò intanto nella Magna Grecia e sopravvisse alla conquista romana la prosa letteraria e scientifica, tanto che per ciò che riguarda la storiografia e la medicina possiamo comprendere quest’ultima fase di civiltà fra inomi di Lico reggino ed Eraclide di Taranto. Visse Lico reggino nella seconda metà del sec. IV giungendo a toccare i primi decenni della metà del secolo successivo. Il punto fondamentale per la determinazione approssimativa di questi termini cronologici sta nel fatto che, fra le altre cose, egli scrisse un libro ‘Intorno ad Alessandro’ e a lui stesso lo dedicò (4). E da escludere che si trattasse di Alessandro Magno perchè, a prescindere dell’ipotesi inconsistente, messa innanzi da qualcuno dei critici moderni, che nell’occasione in cui anche ambasciatori Bruzzi, Lucani ed Etruschi si sarebbero recati a rendere omaggio al Macedone in Babilonia (l’anno prima che fosse colpito dalla morte (a. 324)(1)(p. 299) gli avrebbe inviato Lico un suo scritto riguardante l’Occidente (2), incomprensibile riuscirebbe che ciò egli facesse con un libro in cui, a giudicare dai due frammenti soprammenzionati, ricordava insignificanti città d’Italia quali Scidro e Larino e relative storielle. Trattavasi invece di Alessandro d’Epiro o il Molosso, ch’era venuto in Italia (3) alla difesa delle città italiote minacciate dai Bruzzi e Lucani (a. 334-31); il quale, come vedremo, era avanzato prima da Brindisi sino ad Arpi nella Daunia, a sud della regione dei Frentani ov’è appunto la città di Larino (fr. 2) ed aveva compiuto, dopo, una spedizione per via interna da Metaponto sino a Pesto per prendere alle spalle i Lucani e Sanniti, donde quindi aveva fatto ritorno ad Eraclea verisimilmente lungo la via littoranea del Tirreno, ove, fra le altre, sorgeva la cittadina di Scidro (fr. 1), colonia di Sibari (4). All’epirota poteva riuscire caro l’omaggio di un libro, in  cui eran poste in luce le sue azioni militari e che doveva essere un lavoro giovanile dell’autore; il quale, se allora non aveva toccati i trent’anni, doveva esser nato prima del 360 (e cioè poco prima dello storico Timeo, che, come oggi ritiensi, attingeva dopo alle sue opere (5), per cui ben poteva adottare, come figlio, il poeta Licofrone (6), che nasceva intorno al 330-325, e sessantenne, cioè dopo il 296, poteva infine trovarsi con Demetrio Falareo in Alessandria, seppure l’incontro non era avvenuto anteriormente in Atene (1)(p. 300). Trascorse, ad ogni modo, lo storico Lico l’ultimo periodo di sua vita in Egitto e morì molto vecchio, se giunse a parlare dei suoi scritti (fr. 15) del re Tolomeo Filadelfo, che salì al trono l’a. 285. Nonostante che gli scarsissimi frammenti sino a noi pervenuti (in tutto 15) contengano notizie di valore insignificante su città e popolazioni, devesi ritenere che le sue opere dal punto di vista storico-geografico fossero giudicate molto interessanti, se da Agatarchide di Cnido egli era posto accanto e prima di Timeo per la conoscenza dell’Occidente (2). Ecc..”. Ecco ciò che scriveva su Lico reggino il grande Ciaceri. Il Ciaceri, riferendosi al libro di Lico reggino “Intorno ad Alessandro”, nella sua nota (2) a p. 299, postillava che: “(2) v. LAQUEUR in R. E. XIII 2, 2406 sg.”. Inoltre il Ciaceri a p. 299, nella sua nota (3) postillava che: “(3) E, questa, del resto, la vecchia opinione del Mueller.”. Lico di Reggio (Reggio, IV secolo a.C. – III secolo a.C.) è stato uno storico greco antico. Nemico di Demetrio Falereo, fu una delle fonti più importanti di Licofrone che, adottato da Lico, da lui attinse per la sua Alessandra. Lico di Reggio (Reggio, IV secolo a.C. – III secolo a.C.) è stato uno storico greco antico. Nemico di Demetrio Falereo, fu una delle fonti più importanti di Licofrone che, adottato da Lico, da lui attinse per la sua Alessandra. Lico di Reggio. – Storico greco (attivo tra la fine del IV e gli inizî del III sec. a. C.), autore di alcune opere, di cui possediamo frammenti, sulla Libia, sulla Sicilia, sulle imprese di Alessandro d’Epiro in Italia. Fu avversario di Demetrio Falereo, forse durante la sua permanenza in Egitto. L. fu tra le fonti principali di Timeo e di Licofrone. L’opera di Lico di Reggio è contenuta in opera più tarda scritta da Stefano Bizantino.

Stefano Bizantino, Lessico geografico

Emanuele Ciaceri (…), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. I, nel capitolo “Cap. IX – Da Clampezia a Lao e da Velia a Posidonia”, a p. 272 scriveva che: “…di Scidro…; onde di essa manca ogni traccia di monete e non è neanche ricordata dagli scrittori latini (3).”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Herodot. VI 21; Steph. B.: Σχιδρος, χολις ‘Ιταλιας. Di Scidro si occupò Oreste Dito, Notizie di storia antica (Roma, 1892).”. Sempre il Caceri, a p. 273 continuando il suo racconto sulla colonia Sibaritica di Scidro scriveva pure che: “Non ebbe vera importanza, ma non è da credere che sia scomparsa assai presto, come è stato affermato (1), se lo storico Lico la menzionava a proposito della spedizione di Alessandro (probabilmente il re di Epiro), e cioè d’un fatto avvenuto nella seconda metà del sec. IV (2). Molto si è discusso nel passato sul vero sito di Scidro; (3) e della bontà dell’opinione prevalsa fra i moderni, secondo la quale è stata posta ove oggi è Sapri, (4) si dubita assai oggigiorno. Ecc…”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Beloch, Griech. Gesch. Ià 1, p. 238, n. 1”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Lyc. Rheg., apd Steph. B.. s.v. Σχιδρος : – το εθνιχον Σχιδρανος, ως Λνχος εν τφ περι ‘Αλεξανδρον = fr. 1 in F. H. G., II, p. 370″.  Il Ciaceri trascrive il passo di Lico di Reggio (…)(contenuto nel “Lessico” di Stefano di Bisanzio), in cui Lico cita e racconta di Scidro. Secondo il Caceri, lo storico reggino Lico di Reggio, citava la colonia Sibaritica di Scidro allorquando racconta della spedizione di Alessandro il Molosso. Il Ciaceri dice che si trattava del re di Epiro. Sulla scorta di storici del ‘900 come Emanuele Ciaceri, gli storici moderni hanno ripetuto la stessa notizia. Faccio cenno di alcuni autori che hanno citato Lico di Reggio parlando dell’antica città di Pixunte. L‘Antonini nella sua nota (2) di pagina 429, a proposito del ‘Sipron’, citato nel passo di Erodoto, scriveva: “Il trovarsi in alcuni esemplari scritto ‘Scidron’, e non ‘Sipron’, ha fatto credere all’Olstenio che sia piuttosto il Cetraro per una certa conformità di nome; ed anche appresso Stefano (3), si legge: “Scidrus Urbs Italiae, gentile Scidranus.”. Il passo di Lico di Reggio (…) è contenuto in un testo di Stefano di Bisanzio o Stefano Bizantino. Stefano di Bisanzio, conosciuto anche come Stefano Bizantino (in greco antico: Στέφανος Βυζάντιος; VI secolo – …) è stato un geografo bizantino, autore di un importante dizionario geografico intitolato Etnica (Ἐθνικά) in 50 o 60 volumi. Stefano utilizza come fonti principali i geografi dell’antichità, quali Tolomeo, Strabone e Pausania, i grammatici e i commentari a Omero. La sua conoscenza della geografia è nondimeno approssimativa e le sue etimologie sono confuse. Il lavoro è di enorme valore per le informazioni di carattere geografico, mitologico e religioso che fornisce sull’antica Grecia. Del dizionario sopravvivono scarsi frammenti ma ne esiste un’epitome compilata da un certo Ermolao. Ermolao dedica la sua epitome a Giustiniano; se sia il primo o il secondo imperatore di questo nome è incerto, ma sembra probabile che Stefano visse nella prima parte del VI secolo sotto Giustiniano I. I frammenti iniziali rimasti dell’opera originale (alcuni dei quali contengono lunghe citazione di autori classici e molti interessanti dettagli storici e topografici) sono Contenuti nel De administrando imperio di Costantino Porfirogenito, capitolo 23 (la voce Ίβηρίαι δύο) e nel De thematibus, ii. 10 (un rapporto sulla Sicilia); gli ultimi includono un passaggio del poeta comico Alessi sulle Sette maggiori isole. Un altro frammento importante, che va dalla voce Δύμη alla fine del Δ, esiste in un manoscritto della biblioteca Seguerian. Costantino Porfirogenito fu comunque l’ultimo a consultare l’opera completa, la Suda e Eustazio di Tessalonica usano già il compendio. La versione moderna standard è quella di Augustus Meineke (1849), e di recente è stata pubblicata una nuova edizione critica dell’intera opera a cura di Margarethe Billerbeck (già Università di Friburgo) per il Corpus fontium historiae Byzantinae (2006-2017, V voll.). Per convenzione, i riferimenti si riferiscono alle pagine dell’edizione Meineke. La prima edizione moderna fu pubblicata dalla stamperia aldina nel 1502. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (3) postillava che: “(3) v. ad es. Corcia, Storia delle due Sicilie, III, p. 65”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Nissen, It. Landesk, II, p. 898.”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (5) postillava che: “(5) Beloch, Griech. Gesch., l. c. “. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (6) postillava che: “(6) Byvanck, op. cit., p. 109, n. 3., il quale, secondo noi a torto, ripetendo a quanto pare l’interpretazione di scrittore locale, afferma: “hodie Papasidero, i. e. Scidrus vetus”.”. Infatti, il Byvanck (…), nel…….. nel suo “De Magnae Graeciae Historia Antiquissima”, a p. 109 così scriveva: “Scidrs 3) castellum in media via sita esse videtur, quo loco nunc ‘Papasidero’ est in valle Lai superiore. Colonia erat Sybaritarum qui post Sybarim eversam Laum et Scidrum fugissent 4).“. Il Byvanck (…), a p. 109, nella sua nota (3) postillava che: “(3) (Scridrus)(Latine non memoratur), Graece Σχιδρος, hodie Papasidero, i. e. Scidrus vetus; – cfr. tab. mil. 220-221, – O. Dito, Notizie di Storia antica, Roma, 1892. – Alii non recte Scidrum ‘Sapri’ hodiernum esse contendunt.”. Sempre il Byvanck, a p. 109, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Her. 6, 21; Steph. Byz. s.v., qui Lycum laudat εν τψ περι ‘Αλεξανδρον saeculo IV igitur urbs exstabat.”. Ritornando a ciò che scriveva il Ciaceri, ovvero che la colonia Sbaritica di Scidro anche se non dovette avere una grande importanza, non scomparve così presto: “….se lo storico Lico la menzionava a proposito della spedizione di Alessandro (probabilmente il re di Epiro), e cioè d’un fatto avvenuto nella seconda metà del sec. IV (2).”. E quì il Ciaceri menziona lo storico reggino Lico di Reggio (…). Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Lyc. Rheg., apd Steph. B.. s.v. Σχιδρος : – το εθνιχον Σχιδρανος, ως Λνχος εν τφ περι ‘Αλεξανδρον = fr. 1 in F. H. G., II, p. 370″.  Fernando La Greca (33), in un suo studio sul Golfo di Policastro: ‘L’area del Golfo di Policastro in epoca greco-romana’ scriveva in proposito: “L’ubicazione di Scidro è stata molto discussa. Nelle fonti  antiche vi è solo un altro brano che riguarda Scidro, nel lessico di Stefano Bizantino, dove la stessa Scidro è detta città dell’Italia, ed il suo etnico è Skidronòs, come riporta lo storico Lico di Reggio nella sua opera, Ethnica, su Alessandro (3). In questa citazione si narra anche del passaggio per Scidro da parte del condottiero Alessandro il Molosso  (chiamato da Taranto per fronteggiare i Sanniti) nel 334 a.C.; se ne deduce che Scidro avesse un porto. Il Molosso giunge in Italia con una flotta con la quale si sposta lungo le coste, e dopo aver combattuto in Puglia passa dal Tirreno per sorprendere i Sanniti alle spalle, prima passando per Scidro e, successivamente, sbarcando presso la città amica di Poseidonia.” […]; […] “a Sapri, le ceramiche di fine VI secolo trovate alle falde della collina del Timpone sembrano confermare l’ipotesi di coloro che localizzano qui una città greca arcaica, subcolonia dei Sibariti, di nome Scidro (Skidròs).”. Dunque, Fernando La Greca (33) scriveva che l’unica fonte o citazione di una “Scidro” è un brano del “lessico” di Stefano Bizantino, “….dove la stessa Scidro è detta città dell’Italia, ecc…” e, dove: si narra anche del passaggio per Scidro da parte del condottiero Alessandro il Molosso  (chiamato da Taranto per fronteggiare i Sanniti) nel 334 a.C.”. Dunque, il La Greca scriveva che nel “Lessico” di Stefano di Bisanzio o Bizantino si narra del passaggio per Scidro di Alessandro il Molosso, condottiero che fu chiamato dalla città di Taranto per sconfiggere i Sanniti nel ‘334 a.C.. Di Alessandro il Molosso parlerò dopo. Innanzitutto, come abbiamo già detto, oltre ad Erodoto (…), ci parla della colonia Sibaritica di Scidro, posta sulle coste del Tirreno e non lontana da Pixunte, lo storico Lico di Reggio. Il La Greca, riguardo “Scidro” scriveva pure che: “ed il suo etnico è Skidronòs, come riporta lo storico Lico di Reggio nella sua opera, Ethnica, su Alessandro (3)”. Il La Greca (….), nella sua nota (….) postillava di  “(3) Gatta Costantino, La Lucania illustrata ecc.., Napoli, per Antonio Abri, 1723. Si veda pure, Gatta Costantino, Memorie topografico-storiche della provincia di Lucania ecc….., opera postuma di Costantino Gatta data alla luce da suo figlio Giuseppe, Napoli, stamperia Muziana, 1743. Riguardo l’origine della famiglia Marchese, si veda Gatta C., Memorie……, op. cit., p. 292-293.”. Dunque, il La Greca parla anche sulla scorta di Costantino Gatta e cita anche lo storico Lico Di Reggio. Il La Greca scriveva che “ed il suo etnico è Skidronòs, come riporta lo storico Lico di Reggio nella sua opera, Ethnica, su Alessandro”, ovvero scriveva che Lico di Reggio, nella sua opera su Alessandro il Molosso, Ethnika, la città di “Scidro” veniva chiamata da Lico di Reggio “Skidronos”. Un altro studioso che ha riassunto la storia del toponimo è Domenico Romanelli (…), nel suo ‘Antica topografia istorica del Regno di Napoli’, edito nel 1815 a Napoli (si può vedere l’edizione ristampata e curata da La Greca nel suo ‘Il Cilento, Paestum e il Picentino’), che a p. 376, nella parte III che parla della ‘Lucania’, dopo aver discorso sul fiume Bussento, in proposito a ‘Scidro’ scriveva che: “Della medesima città di Scidro fece parola Stefano Bizzantino: ΣΚΙΔΡOC ‘Scridrus urbs Italiae, gentile Scidranus, ut Lycus in opere de Alessandro’. Il geografo ricavò questa notizia da Lico di Reggio scrittore di storie, e padre adottivo del poeta Licofrone.”. Dunque, il Romanelli chiarisce il passaggio di La Greca citando Stefano di Bisanzio che scriveva nel suo ‘Lessico Geografico’ di “Scidro”: “ΣΚΙΔΡOC ‘Scridrus urbs Italiae, gentile Scidranus, ut Lycus in opere de Alessandro'” che tradotto significa: “ΣΚΙΔΡOC ‘Scridrus è una città d’Italia, una famiglia chiamata Scidranus, come Lycus nell’opera di Alessandro”. Dunque Stefano dice chiaramente che la storia del passaggio di Alessandro il Molosso la trasse dallo storico Lico di Reggio. La Clara Bencivenga –  Trillimich (40), nel suo “Pyxous – Buxentum”, a p……, sulla scorta del Gaetani (…..) a proposito di Bussento o “Buxentum” (ora Policastro Bussentino) scriveva che: “La città è ancora menzionata nel VI secolo d.C. da Stefano Bizantino (….), quando era già fiorente sede vescovile, essendoci noti per l’anno 501 il vescovo Rustico e per il 592 il vescovo Agnello (….).”. La Trillimich (….) ed il Gaetani (….) si riferivano all’opera di “(3) Stefano Bizantino, Lessico geografico, Etnikà, Amsterdam, 1678.” che è la stessa opera a cui si riferiva il La Greca parlando del “Lessico” di Stefano Bizantino. La studiosa Clara Bencivenga Trillmich (…), nel suo ‘Pyxous-Buxentum’, a p. 704, parlando di Bussento, scriveva che: “La città è ancora menzionata nel VI secolo d.C. da Stefano Bizantino (9), quando era già fiorente sede vescovile, essendoci noti per l’anno 501, i vescovi Rustico e per il 542 il vescovo Agnello (10).”. La Trillmich (…), nella sua nota (9), postillava che: “(9) Steph. Byz., s.v. Πυξούς. e, nella sua nota (10), postillava che: “(10) Gaetani Rocco, L’Antica Bussento, oggi Policastro Bussentino’, in Gli studi in Italia’, Periodico didattico, scientifico e letterario, a. V, vol. I, Roma, 1882, p. 376.”. La Trillmich (…), dunque sulla scorta del Gaetani (…), citava Stefano Bizantino (…): “(9) Steph. Byz., s.v. Πυξούς.. Rocco Gaetani (….), sulla scorta del manoscritto del Mannelli (….), nel suo ‘Mannelli Luca, Notizie di Policastro Bussentino ecc.., op. cit., a p. 17, parlando di Policastro Bussentino leggiamo in proposito che “Ritrovasi mentionata ancora questa Città nella Lucania da altri Antichi, e particolarmente da Velleio, Pomponio Mela, e Tolomeo. Stefano Bizantino disse sia Città di Sicilia……………………. (2), e ne fu notato da Casanbono (3) ecc….havendo scritto bene Stefano che fusse Città di Sicilia, ancorchè nella Lucania, poichè anticamente questa provincia fu detta Sicilia, e così puote anco dirsi hoggigiorno il Regno tutto.”. Il Gaetani, riferendosi a Policastro, scriveva: sembra che questa da quelle comuni sventure stesse esente: si che non soggiacesse alla barbarie de’ Gothi, nè de’ Longobardi, ancorchè Alarico, predata Roma, ponesse a sangue e fuoco tutta questa regione fino a Reggio, e poi…Autari, Re de’ Longobardi…penetra con egual barbarie e fierezza. Di ciò puote darcene congettura il ritrovarsi che in que’ tempi calamitosi i Vescovi di Bussento intervennero in alcuni Concili celebrati in Roma. Così nell’anno 501, regnando in Italia Teodorico re Gotho, leggesi nella 3° Sinodo sotto Simmaco sottoscritto, ‘Ruslicus Episcopus Buxentinus’. “. Il Gaetani, a p. 17, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Stefano de Urbinus”. Rocco Gaetani, sulla scorta del manoscritto del Mandelli chiamava Stefano Bizantino “Stefano de Urbinus”.

note

Dunque, anche Rocco Gaetani parlando di Policastro Bussentino e delle sue origini scriveva che l’antica città di “Scidro” in Stefano Bizantino veniva posta sia come città della Sicilia e sia come città della Lucania. Il Gaetani spiega che Stefano Bizantino raccontava di Scidro come “città della Sicilia”, “ancorchè nella Lucania, poichè anticamente questa provincia fu detta Sicilia, e così puote anco dirsi hoggigiorno il Regno tutto.”. Infatti, lo storico e geografo Stefano di Bisanzio scriveva nel VI secolo a.C.., forse quando questa provincia della ex Lucania Romana apparteneva alla Sicilia Bizantina. Infatti, il racconto di Stefano di Bisanzio risale all’epoca dell’occupazione bizantina dell’Italia Meridionale, prima dell’avvento dei Longobardi e quindi il racconto di Stefano Bizantino è da porsi in epoca alto medioevale.

Nel ‘334 a.C. (IV sec. a.C.), Alessandro il Molosso raggiunse e conquistò Posidonia e, nel viaggio di ritorno si fermò con la sua flotta nel porto di “Scidro” per proseguire attraverso i monti ed arrivare ad Eraclea sullo Ionio

Emanuele Ciaceri (…), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. I, nel capitolo “Cap. IX – Da Clampezia a Lao e da Velia a Posidonia”, a p. 273 continuando il suo racconto sulla colonia Sibaritica di Scidro scriveva pure che: “Non ebbe vera importanza, ma non è da credere che sia scomparsa assai presto, come è stato affermato (1), se lo storico Lico la menzionava a proposito della spedizione di Alessandro (probabilmente il re di Epiro), e cioè d’un fatto avvenuto nella seconda metà del sec. IV (2). Molto si è discusso nel passato sul vero sito di Scidro; (3) ….ecc…”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Beloch, Griech. Gesch. Ià 1, p. 238, n. 1”. Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Lyc. Rheg., apd Steph. B.. s.v. Σχιδρος : – το εθνιχον Σχιδρανος, ως Λνχος εν τφ περι ‘Αλεξανδρον = fr. 1 in F. H. G., II, p. 370″. Ritornando a ciò che scriveva il Ciaceri, ovvero che la colonia Sibaritica di Scidro anche se non dovette avere una grande importanza, non scomparve così presto: “….se lo storico Lico la menzionava a proposito della spedizione di Alessandro (probabilmente il re di Epiro), e cioè d’un fatto avvenuto nella seconda metà del sec. IV (2).”. Qui, il Ciaceri citava lo storico reggino Lico di Reggio (…). Il Ciaceri, a p. 273, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Lyc. Rheg., apd Steph. B.. s.v. Σχιδρος : – το εθνιχον Σχιδρανος, ως Λνχος εν τφ περι ‘Αλεξανδρον = fr. 1 in F. H. G., II, p. 370″. Dunque, di cosa si tratta ?. A cosa si riferiva il Ciaceri quando scriveva della spedizione di Alessandro (probabilmente il re di Epiro), e cioè d’un fatto avvenuto nella seconda metà del sec. IV” ?. Emanuele Ciaceri (…), nel suo vol. III, della sua “Storia della Magna Grecia”, a p. 299, parlando di lico di Reggio (….) ci dice di Alessandro il Molosso ed in proposito scriveva che: fra le altre cose, egli scrisse un libro ‘Intorno ad Alessandro’ e a lui stesso lo dedicò (4). E da escludere che si trattasse di Alessandro Magno perchè, a prescindere dell’ipotesi inconsistente, messa innanzi da qualcuno dei critici moderni, che nell’occasione in cui anche ambasciatori Bruzzi, Lucani ed Etruschi si sarebbero recati a rendere omaggio al Macedone in Babilonia (l’anno prima che fosse colpito dalla morte (a. 324)(1)(p. 299) gli avrebbe inviato Lico un suo scritto riguardante l’Occidente (2), incomprensibile riuscirebbe che ciò egli facesse con un libro in cui, a giudicare dai due frammenti soprammenzionati, ricordava insignificanti città d’Italia quali Scidro e Larino e relative storielle. Trattavasi invece di Alessandro d’Epiro o il Molosso, ch’era venuto in Italia (3) alla difesa delle città italiote minacciate dai Bruzzi e Lucani (a. 334-31); il quale, come vedremo, era avanzato prima da Brindisi sino ad Arpi nella Daunia, a sud della regione dei Frentani ov’è appunto la città di Larino (fr. 2) ed aveva compiuto, dopo, una spedizione per via interna da Metaponto sino a Pesto per prendere alle spalle i Lucani e Sanniti, donde quindi aveva fatto ritorno ad Eraclea verisimilmente lungo la via littoranea del Tirreno, ove, fra le altre, sorgeva la cittadina di Scidro (fr. 1), colonia di Sibari (4). Ecc..”. Il Ciaceri, a p. 299, nella sua nota (3) postillava che: “(3) E, questa, del resto, la vecchia opinione del Mueller”. Alessandro I d’Epiro, detto il Molosso (362 a.C. circa – Pandosia, 330 a.C. circa), è stato re d’Epiro e zio materno di Alessandro Magno. Venuto in Italia nel 335 a.C. per soccorrere la città magno-greca di Taranto, Alessandro I, entrò in conflitto con i Lucani, i Bruzi, gli Iapigi e i Sanniti, nel tentativo di creare uno stato unitario nel Meridione d’Italia. Pur riuscendo a conquistare con i Tarentini le città di Brentesion, Siponto, Heraclea, Cosentia e Paestum, tuttavia il suo progetto non si realizzò, venendo sconfitto in battaglia e ucciso a tradimento da un lucano a Pandosia (Lucania) o a Pandosia Bruzia nel 330 a.C. Secondo una certa critica storiografica moderna ‘il Molosso’ sarebbe venuto in Italia con l’intendo di conquistare l’Italia stessa, la Sicilia e l’Africa. Questo obbiettivo avrebbe completato il progetto del nipote e cognato, Alessandro Magno, che in quello stesso anno era intento a conquistare l’Asia. Questa interpretazione trova appoggio anche in antichi autori, come ad esempio Giustino (…). Marco Giuniano Giustino (….), nella sua opera, Epitoma Historiarum Philippicarum Pompei Trogi, XII, 21. Su questi fatti ha scritto anche Giacomo Racioppi (….) nella sua “Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata“.

Nicola Corcia (…), vol. III della sua “Storia delle Due Sicilie dall’antichità più remota al 1789”, a p. 65 parlando di Scidro, in proposito scriveva che: “tempo all’invasione dè Lucani. Ma di fuori di queste, ignote sono tutte le altre memorie di Scidro, che conservava certamente Lico di Reggio nella sua storia della Sicilia, giacchè coll’autorità di questo storico, coetaneo di Demetrio Falereo (1), parlava di ‘Scidro’ Stefano Bizantino (2).”. Il Corcia, a p. 65, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Suida, v. Λνχος”. Il Corcia, a p. 65, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Steph. Byz., v. Σχιδρος.”. A questo proposito faccio notare che Emanuele Ciaceri, però a p. 273, nella sua nota (1) postillava che: “(7) Plinio, n.h., III, 72: ‘Oppidum Buxentum Graeciae Pyxus’. E ‘Buxentum’ hanno gli scrittori latini. Ma una vera forma latina del nome non c’è stata tramandata. Πνξονς troviamo in Strab. VI 253; Diodoro, XI, 59 e Steph. B.., il quale ultimo erroneamente distingueva Πνξις da Πνξονς, ponendo l’una nell’interno dell’Enotria e l’altra in Sicilia. In Ptolom. III, 1, 18 si ha Βονξεντον “. Ovvero, il Ciaceri, faceva notare che Stefano Bizantino erroneamente distingueva Πνξις da Πνξονς, ponendo l’una nell’interno dell’Enotria e l’altra in Sicilia”. Domenico Romanelli (…), nel suo ‘Antica topografia istorica del Regno di Napoli’, edito nel 1815 a Napoli (si può vedere l’edizione ristampata e curata da La Greca nel suo ‘Il Cilento, Paestum e il Picentino’), che a p. 376, nella parte III che parla della ‘Lucania’, dopo aver discorso sul fiume Bussento, in proposito a ‘Scidro’ scriveva che: “Della medesima città di Scidro fece parola Stefano Bizzantino: ΣΚΙΔΡOC ‘Scridrus urbs Italiae, gentile Scidranus, ut Lycus in opere de Alessandro’. Il geografo ricavò questa notizia da Lico di Reggio scrittore di storie, e padre adottivo del poeta Licofrone.”. Fernando La Greca (33), in un suo studio sul Golfo di Policastro: ‘L’area del Golfo di Policastro in epoca greco-romana’ riferendosi all’opera di Lico di Reggio su Alessandro il Molosso “Etnika” scriveva che: In questa citazione si narra anche del passaggio per Scidro da parte del condottiero Alessandro il Molosso  (chiamato da Taranto per fronteggiare i Sanniti) nel 334 a.C.; se ne deduce che Scidro avesse un porto. Il Molosso giunge in Italia con una flotta con la quale si sposta lungo le coste, e dopo aver combattuto in Puglia passa dal Tirreno per sorprendere i Sanniti alle spalle, prima passando per Scidro e, successivamente, sbarcando presso la città amica di Poseidonia.” […]; […] “a Sapri, le ceramiche di fine VI secolo trovate alle falde della collina del Timpone sembrano confermare l’ipotesi di coloro che localizzano qui una città greca arcaica, subcolonia dei Sibariti, di nome Scidro (Skidròs).”. Fernando La Greca (33) scriveva che l’unica fonte o citazione di una “Scidro” è un brano del “lessico” di Stefano Bizantino, “….dove la stessa Scidro è detta città dell’Italia, ecc…” e, dove: si narra anche del passaggio per Scidro da parte del condottiero Alessandro il Molosso  (chiamato da Taranto per fronteggiare i Sanniti) nel 334 a.C.”. Il La Greca, riguardo “Scidro” scriveva pure che: “ed il suo etnico è Skidronòs, come riporta lo storico Lico di Reggio nella sua opera, Ethnica, su Alessandro (3). Il La Greca (….), nella sua nota (….) postillava di  “(3) Gatta Costantino, La Lucania illustrata ecc.., Napoli, per Antonio Abri, 1723. Si veda pure, Gatta Costantino, Memorie topografico-storiche della provincia di Lucania ecc….., opera postuma di Costantino Gatta data alla luce da suo figlio Giuseppe, Napoli, stamperia Muziana, 1743. Riguardo l’origine della famiglia Marchese, si veda Gatta C., Memorie……, op. cit., p. 292-293.”. Il La Greca scriveva che nel “Lessico” di Stefano di Bisanzio o Bizantino (….), viene riportata l’opera di Lico di Reggio, “Etnika”, in cui si narra del passaggio per Scidro di Alessandro il Molosso, condottiero che fu chiamato dalla città di Taranto per sconfiggere i Sanniti nel ‘334 a.C.. e cita l’opera di Costantino Gatta (…). Dunque, il La Greca scriveva che Stefano di Bisanzio (….), nel suo “Lessico Geografico” riportava un libro di Lico di Reggio che citava “Scidro” dove lo storico reggino narrò il passaggio per Scidro di Alessandro il Molosso. Il La Greca scriveva che Alessandro il Molosso, nell’anno ‘334 a. C. (IV sec.), a.C., fu chiamato dai Tarantini di Sicilia per vincere i Sanniti che volevano conquistare la città. Alessandro il Molosso giunse in Italia con una flotta di navi e dopo essersi fermato a Scidro “e dopo aver combattuto in Puglia passa dal Tirreno per sorprendere i Sanniti alle spalle, prima passando per Scidro e, successivamente, sbarcando presso la città amica di Poseidonia.”. Dunque, secondo la notizia riportata dal La Greca, egli deduceva che “Scidro” avesse un porto nell’anno ‘334 a.C.. Nel 1925, Ettore Pais (…), nel suo “Storia dell’Italia antica”, vol. II, nel capitolo VI “Le imprese di Alessandro il Molosso”, a pp. 272-273, in proposito scriveva che: “Della potenza raggiunta dai Bretti aveva dato prova cospicua il vano tentativo di domarli fatto da Alessandro il Molosso, re di Epiro, zio di Alessandro il Grande……. Poniamo ora in rilievo che le popolazioni Sannitiche, alle quali fra poco dovevano succedere i Romani,…….Alessandro il Molosso, al quale Taranto si rivolgeva, era principe ambizioso e di gran valore ed accettò l’invito con la speranza di fondare un grande impero in Occidente. Nello stesso anno in cui suo nipote Alessandro il Grande muoveva alla conquista dell’impero Persiano, egli si volgeva in Italia, sapendo di avere impresa, …..Giunto però a Taranto, il principe Molosso……Ma, guastatosi coi Tarantini, fece fulcro della sua potenza la città di Thuri, loro nemica (dei Tarantini), minacciata dai Bretti e, per vendicarsi di Taranto, trasportò nel territorio di Thuri la sede dell’assemblea degli Italioti. Ben presto però Alessandro si accorse che la lotta coi Bretti era assai ardua. Era difficile penetrare nell’interne vallate dell’aspra regione montagnosa occupata da quelle genti forti e selvagge; ed allora concepì l’ardito disegno di assalirli alle spalle, trasportando parte delle sue forze per mare presso alle foci del Silaro, partendo dai confini di Pesto, discendendo le valli, che penetrano nel cuore del paese dei Bretti e raggiungono le coste dell’Ionio…..Il disegno non riuscì. I Bretti si difesero disperatamente presso il fiume Acheronte e nel passare la riviera il re d’Epiro venne ucciso da un esule Lucano. La sua morte avvenuta verso il 331-330 a.C. segnò la fine della potenza di Thuri ed un periodo di incontrastata superiorità per i Bretti (verso il 330 a.C.).”. Dunque come abbiamo visto il Pais non dice nulla circa le notizie di un passaggio di Alessandro a Scidro e a Pixunte. Ettore Pais (…), però scrisse in proposito il libro ‘La spedizione di Alessandro il Molosso in Italia. Nota’, Napoli, Stab. Tip. della R. Università, 1902. Il Pais, nel suo “Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli” dedica un capitolo alla questione intitolato “IL TESTO DI LIVIO ( VIII 24 , 4 ) RELATIVO ALLE GESTA DI ALESSANDRO IL MOLOSSO IN ITALIA . Dunque, è Tito Livio (….) che ci racconta della spedizione di Alessandro il Molosso contro i Lucani alleati dei Brezii. Il Pais, a p. 516, nelle sue note al testo riguardo la p. 223 sgg. postillava che: “p. 223 sgg. Intorno alle imprese di Alessandro il Molosso v. la mia memoria edita nell’Italia Antica vol. II, p. 163 sg. ove raccolgo tutto il materiale relativo a questo periodo.”. Da qualche parte ho letto che fu Giustino a fornire alcune utili informazioni che ci riguardano. Infatti, il Pais, nelle sue note al vol. II, postillava che: “p. 255 sgg. Intorno al sorgere dei Brutti porgono dati assai brevi e incompiuti, Diod. XVI, 15, Strab. VI, P. 255 C., Iustino XXIII, I, il quale insiste sulla loro ‘feritas che ‘diu terribilis finitimis fuit’. Degno di nota è anche il passo di Livio XXIV, 3, 12 ove i Crotoniati ecc..”. Infatti, Ettore Pais, nella sua “Italia Antica”, vol. II, a p. 164, in proposito scriveva che: “Ne è abbastanza chiara da qual fonte originaria derivi il racconto drammatico, che dalla fine di quel principe ci è conservato il Livio (1).”. Il Pais, a p. 164, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Livio, VIII, 3; 17; 24; cfr. Iustino, XII, 2, 12. Strab., VI, p. 256 C.; 280 C.”. Ettore Pais (…), nel suo “Italia Antica“, vol II, nel capitolo “La spedizione di Alessandro il Molosso in Italia”, a pp. 170-171 e ssg., in proposito scriveva che: “Un illustre storico moderno afferma infatti che Alessandro atraverso per via di terra tutto quanto il territorio dei Lucani, e che in tal modo si spinse fino a Pesto (1) (p. 171). Ma questa affermazione riposa su un semplice equivoco, o, per meglio dire, su una falsa interpretazione di un passo di Livio. Da Livio, non meno da un passo di uno storico pressochè contemporaneo, Lico Regino, che, per quanto io noto, è stato finora trascurato, si apprende invece che Alessandro costeggiò tutte quante le Calabrie e che a Pesto giunse per via di mare (2).”. Questo dunque è il passaggio chiarificatore della notizia ripetuta più volte su Scidro e su Alessandro il Molosso. Infatti, il Pais, a p. 171, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Beloch, griech. Geschicthe, II, p. 594.”. Il Beloch sarebbe l’autore moderno che credeva che Alessandro il Molosso avesse attraversato con le sue armate per via terra. Il Pais, a p. 171, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Livio, VII 17, 9: “Ceterum Samnites etc…….”; Lyc. apud Steph. Byz. s. v.  “Σχιδρος etc…..”. Questo passo risolve anche il dubbio di quei critici che, come il ………………..Che Scidro fosse sulle coste del Tirreno non si ricava nè da Erodoto, VI 21, nè da Stefano. Tutto però fa credere, come generalmente si ammette, che essa non fosse sulle coste dell’Ionio aperta agli assalti dei Crotoniati, bensì non molto lungi da Laos, ove del pari che in essa trovarono riparo i Sibariti, dopo la distruzione della loro città. v. Herodoto l. c. Anche il Nissen, Italische Landeskunde, II, p. 898, registra l’ipotesi che Scidro fosse dove ora è Sapri.”.

Pais, Italia antica, p. 171

Interessantissimo è ciò che scrisse Emanuele Ciaceri (…), nel suo “Storia della Magna Grecia”, vol. III, nel capitolo “Cap. I – Lotte tra le popolazioni indigene ed intervento straniero”, a pp. 8- 11, dopo aver detto del tentativo dei Tarantini di richiesta di intervento a Sparta, tentativo andato vano, scriveva pure che: “Chiesero, in fine, aiuto ad Alessandro il Molosso, re di Epiro; il quale accettando l’invito, con entusiasmo si affrettò a fare preparativi si da porsi presto in viaggio con 15 vascelli da guerra e numerosi navi cariche di truppe e di cavalli (2). Con quali propositi egli veniva in Italia (a. 334/3)?…..(p. 10) Alessandro comprese che per porre termine alla lotta era necessario fermare quella perenne fiumana di uomini alle sue sorgenti (5); e per questo egli decise di attuare una spedizione verso nord lungo l’interno del paese, sì da giungere a Pesto, l’antica Posidonia, che rappresentava, per così dire, la testa di ponte della potenza lucana, come un tempo l’era stata, in senso inverso, per lo Stato di Sibari (1)(p. 11). Quale via abbia tenuto, non è deto; ma puossi congettuarare che risalendo da Metaponto il corso del Casuento (Basento) e passando sotto Potenza raggiungesse le sorgenti del Tanagro, lungo il quale poi penetrava nella vallata del Silaro. Così avrebbe preso il nemico alle spalle. Lucani e Sanniti, prima ch’egli scendesse al piano, gli andarono incontro ma furono battuti; onde v’è da supporre che sia entrato a Pesto (2). La vittoria così poteva dirsi completa; ed al Molosso non restava che far ritorno alle spiagge dell’Ionio percorrendo la via più agevole, la litoranea, lungo la quale avrebbe avuto modo di far dimostrazione di forza dinanzi alle cittadine italiote che da lungo tempo eran state occupate dai Lucani, Pissunte, cioè, Scidro e Lao (3). E forse di là risalendo alle sorgenti del Laino e quindi prendendo il corso del Sinno veniva a posare in Eraclea. Le basi del suo principato eran ormai gettate; e Lucani e Bruzzi si vedevan costretti a consegnargli numerosi ostaggi, ch’egli inviava in Epiro, mentre gli esuli provenienti dalla loro parte venivano a formare intorno a lui un corpo di guardia (4).”. Il Ciaceri, a p. 11, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Non è ammissibile che si recasse per via di mare fino a Pesto, secondo la congettura del LENORMANT, La Grande-Grèce I p. 40 (vedi anche NIESE, Gesch. der griech. u. maked. Staaten I p. 476), seguita dal Pais, op. cit., p. 143.”. E’ proprio in questa postilla che il Ciaceri chiarisce la questione del percorso che fece il Molosso. Il Ciaceri non ammette il percorso enunciato dal Lenormant e dal Pais. Infatti, secondo Francois Lenormant (…), nel suo “La Grande-Grèce”, vol. I, p. 40 scriveva che il Molosso si recò a Pesto per mare. Francois Lenormant (….), nel suo vol. I, della sua “La Grande-Grèce”, a p. 40 scriveva che: “…….

Lenormant, I, p. 40

Sull’ingresso e la conquista di Posidonia di Alessandro il Molosso, il Ciaceri a p. 11, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Liv. VIII, 17, 9: “ceterum Samnites bellum Alexandri Epirensis in Lucanos traxit, qui duo populi adversus regem escensionem a Pesto facientem signis conlatis pugnaverunt.”. Il Ciaceri (…), a p. 11, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Il particolare che lo storico Lico reggino narrando le gesta di Alessandro ricordava Scidro (Stepha. B. s. v.) deve, a nostro giudizio, riferirsi al viaggio di ritorno del re da Pesto.”.E’ poprio in questa postilla che il Ciaceri chiarisce ulteriormente la sua teoria (differente dal Lenormant), sull’itinerario militare del Molosso. Il Ciaceri scrive che proprio la citazione di Scidro, che fece Lico di Reggio, dice il Ciaceri che starebbe a dimostrare che il Molosso toccò le spiagge di Scidro nel viaggio di ritorno per via mare da Pesto. Secondo il Ciaceri, fu da Scidro che il Molosso risalì con le sue truppe le vie interne per arrivare a Eraclea sullo Ionio. Il Ciaceri, a p. 11, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Liv. VIII 24, 4-6. Certo, con esagerazione Livio parlava di 300 famiglie illustri prese come ostaggi.”.  Emanuele Ciaceri (…), nel suo vol. III, della sua “Storia della Magna Grecia”, a p. 299, ritorna sulla figura di Lico di Reggio (…) e cita di nuovo l’impresa del Molosso e Scidro, scrivendo che: gli avrebbe inviato Lico un suo scritto riguardante l’Occidente (2), incomprensibile riuscirebbe che ciò egli facesse con un libro in cui, a giudicare dai due frammenti soprammenzionati, ricordava insignificanti città d’Italia quali Scidro e Larino e relative storielle. Ecc..”. Il Ciaceri, riferendosi al libro di Lico reggino “Intorno ad Alessandro”, nella sua nota (2) a p. 299, postillava che: “(2) v. LAQUEUR in R. E. XIII 2, 2406 sg.”.

Gli Enotri

I Sanniti ed i Lucani

Significativo in proposito è quanto scrive l’archeologa Giovanna Greco (….): “Indicativi in tal senso sono due elementi, entrambi da ritrovamenti significativi sono le tombe recuperate a Torraca (…) in località “Madonna dei Cordici” (tra Sapri e Torraca), i cui corredi si dispongono tra la fine del V ed il IV sec. a.C. e dove la presenza di armi, tra cui un bel frammento di cinturone di tipo sannitico, associato a materiale figurato (….) e, per i corredi più antichi, a ceramica attica della fine del V secolo, evidenziano una diffusa occupazione del territorio da parte di comunità lucane che, già negli anni finali del V sec., organizzano forme articolate di sfruttamento del territorio usufruendo attivamente dei traffici coloniali lungo la costa ed occupando quelli che erano i territori delle città coloniali di Scidro e Pixunte.”. Si tratta del testo di autori vari: Greco Giovanna, Dall’Alento al Mingardo, stà in “A Sud di Velia-I-ricognizioni e ricerche 1982- -1988“, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia,Taranto, 1990, p. 17; Si veda pure Greco G., 1990 b, p. 18; Fiammenghi-Maffettone 1990, p. 32 e p. 38. Fernando La Greca (…), più tardi, scriverà: “Molto significativi sono i ritrovamenti di Torraca: in località Madonna dei Cordici, collina con vista su Sapri, nel 1982 durante lavori stradali furono scoperte e purtroppo in gran parte distrutte alcune tombe a cassa in tegole di fine V/prima metà del IV secolo; fra i materiali recuperati, una cuspide di lancia, un coltello, una kylix attica di fine V secolo, vasi a vernice nera, tra cui un frammento figurato di un cratere, frammenti di un cinturone di bronzo di tipo sannitico (20). Tutto ciò evidenzia una diffusa occupazione del territorio da parte di comunità lucane che, già negli anni finali del V secolo, organizzando forme articolate di sfruttamento del territorio ecc.. (…).. Si tratta di Fernando La Greca (…) ed il suo ‘L’area del Golfo di Policastro in epoca greco-romana’, Agropoli, 2010, pp. 19-25.

Nel I sec. d.C., Strabone geografo e la colonia di Sibari nella sua “Geografia” non cita ‘Scidro’

Biagio Cappelli (…), nel suo “Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani”, a p. 197, nella sua nota (39) postillava che: “(39) Strabonis, VI, 253; Vergilii, ‘Aeneis’, V. 833-71, VI , 337-83; Lycophronis, Alexandra, 722. Sull’argomento vedi anche: G. Alessio, ‘La sirena Ligea e l’antica Terina’, in “Almanacco Calabrese 1958″, Roma, 1958, pp. 19 ss.”. Mario Napoli (…), nel suo “Civiltà della Magna Grecia”, dove l’autore ci fa un exursus storico-geografico della Magna Grecia proprio sulla scorta del racconto Straboniano lo commenta a modo suo e, nel suo capitolo “Da Pixunte a Reggio”, a pp. 177-181 dove ci parla di Scidro. In particolare il Napoli, a p. 182 in proposito scriveva che: “L’altra colonia di Sibari sul mare Jonio, ove si sarebbero rifugiati i profughi sibariti dopo il 510, è Scidro, ma Strabone non ne fa cenno, e ne abbiamo ricordo solo nell’episodio citato da Erodoto, in Stefano di Bisanzio (s.v. Σχιδρος , con ricordi in Lico di Reggio, storico del terzo secolo avanti Cristo) ed in Ateneo (XII, 523 c., d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele). Ecc…”. Dunque, l’archeologo Mario Napoli, scriveva che il geografo Strabone (….), nella sua “Geographia”, non accenna mai alla colonia di Scridro. Strabone è stato un noto geografo. Strabone (in greco antico: Στράβων, Strábōn; in latino: Strabo; Amasea, ante 60 a.C. – Amasea ?, tra il 21 e il 24 d.C.) è stato un geografo, storico e filosofo greco antico. La ‘Geografia‘ (Γεωγραφικά) in 17 libri inizia con un’introduzione, nei libri I e II, in cui Strabone vuole dimostrare che Eratostene ha avuto torto a invalidare l’opera di Omero dal punto di vista geografico. I libri dal III al X descrivono l’Europa, e più in particolare la Grecia antica (libri VIII-X), mentre i libri dall’XI al XVI descrivono l’Asia Minore e il libro XVII si occupa dell’Africa (Egitto e Libia). Se la sua opera, che è il trattato geografico più ampio dell’antichità, riprende talvolta testi di diversi secoli più antichi del suo, tuttavia la sua conoscenza del diritto romano applicato nelle varie città ne fa una fonte essenziale per la conoscenza dell’inizio della romanizzazione in Gallia e nella Penisola iberica, che mostra, soprattutto nei libri III e IV, come a seguito dell’acculturazione graduale delle popolazioni, si stesse sviluppando in queste regioni una nuova, specifica cultura. A differenza della geografia tolemaica, improntata su uno studio ed una analisi più rigidamente matematiche, la Geografia di Strabone presenta un impianto più storico-antropologico. Strabone ci parla del promontorio di Palinuro nel libro VI della sua “Geographia”. Riguardo i testi citati dal Cappelli nella nota (39) si tratta di: Strabone (…) e la sua ‘Geographia’. Il testo di Strabone (…)(Strabonis), lo troviamo “volgarizzato” (come scriveva il Gaetani (…), ovvero tradotto dal greco, in Francesco Ambrosoli (…), nel suo ‘Collane degli antichi storici greci volgarizzati‘, su Strabone, vedi vol. III, pp. 93-94-95.

Nel II sec. d.C., ‘Scidro’ è ricordata da Ateneo

Mario Napoli (…), nel suo “Civiltà della Magna Grecia”, dove l’autore ci fa un’exursus storico-geografico della Magna Grecia proprio sulla scorta del racconto Straboniano lo commenta a modo suo e, nel suo capitolo “Da Pixunte a Reggio”, a pp. 177-181 dove ci parla di Scidro. In particolare il Napoli, a p. 182 in proposito scriveva che: “L’altra colonia di Sibari sul mare Jonio, ove si sarebbero rifugiati i profughi sibariti dopo il 510, è Scidro, ma Strabone non ne fa cenno, e ne abbiamo ricordo solo nell’episodio citato da Erodoto, in Stefano di Bisanzio (s.v. Σχιδρος , con ricordi in Lico di Reggio, storico del terzo secolo avanti Cristo) ed in Ateneo (XII, 523 c., d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele). Ecc…”. Dunque, l’archeologo Mario Napoli, scriveva che il geografo Strabone (….), nella sua “Geographia”, non accenna mai alla colonia di Scridro. Il Napoli scriveva che questa colonia dei Sibariti, sorta probabilmente solo dopo la caduta di Sibari, del ‘510 a.C., si fa cenno in Erodoto (….) e, nel passo precedente a p. 177, il Napoli dice che Erodoto ci parla di Scidro nella sua opera “(Herod. VI, 21)”. Secondo Mario Napoli, si fa cenno della colonia di “Scidro” “(Σχιδρος) , con ricordi in Lico di Reggio, storico del terzo secolo avanti Cristo) ed in Ateneo (XII, 523 c., d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele)”. Dunque, il Napoli, oltre ad Erodoto dice che la colonia sibaritica di Scidro si fa cenno anche in “in Ateneo (XII, 523 c., d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele).”. A quale autore si riferiva Mario Napoli ?. L’archeologo Mario Napoli, nella sua opera “Civiltà della Magna Grecia”, a p. 181 scriveva che la colonia Sibaritica di “Scidro”, oltre ad essere stata citata nel Libro VI delle “Storie” di Erodoto (…) fu citata anche in Ateneo (XII, 523 c., d, che si rifà a Timeo o ad Aristotele)”. Riguardo l’interessante citazione di Ateneo (…), del Napoli, essa andrebbe ulteriormente indagata in quanto leggendo wikipedia alla voce “Ateneo” troviamo tre autori con lo stesso nome. E’ il sacerdote Luigi Tancredi (….) che ci viene in soccorso. Infatti, il Tancredi (…), nel suo capitolo “SKIDROS” del suo “Le città sepolte nel Golfo di Policastro” a p. 93 in proposito scriveva che: “Degli infelici abitanti parla una sola riga: dice che essi (i sopravvissuti) si rifugiarono a ‘Laos’ e a ‘Skidros’ (2).”. Il Tancredi, a p. 93, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Idem. Cfr. Ateneo, ‘Dipnosofisti’, XII, 523.”, che è la stessa citazione che postillava il Napoli. I deipnosofisti (o dipnosofisti) o I dotti a banchetto (in greco antico: Δειπνοσοφισταί) è un’opera in quindici libri dello scrittore greco Ateneo di Naucrati. In Wikipedia troviamo “Ateneo di Neucrati” che era una città dell’Egitto. Mario Napoli scriveva che, Ateneo da lui citato, si rifà a Timeo o ad Aristotele”. Infatti, Ateneo di Naucrati, in greco antico: Ἀθήναιος Nαυκρατίτης o Nαυκράτιος, Athḕnaios Naukratítēs o Naukrátios (Naucrati, … – dopo il 192), è stato uno scrittore egizio dell’età imperiale. Dovrebbe aver scritto dopo la morte di Commodo (192 d.C.) perché ne parla con esecrazione, tra l’altro introducendo come anfitrione del banchetto da cui prende nome l’opera Publio Livio Larense, procurator dell’imperatore tra 189 e 192. Sappiamo dalle titolazioni dei manoscritti che fu di Naucrati e, dunque, greco egiziano, probabilmente grammatico e consultatore della Biblioteca di Alessandria, visto che cita circa 700 autori e 2.500 opere che, pur non consultate tutte direttamente, erano conservate ad Alessandria. Ateneo scrisse – come egli stesso afferma – almeno due opere che non ci sono giunte: un commento sul pesce thratta, citato dai comici attici, e una Storia dei re di Siria. L’unica sua opera giunta a noi è la miscellanea Δειπνοσοφισταί (I Dipnosofisti o I dotti a banchetto), redatta in quindici libri. Dei primi tre libri dell’opera (oltre a parti dei libri XI e XV), perduti, è sopravvissuta solo una epitome, che consente di avere idea dell’inizio dell’opera.

Nel III sec. a.C., Apollonio Rodio e la citazione del toponimo “SAPRORUM” dai ‘SAPIRI’, popolazione

Orazio Campagna (…), nel suo ‘La “Regione Mercuriense” nella storia delle comunità costiere da Bonifati a Palinuro’, edito nel 1982, a pp. 252-253 parlando di Sapri, in proposito scriveva che: “Appena gli strapiombi del territorio di Maratea declinano, il mare si incunea tra le coste lucana e campana, formando una rada sicura, il “Portus” per antonomasia, che, specificatamente, veniva indicato col termine etnico di “Saprorum”, probabilmente dai Sapiri, tribù di provenienza asiatica, menzionata da Apollonio Rodio (44).”. Il Campagna (…), a p. 252, nella sua nota (44), postillava che: “(44) I Σαπειρες, Ap. R., 2, 395.”. Sulla citazione di Apollo Rodio (…), del Campagna (…), è cosa da interessante e da ulteriormente approfondire ed indagare. Non so da dove nasca la citazione del Campagna, circa ciò che scriveva Apollonio Rodio (…), forse nella sua opera “Le Argonautiche”, un poema epico in cui si narra il viaggio di Giasone e della sua nave “Argo”. Devo pure precisare che il Campagna, a p. 45, pone la colonia sibaritica di “Scidro”, non a Sapri, ma verso Diamante in Calabria. Apollonio Rodio (in greco antico: Ἀπολλώνιος Ῥόδιος, Apollónios Ródios; Alessandria d’Egitto, 295 a.C. – 215 a.C.) è stato un poeta egizio del periodo tolemaico. All’età di circa 30 anni fu nominato bibliotecario della Biblioteca di Alessandria dal re Tolomeo II Filadelfo, succedendo a Zenodoto. Contemporaneamente ebbe l’incarico dell’educazione del figlio di Tolomeo II Filadelfo, il futuro Tolomeo III Evergéte. Secondo il lessico bizantino Suda (o Suidas) dovette andare in esilio a Rodi per la scarsa considerazione che i suoi concittadini diedero alla sua opera principale (Le Argonautiche, vedi sotto). Trasferitosi a Rodi, visse sull’isola fino alla sua morte occorsa intorno al 215; per via di questa vicenda fu soprannominato “Rodio”. La celebrità di Apollonio non è dovuta soltanto alle Argonautiche”, ma anche al più celebre episodio della sua biografia: la violenta polemica letteraria che ebbe, fra il 246 a.C. e il 240 a.C. con il suo maestro Callimaco. Callimaco affermò che l’unico requisito della poesia era l’essenzialità lirica e per questo condannò tutta l’epica antica per la sua incapacità di mantenere una continuità di tono e di ispirazione. Nelle pagine precedenti, il Campagna non approfondisce il discorso sui “Sapiri”, tribù di provenienza asiatica, menzionata da Apollonio Rodio (44)”. Come pure non approfondisce affatto ciò che scriveva Apollo Rodio (…), nel suo Libro II, a p. 395, dove scrive: Σαπειρες, il cui significato dal greco antico dovrebbe corrispndere a “Sapeires”, se non erro e non “Saprorum”, termine latinizzato. Le Argonautiche (in greco antico: Τὰ Ἀργοναυτικά) è un poema epico in greco antico scritto da Apollonio Rodio nel III secolo a.C.. Unico poema di Età Ellenistica sopravvissuto, esso racconta il mitico viaggio di Giasone e degli Argonauti per recuperare il Vello d’oro nella remota Colchide. Le loro eroiche avventure e la relazione di Giasone con la pericolosa Medea, principessa e maga colchiana, erano già ampiamente note al pubblico Ellenistico, permettendo così ad Apollonio di superare la semplice narrazione, per presentare un’esposizione che aderisca ed enfatizzi i valori dei suoi tempi – l’età della grande Biblioteca di Alessandria – mentre la sua epica incorpora la sua ricerca nei campi della geografia, dell’etnografia, delle religioni comparate, della letteratura omerica. Comunque, il suo principale contributo alla tradizione epica risiede nell’evoluzione dell’amore tra l’eroe e l’eroina: egli sembra esser stato il primo poeta epico a studiare la «patologia d’amore». Le Argonautiche ebbero un profondo impatto sulla poesia latina: tradotte da Varrone Atacino e imitate da Valerio Flacco, influenzarono Catullo e Ovidio, e indicarono a Virgilio un modello per il suo poema romano, l’Eneide.

Nel 1577, Leandro Alberti voleva che Policastro avesse origine da Velia

Nel 1973, Pietro Ebner (….), nel suo “Chiesa Baroni e popolo nel Cilento”, vol. II , a p. 345, parlando di Policastro, in proposito scriveva che: “Il Giustiniani (82) ripete dall’Antonini che Policastro, nel Medioevo nota come ‘Paleocastrum, Policastrum, Pollicastrum, è sita su una collina bagnata dal mare, e che è città vescovile suffraganea di Salerno, dalla quale dista 76 miglia. Respinge l’opinione dell’Ughelli e del di Luccia che “la vogliono figlia dell’antica Velia”, che ubica a Castellammare della Bruca; riporta il brano di Goffredo Malaterra (83) sulla distruzione da parte di Guglielmo il Guiscardo e dice che il vescovo e i canonici se ne vanno a maggio a Torre Orsaia, tornandovi a dicembre. Ecc…”. Ebner, nella sua nota (82) postillava che: “(82) Giustiniani cit., VII, Napoli, 1804, p. 224 sgg.”. Infatti, Lorenzo Giustiniani (…), nel suo ‘Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli’, Napoli, 1802, vol. VII, p. 224 parlando di Policastro, scriveva: “L’Abate ‘Ferdinando Ughelli’ e, poi il dott. Pietro Marcellino di Luccia, la vogliono figlia dell’antica Velia (2); ma figlia di Velia è certamente Castellammare della Bruca (3), posto in dubbio, non senza meraviglia dall’Egizio, nella lettera diretta all’Abbate Langhet colla quale gli va correggendo gli errori presi nella sua geografia toccante il nostro Regno”. Il Giustiniani, a p. 224, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Vedi il suo articolo, t. 3, pag. 302.”. Il Giustiniani, a p. 224, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Vedi la sua scrittura intitolata: L’Abadia di S. Gio a Piro, stampata in Roma nel 1700, in 4 pag. 4 seg.”. Infatti, Pietro Marcellino Di Luccia (….), nel suo “L’Abbadia di S. Giovanni a Piro unita alla sa. maestà ……Trattato historico-legale etc…”, nel 1700, a p. 7, in proposito scriveva che: “Leandro Alberti nella descrizione d’Italia, vuole, che Policastro fose stata edificata per le ruine della suddetta Velia; E benchè trà l’antichi Scrittori sia controversia, se Policastro sia nella Lucania, o pure ne Brutij, nientedimeno io adherendo all’opinione del suddetto Leandro, dico che nella Lucania senza dubbio fosse edificata, e che venisse dalli avanzi di Velia, a simile parere s’avicina il Burdonio nella sua Italia dicendo Policastro essere vicino Palinuro, le parole di Leandro sono le seguenti: ‘E’ Policastro Città della Lucania nobile Città, ornata della dignità Ducale, la quale passata vedesi il fiume Cocco, così dalli habitatori nominato, dalli Latini Talauus, ò Lauus Termine della Lucania’, così dice Alfonso Bonacciuoli nella prima parte della Geografia di Strabone lib. 6 e tanto narra Ferdinando Ughelli nella sua eruditissima Italia Sacra; E che ciò sia probabile, si corrobora anco da questo, che il porto di Sapri sia vicino Policastro, e questo possi essere quello di Velia, secondo Virgilio, ‘Portusque require Velinos’. Ecc…”. Dunque, Pietro Marcellino di Luccia scriveva che Leandro Alberti (…..), nella sua “Descrittione di tutta l’Italia & Isole pertinenti ad essa”, del 1577, parlando di Policastro scriveva che vuole, che Policastro fose stata edificata per le ruine della suddetta Velia”e che scriveva anche che: E’ Policastro Città della Lucania nobile Città, ornata della dignità Ducale, la quale passata vedesi il fiume Cocco, così dalli habitatori nominato, dalli Latini Talauus, ò Lauus Termine della Lucania”. Sempre su Policastro, il Di Luccia scrive che ne aveva parlato anche il Burdonio (….), il quale, nella sua “Italia” scriveva che Policastro essere vicino Palinuro”. Il Di Luccia, a p. 7 aggiunge pure che: E che ciò sia probabile, si corrobora anco da questo, che il porto di Sapri sia vicino Policastro, e questo possi essere quello di Velia, secondo Virgilio, ‘Portusque require Velinos’.”. Il Di Luccia citava pure il Burdonio (….). Questo autore non sono riuscito a capire chi fosse. E’ citato anche da Ottavio Beltrano (….), nella sua “Breve descrizione del Regno di Napoli”, a p. 251 dove parla di Policastro ed anche da altri autori. Il Di Luccia cita anche l’Abate Ferdinando Ughelli (….) e la sua “Italia Sacra”.

Il porto naturale di Sapri, secondo alcuni uno dei ‘porti Velini’ della confederazione Eleatica

Pietro Marcellino Di Luccia (….), nel suo “L’Abbadia di S. Giovanni a Piro unita alla sa. maestà ……Trattato historico-legale etc…”, nel 1700, a p. 7 parlando di Policastro, in proposito scriveva che: Policastro essere vicino Palinuro”. Il Di Luccia, a p. 7 aggiunge pure che: E che ciò sia probabile, si corrobora anco da questo, che il porto di Sapri sia vicino Policastro, e questo possi essere quello di Velia, secondo Virgilio, ‘Portusque require Velinos’.”. Il Di Luccia, cita pure Alfonso M. Bonacciuoli (….) e la sua “Prima parte della Geografia di Strabone di Greco tradotta in volgare italiano”, pubblicato in Vemezia nel 1562, in 4 volumi. Il Di Luccia scriveva che, essendo il porto di Sapri vicino Policastro, il porto di Sapri poteva essere un “porto Velino”, cioè un porto di Velia alleata della vicina Pyxous. Il Di Luccia (….), scrivendo delle origini di Policastro e del porto di Sapri, non molto distante citava una frase di Virgilio (….), tratta dalla sua “Eneide” dove egli parla dei “Porti Velini”. Virgiglio scriveva che: “Portusque require Velinos”. Sui porti Velini ha scritto Pietro Ebner (….) nel suo ‘Chiesa, baroni e popolo nel Cilento’, vol. II, a p. 269 parlando di Palinuro che nel VI Libro dell’Eneide racconta ad Enea nell’Antro della Sibilla Cumana ciò che era successo scriveva che: Invocava, perciò Enea a rintracciarne tra i porti di Velia (14) i miseri resti, a porli sotto un pugno di terra, a dargli alfine quiete in un sepolcro.”. Ebner a p. 269 nella sua nota (14) postillava che: “(14) Virgilio, cit., VI, 365 ‘portusque require velinos’. P. Mela, II, 4, 69 ‘Palinurum olim Phrygii gubernatoris nunc loci nomem’. Cfr. pure Lucano, ‘Phars., IX, 51; Lucilio, fr. 77 (Terzaghi), Strabone, VI, 252, Plinio, III, 378; Orazio, ‘Carm.’, III, 4.27. Il Nissen (II, p. 897) ritiene quella di Palinuro una sovrapposizione di culti. Dionigi cit., nel ricordare il piccolo porto, ora insabbiato, a nord del promontorio e perciò riparato dai venti di Mezzogiorno, dice che vi sbarcarono alcuni Troiani guidati da Eneadi (principi della stirpe).”. Domenico Romanelli (…), nel 1815, pubblicò la sua “Antica topografia istorica del Regno di Napoli”, dove nella Parte I, Sezione III, vol. I, a pp. 365 parla del promontorio Palinuro e del porto di Palinuro ed in proposito scrivea che: “Se crediamo alla storia favolosa narrataci da Virgilio (I),……..L’ombra di Palinuro comparendo ad Enea, (mentre guidato dalla Sibilla ricercava tutti i luoghi di Averno) dopo di aver narrato tutto il caso funesto a se avvenuto, altamente lo scongiura, che prendesse cura di ritrovar il suo corpo nè porti Velini, e di gettar sopra la terra: “…………aut tu mihi terram Injice, namque potes, portusque require Velinos”, ovvero che: “Oppure puoi gettarmi nella terra, perché puoi, e cercare i porti dei Velini”. Il  Romanelli, sulla scorta del raconto Virgiliano scriveva del racconto Virgiliano e dell’ombra di Palinuro che racconta ad Enea “che prendesse cura di ritrovar il suo corpo nè porti Velini“. Sempre il Romanelli, a p. 365, cap. 19, in proposito scriveva che: “In questo medesimo significato fu descritto questo promontorio da Mela (2).”. Romanelli, a p. 365, nella sua nota (2) postillava: “(2) Mela, lib. II de Italia”. Infatti, anche Pomponio Mela (….), ci parlerà del Promontorio di Palinuro e dei porti Velini. Ma cosa intendeva Virgilio nel suo racconto per porti Velini ?. Vi erano dei porti Velini ? Sicuramente all’epoca della venuta dei Focei a Velia, l’antica colonia di Elea, vi era il porto di Velia, ma vi erano anche altri porti oltre a Velia. Forse l’approdo di Palinuro era uno dei tanti porti della confederazione Eleatica ?. Domenico Romanelli (….), nel suo “Antica topografia istorica del Regno di Napoli”, dove a p. 361, parte I, cap. 16 ci parla dei “Portus velini”. Egli scriveva che: “Se sembra difficile di ritrovare questo sol porto, quanto più incontreremo dubbiezza nell’indagare i varj ‘Porti Velini’, di cui parlò Virgilio (2)………..Portusque require Velinos (a).”. Il Romanelli, a p. 361, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Virgil., lib. VI.; (a) Non pochi critici antichi, e moderni hanno censurato Virgilio, perchè dal morto Palinuro facesse nominare a Enea prima della fondazione di Velia i ‘porti Velini’, nè quali il suo cadavere correva in balia delle onde. Igino presso Aulo Gellio, lib. 10, cap. 16 fu uno di costoro, senza riflettere, che un poeta avea tutta la libertà di anticipare i nomi, e di fingerne altri “Quomodo aut Palinurus novisse, aut nominare potuit portus Velinos, cum Velia oppidum, a quo portum Velinum dixit, post annum amplius sexcentesimum, cum Aeneas in Italiam venit, conditum in agro Lucano, et eo nomine appellatum sit ?” Adriano Turnebo ‘Advers., lib. 12 cercò di scusare il poeta coll’etimologia di Velia, che indica ‘palustre’, quasichè non dè porti ‘Velini’ avesse egli parlato, ma dè porti ‘palustri’. L’interpretazione però è presa troppo alta, e lontana, cui Virgilio certamente non pensò giammai. Del resto non presentandosi al poeta altro termine come poter indicare questo porto, fu egli obbligato a servirsi di quello allora conosciuto, e se diceva ‘portus Oenotriae’, portus Tyrrhenus’, o altro simile, non avrebbe mai indicato questo porto.”. Dunque, il Romanelli riferisce di Virgilio postillando che: “(a) Non pochi critici antichi, e moderni hanno censurato Virgilio, perchè dal morto Palinuro facesse nominare a Enea prima della fondazione di Velia i ‘porti Velini’, nè quali il suo cadavere correva in balia delle onde.”. Dei porti Velini parlava Virgilio nel suo poema “Eneide”. Dunque, a me pare di capire che da una frase di Virgilio tratta dall’Eneide, dove Virgilio ci parla di Palinuro e dei “porti Velini” dove il nocchiero di Enea fu sbattuto dalle onde, Il Di Luccia credeva che uno di questi porti fosse quello di Sapri, a causa della vicinanza con l’antica colonia greca di Pyxous, oggi Policastro. Per i dubbi sulla frase di Virgilio, Romanelli scriveva che Igino, in Aulo Gellio, lib. 10, cap. 16 opinava che: “Come poteva conoscerlo o Palinuro, o nominare il porto Velini, quando il paese di Velia, da cui chiamò porto di Velinus, fu fondato nel territorio lucano più di seicento anni dopo Enea, quando venne in Italia, e fu chiamato con quel nome ?”, ovvero Igino si chiedeva come potesse essere accaduto che…………………Com’è nata la leggenda di Palinuro e cosa sono i porti velini ?. Virgilio, nell’Eneide, nel VI canto, 362 scriveva che: «Nunc me fluctus habet versantque in litore venti (Ora mi tengono le onde e i venti mi volgono alla costa)». Palinuro è un personaggio della mitologia romana, il mitico nocchiero di Enea, caduto in mare di notte, tradito dal dio Sonno, mentre conduceva la flotta verso l’Italia. L’episodio relativo a Palinuro viene descritto alla fine del Libro V dell’Eneide, nel quale Virgilio individua il punto preciso della vicenda: uno scoglio, riconducibile al tratto di costa campano del Mar Tirreno, dinanzi all’omonimo capo, tra il golfo di Policastro e l’insenatura di Pisciotta, nella subregione attualmente chiamata Cilento. Naufragò dopo aver invocato invano i propri compagni ed esser rimasto per tre giorni in balia del Noto fino all’approdo sulle spiagge d’Italia, dove trovò ad attenderlo non la salvezza ma una fine crudele: catturato dalla gente indigena, viene ucciso e il suo corpo abbandonato in mare perché scambiato per un mostro marino. Veniva così soddisfatta la richiesta di Nettuno, dio del mare, che nel momento stesso in cui accordava a Venere il proprio aiuto per condurre in salvo la flotta di Enea sulle coste campane, aveva preteso per sé in cambio una vittima. Virgilio, nell’Eneide, dà una sua interpretazione dei fatti narrando di Palinuro, timoniere di Enea, che cade in mare tradito dal sonno e, giunto a riva, viene assalito e ucciso dagli indigeni. Gli dei dell’oltretomba, offesi dall’episodio sacrilego, puniscono gli abitanti con una tremenda pestilenza.Sulla confederazione Eleatica e dei tanti piccoli porticcioli e approdi confederati con la colonia Focea di Elea, poi in epoca romana detta Velia, vi è da dire che secondo Erodoto i focei erano stati i primi, tra i Greci, a navigare su lunghe distanze, solcando i mari non con arrotondate imbarcazioni mercantili ma su navi a cinquanta remi (le pentecontere), esplorando per primi l’Adriatico, la Tirrenia e l’Iberia e spingendosi fino a Tartesso. Qui si stabilirono intrattenendo relazioni fraterne con il re locale Argantonio. Questi, di fronte alle pressioni di Arpago, tentò di convincerli ad abbandonare la Ionia e ad insediarsi nei paraggi, in qualunque luogo scegliessero, ma, vista l’inutilità dei suoi sforzi, li rifornì di abbondante denaro per rinforzare le mura di Focea e far fronte alle minacce dei Medi. Fu così che le mura di Focea, costituite di grossi blocchi ben connessi, si svilupparono su un perimetro di molti stadi. Nel viaggio verso le coste italiane  quelli che si erano rifugiati a Reggio risalirono la costa e raggiunsero, in terra Enotria, una città allora chiamata Hyele (Ὑέλη). Lì un posidionate rivelò ai focei come in passato avessero frainteso l’oracolo della Pizia: secondo il responso infatti, avrebbero dovuto attestare con santuari il culto dell’eroe Cirno, piuttosto che insediarsi essi stessi sull’isola di Cirno. Convinti del loro precedente errore dall’argomentazione del posidoniate, si risolsero a prendere possesso della città enotria.

SAPRI DALL’ANTICHITA’ FINO AL SECOLO XX

I diversi toponimi attribuiti a Sapri nei secoli: Scidro, Scidron, Città d’Avenia, Bibo ab Sicam, Ceserma, Vicum Saprinum (a. 72 d.C.), Scido (1079), Saprà, Safri, Saperi, Portu (a. 1079), Terram Saprorum, Portus Saprorum, Porto di Sapri, Sapri

Sapri

(Fig….) Cartolina di Sapri del 1943

Via S. Paolo sulle colline di Sapri

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(Fig…) l’antichissima via S. Paolo che dal territorio saprese nei pressi del locale “le Capannelle” e, della Madonna dei Cordici, corre sul crinale collinare e arriva oltre Vibonati

Mia zia, Maria Attanasio raccontava che sua nonna Teresa Eboli (la “vava”), gli diceva che andava con sua madre a pregare nella Cappella di Santa Maria di Porto Salvo, sita nelle contrade sopra le colline di Sapri, nei pressi della Madonna dei Cordici e poco dopo l’attuale locale chiamato “le Capannelle”. In quei luoghi, vi era anticamente una chiesetta intitolata a “Santa Maria di Porto Salvo”. Mia zia Maria, racconta che, molte famiglie Sapresi, si recavano a piedi, a far visita alla Madonna di Porto Salvo, una statuetta lignea di cui si sono perse le tracce, per farsi benedire. Oggi, di quella cappella si sono perse le tracce e sono rimati in piedi i suoi ruderi.  Proprio in quelle contrade, oltre ai ruderi della chiesetta di Santa Maria di Porto Salvo che vediamo illustrati nell’immagine, vi è anche una strada interpoderale e sterrata, sulle mappe chiamata “via San Paolo”. Questa contrada è stata sempre nel territorio della Baronia di Torraca, prima Universitas Aragonese e poi infine Comune, ma come si può ben vedere nell’immagine del satellite essa è posta non molto distante dalla costa di Sapri, con la sua ampia baia. Nei pressi di queste collinette vi è il Santuario dedicato a Santa Maria dei Cordici e il Seminario vescovile di ‘Pietradama’ che, Rocco Gaetani (…), nel suo ‘La fede degli avi nostri, o ricordi storici della Chiesa di Torraca’, nel 1906, scriveva a p. 248 (v. ristampa curata da Rossella Gaetani): “…guardando in alto, vedo il colossale e incompleto Seminario di Pietradama, che spaventò il dittatore d’Italia nelle acque di Sapri.”. Oggi, guardando le mappe, la località è chiamata “Torrette Tempe”. Vibonati, è stato da secoli collegato con il territorio Saprese, da una strada interpoderale, di campagna, che corre lungo la dorsale costiera, all’altezza del locale le ‘Capannelle’. Proprio l’attuale località denominata ‘le Capannelle’, molto vicina alla contrada dei ‘Cordici’ , è limitrofa ad un’altra località che un tempo doveva essere abitata e, nelle cui prossimità dovevano preesistere diverse necropoli. Proprio nei pressi, negli anni ’70, furono scoperti diversi sacelli, tanto da farci ipotizzare la preesistenza di città scomparse. Le località di ‘S. Martino’ e del ‘Fortino’, ecc.., poste sulle alture di Sapri, a metà strada con la vicina Torraca, la località dei ‘Cordici’, scende dal crinale ……….del versante saprese e in alto, verso le ‘Capannelle’, esiste una stradina, indicata sulle mappe come ‘via S. Paolo’, che corre lungo il crinale, oltrepassa l’attuale Cimitero di Sapri, arriva fino alle ‘Ginestre’ e si prolunga fino al cimitero di Vibonati. Doveva essere la strada che in origine collegava le campagne interne dei due centri. Dal punto di vista strettamente letterario, la prima citazione di Sapri è quella di Scipione Mazzella Napolitano (…), che nel suo “Descrizione del Regno di Napoli“, del 1568, nella  sua descrizione del ‘Principato Citra (o Citeriore), a pag. 79, scrive anche di Sapri: Appresso Policastro col suo golfo, che gli antichi chiamano ‘Seno Saprico’ dalla città di Sapri , oggi nominata Li Bonati…” (…). Scipione Mazzella Napolitano, forse sulla scorta di altri che lo precedettero, affermava che il luogo di Sapri nel 1568, fosse nominato ‘Li Bonati’. La carta d’epoca aragonese dell’immagine Fig. 1, riveste una particolare importanza ed interesse non solo perchè riporta nomi di luoghi, alcuni dei quali ancora oggi poco conosciuti, ma anche in quanto è forse l’unica testimonianza scritta del luogo citato ‘Bibo ad Siccam odie ruin.‘. Probabilmente i resti dell’antica città di cui parlava Cicerone nelle sue famose lettere allo amico Attico. Bibo ad Siccam odie ruin., cosa significa questo termine o toponimo citato nella carta?. E’ sicuramente un toponimo, ovvero un nome di un luogo. ‘Bibo’ stà per Vibo o Bibone o Vibone. ‘Ad Siccam odie ruin.‘, si riferisce ad un luogo ove si vedono delle rovine, odie ruinata, oggi rovinata, forse un’antica città in rovina ed abbandonata. Letteralmente la scritta in latino ‘Bibo ad Siccam odie ruin.‘ si traduce: ‘Bevo alla spada oggi rovinata’ (?). La carta in questione da noi pubblicata (Fig. 1), colloca il toponimo Bibo ad Siccam odie ruin. tra un Bibone novo, forse l’odierna cittadina di Vibonati, Torraca e Sapri. E’ forse da collegare a questa antica carta d’epoca aragonese la curiosa prima citazione di Sapri. La carta in questione colloca il toponimo tra le campagne delle odierne Vibonati, Sapri e Torraca. Sappiamo di resti antichi, forse di un’antica città, rinvenuti nelle campagne tra Sapri e Torraca, nell’area dell’antico ‘Seminario‘ vescovile ‘Fanuele’. Infatti nella carta in questione il luogo viene proprio posto nell’entroterra saprese, sulla dorsale che sale verso Torraca. Sappiamo anche di reperti archeologici rinvenuti nelle campagne che da Sapri vanno sulla dorsale verso Torraca ed in particolare in località Madonna dei Cordici. Sappiamo di inportanti rinvenimenti anche recenti rimasti occultati in località Seminario Arcivescovile (abbandonato dalla Curia da due secoli), oggi nella proprietà dei Borea che ivi hanno costruito e che si sono sapute voci di scorribande di tombaroli in quei luoghi. Questo territorio, presenta delle importanti fonti sorgive che alimentavano certamente in epoca romana, le ville romane e le strutture portuali a S. Croce in epoca romana, attraverso gli acquedotto che scendono al Porto di Sapri. Inoltre, dobbiamo segnalare che le fonti sorgive presenti nella località dove oggi è presente una chiesetta detta la Madonna dei Cordici, potrebbero avvalorare l’ipotesi del significato dell’etimo: ‘Bibo ad Siccam odie ruin.. Alla luce di queste considerazioni, andrebbe ulteriormente indagata e rivista tutta la politica archeologica delle autorità Sapresi e della Soprintendenza della Campania, al fine di mettere in luce e di meglio valorizzare tutta l’area archeologica compresa fra il Seminario ‘Fanuele’ e ‘Madonna dei Cordici’, e le colline che degradano fino ai versanti sapresi delle contrade di ‘Fortino’, di ‘S. Martino’ e forse ‘Fenosa’. L’attuale documentazione dei rinvenimenti in quell’area, attesta e conforta la tesi di una città sepolta e scomparsa tesi questa suffragata dagli innumerevoli ritrovamenti puntualmente occultati dalle stesse autorità che hanno permesso lo scempio edilizio di proprietari stupidi ed ignoranti. Non si capisce per quale motivo le residenze dei Carabinieri di Sapri, fossero state costruite in località S. Martino, in un area scarsamente urbanizzata e distante dal locale centro abitato. Le evidenze e le notizie delle non scarse testimonianze archeologiche in quell’area, fanno ritenere ad un piano criminoso tendente ad occultare invece che valorizzare.

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(Fig….) Rilievo plamimetrico delle opere d’epoca romana a S. Croce a Sapri effettuato subito dopo i lavori di sistemazione fatti eseguire da Werner Johannoswski – le Cammerelle e ambulacro con ambienti sottostanti oggi chiusi al pubblico (Prop. Attanasio)

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(Fig….) Busto marmoreo di Lucio Sempronio Pomponio Prisco in una casa a Sapri (Foto Vincenzo Mastrangelo)

La stele marmorea funeraria con epigrafe ed epitaffio dedicato al giovane defunto Lucio Sempronio Prisco in Piazza del Plebiscito a Sapri 

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(Fig….) Stele marmorea con epitaffio dedicato a Lucio Sempronio Pomponio Prisco – P.zza del Plebiscito a Sapri (foto Attanasio)

Nel 1995, in occasione della stesura del nuovo Piano Regolatore Generale del Territorio di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte, fui incaricato dal Comune di Sapri di redigere uno studio di Analisi e Storia, a mia firma la Relazione sull’“Analisi sull’Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a p. 9 parlando dell’area archeologica di S. Croce a Sapri in proposito scrivevo che: In piazza del Plebiscito a Sapri, si può ammirare, ove è collocato, il cippo funerario (fig.14) dedicato a L. Sempronio Prisco, che fu rinvenuto nell’area retrostante l’attuale Ospedale civico, e che fu erroneamente (52) attribuito dal De Ruggiero (53) alla colonia romana di Buxentum.”. Nella mia Relazione, nella nota (52) postillavo che: “(52) Fiammenghi C.A., Maffettone R., op. cit., p. 34”. Nella mia Relazione, nella nota (53) postillavo che: “(53) De Ruggiero, Dizionario epigrafico, s.v. Lucania, p. 1897”. L’opera citata è di Ettore De Ruggiero (….), Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, ed. Istituto Italiano per la Storia Antica, Roma, 1959. Quello che ci parla della Lucania. Infatti, la stessa notizia fu riferita dall’archeologa Giovanna Greco (….) che, in un suo saggio in ‘Dall’Alento al Mingardo, stà in “A Sud di Velia-I-ricognizioni e ricerche 1982- -1988′, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia,Taranto, 1990, p. 17, a p. 19, in proposito scriveva che: Al problema, al momento insolubile, della ubicazione a Sapri della statio Caesernia, lungo la via costiera che univa Capua a Reggio (30), si connette la complessità delle emergenze monumentali nonché la presenza di un cippo funerario, pubblicato dall’Antonini e dal Mommsen, che menziona un ‘duovir des’ (ignatus) che documenta una costituzione duovirale tipica di una colonia (31).” (….). L’archeologa Giovanna Greco, a p. 19, nella sua nota (30) postillava che: “(30) Nissen, Italische Landeskunde, vol. II, p. 899, n. 8; Karhsted, op. cit., p. 22.”. La Greco, a p. 19, nella sua nota (31) postillava che: “(31) CIL, X, 461; questo stesso cippo è dato come proveniente da Buxentum da A. Russi in Dizionario Epigrafico De Ruggiero, s.v. ‘Lucania, p. 1897.”. Dunque, l’archeologa Giovanna Greco, a p. 19 citava un saggio di A. Russi che dice che il cippo funerario esistente ancora oggi in Piazza del Plebiscito a Sapri e che nell’epigrafe ci parla della prematura morte del giovane Lucio Sempronio Pomponio Prisco (…), proveniva da Buzentum e non dalla villa romana di S. Croce. Il saggio di A. Russi (….), dal titolo “Lucania” lo ritroviamo a p. 1897, del vol. IV del “Dizionario Epigrafico di antichità romane” di Ettore De Ruggiero (…)(ristampa del 1959, vol. IV). In esso leggiamo che: “…………….”. Tuttavia, pur considerando per buona la citazione della Greco vorrei far notare che si tratta di un’ipotesi di A. Russi. Neanche il Mommsen (….), la collocava a Buxentum. Come ha scritto la Greco a p. 19, il Mommsen pubblicò l’epigrafe del cippo funerario di Piazza Plebiscito col n. 461 in C.I.L., vol. X. Infatti, sul cippo marmoreo in piazza del Plebiscito a Sapri, nello stesso testo citato in precedenza hanno scritto le due studiose Carla Antonella Fiammenghi e Rosanna Maffettone (…), che a p. 34 scrivono che: “45) Comune di Sapri. Loc. Ospedale. I.G.M. F° 210, mm. 285/150. In quest’area, ridossata al complesso di S. Croce, nei pressi del moderno Ospedale si rinvenne il cippo di L. Sempronio Prisco, erroneamente attribuito (così il De Ruggiero, ‘Diz. Epigr. s.v. Lucania, p. 1897) alla colonia romana di ‘Buxentum’ e attualmente collocato in Piazza Plebiscito di Sapri. In questa stessa area si conservano a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro due tratti di acquedotto romano (già peraltro segnalati dal Magaldi).”. Dunque, anche le due studiose citavano il Dizionario Epigrafico di Antichità Romane di Ettore De Ruggiero (…), il quale, nel cap. IV, alla voce ‘Lucania’ a p. 1897 contiene il saggio di A. Russo che attribuisce questo cippo funerario marmoreo come proveniente dalla colonia Romana di Buxentum.

Il mosaico d’epoca romana da me rinvenuto nel palazzo Peluso a Sapri

Purtroppo oggi di questo bellissimo esemplare di una porzione di pavimentazione d’epoca romana costituita da un mosaico e tessere musive non restano che le mie foto che scattai in occasione di una visita che feci, allora ancora studente, all’Avvocato Vincenzo Peluso, ultimo discendente dei Peluso di Vibonati e di Sapri.

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(Fig….) Porzione di mosaico e tessere musive d’epoca Romana, da me rinvenuto nel Palazzotto Peluso in c.so Garibaldi a Sapri – oggi Proprietà Rizieri – forse scomparso – foto Attanasio

Pare che questo mosaico fosse stato ancora visibile già 1828, allorquando il viaggiatore inglese Craunfurd Tait Ramage, lo vide e lo citò. Lo scrittore e viaggiatore inglese Craufurd Tait Ramage (24), letterato scozzese, precettore dei figli del Console Inglese presso la corte borbonica di Napoli che, nell’Aprile del 1828, intraprese un viaggio a piedi nel Regno delle due Sicilie, arrivando sino a Sapri ed oltre parte della Calabria. Ecco cosa scriveva in proposito al bel mosaico che abbiamo fotografato in casa Peluso: Sulle scale di una casa, che si trova a nord di una piccola insenatura, a circa un chilometro dal paese, in una località ora denominata Camerelle – luogo dove era fosse ubicata la città antica – trovai un esemplare di mosaico grossolano.”. Dunque, il Ramage (24), aveva visto il mosaico alle Camerelle, ovvero in S. Croce, ma siccome dice: “sulle scale di una casa”, noi crediamo che non si possa escludere che si possa trattare dello stesso mosaico da noi fotografato in un piccolo ambiente di casa Peluso. Forse in seguito, il bel mosaico – che il Ramage dice essere grossolano, fu fatto trafugare dal Capo Urbano Vincenzo Peluso, nell’altra casa dei suoi avi, fatta costruire proprio dal Prete Peluso e di cui ci parla sempre il Pesce (6): “Nell’ampia spiaggia di Sapri, occupata arbitrariamente, fece costruire una villa, chiusa da mura in un quadrato con quattro torri agli angoli e con una palazzina civettuola, dalle imposte a sesto acuto, e dai muri tappezzati all’interno ed all’esterno da figure oscene”, ovvero il Palazzo in C.so Garibaldi. Era in uso comune in tante famiglie gentilizie di Sapri conservare e fare bella mostra di reperti archelogici provenienti dai ruderi in località Santa Croce a Sapri dove ancora oggi, nonostante le sfortunate spoliazioni di antiquari napoletani del ‘700, possono ammirarsi resti ed avanzi di fabbriche. Sono moltissime le famiglie che ancora ospitano materiale proveniente dalle strutture d’epoca romana a Sapri, come la Famiglia Farano, i Gaetani, i Gallotti, i Branda, i Cesarino, hanno gelosamente conservato reperti ai più oggi sconosciuti. Cosa possiamo dire dei mosaici in questione illustrati in foto. Innanzitutto era composto da due pezzi di forma pressocchè rettangolare, ed a sua volta essi erano composti da più pezzi assemblati tra loro che coprivano la pavimentazione di uno stanzino di servizio alle cucine del Palazzo, quello che nella tradizione locale veniva detto “u gliar’, ovvero un piccolo e fresco deposito di derrate alimentari ma posto accanto al locale cucina. Dalle foto si vede che la superficie era stata interessata forse in passato da uno strato di calce forse per nasconderlo alla vista. I mosaici erano composti da piccolissime tessere musive in marmo policromo di colore nero e bianco che, formavano dei motivi geometrici tipici dell’epoca repubblicana. Come abbiamo già detto, i mosaici erano due distinti e simili tra loro, adagiati e disposti vicini tra loro in modo da costituire l’intero pavimento dello stanzino angusto. Come si può vedere in una delle due foto (Fig. 4), in alcuni pezzi o mattonelle spiccano i motivi della ‘svastica’ o croce uncinata. E’ singolare che questi mosaici fossero proprio nel Palazzotto dell’Avvocato Peluso che per decenni è stato un convinto fascista e Podestà. I due mosaici di casa Peluso, non sono molto dissimili da alcuni mosaici che ancora oggi si possono vedere nelle strutture d’epoca romana in località Santa Croce e a ridosso della S.S. 18 e rinvenuti in occasione degli ultimi scavi effettuati dalla Soprintendenza di Salerno, ma in essi non vi è traccia della croce uncinata. La croce uncinata era un motivo decorativo in uso all’epoca romana negli edifici pubblici, come le termae ecc.. Il disegno di una croce greca con i bracci piegati ad angoli retti (卐 o 卍), simbolo religioso e propizio per alcune culture religiose. All’epoca del giovane Avv. Vincenzo Peluso, la svastica era il simbolo del regime Nazista – alleato del regime Fascista di Mussolini, di cui l’Avvocato era membro essendo stato per diversi anni Podestà di Sapri. 

Nel I sec. a. C., i racconti dei viaggi di Cicerone, nelle sue lettere citate da Plutarco

Riguardo la citazione di Antonini (…), è interessante ciò che scrive Fernando La Greca (…) nel suo libro scritto insieme a Vladimiro Valerio (…), ‘Paesaggio antico e medievale nelle mappe aragonesi nelle carte di Giovanni Pontano – Le terre del Principato Citra’, che illustrava una delle carte scoperte da Ferdinando Galiani (…) a Parigi e conservate alla Biblioteqhe Nationale di Francia a Parigi. Si tratta della carta collocata “Cartes et Plans, GE AA 1305-6, part. e GE AA 1305-6, part.”. Il La Greca (…) a p. 44, in proposito scriveva che: “Fra i numerosi toponimi risalenti ad epoca romana, troviamo ‘Bibo ad Siccam odie ruin(ato) (41), l’antica Vibone lucana, posta anche dall’Antonini, unico fra gli eruditi (poi vedremo il perchè), presso il sito di Vibonati (con l’isoletta ‘La Sicca’ davanti alla costa); ‘Cosuento ruin(ato)(42) presso Magliano ecc..”. Il La Greca (…), a p. 44, nella sua nota (41) postillava che: “(41) Liv., XXXV, 40, 5-6 (Vibonem’ colonia al confine con il Bruzio); Cicerone, Ad Att., III, 2; 3; 4; (‘in fundo Siccae; Vibonem; Sicca); Cic., Ad Att., XVI, 6, 1 (‘Vibonem ad Siccam’); Plut., Cic., 31; 32 (Ipponion è città della Lucania, dove si trova il podere di Vibio Sicca, amico di Cicerone); ‘Chronicorum Casinensium Epitome’, p. 353 (‘Vibonam’). Cfr. G. Antonini, ‘La Lucania….’, cit., vol. I, pp. 419-428”. Sempre il La Greca (…), a p. 44, nella sua nota (42) postillava che: “(42) Plin., ‘Natur. histor., III, 11, 97 (‘Casuentum’ fiume della Lucania).”. La citazione del La Greca (…), riguardo la citazione dell’Antonini (…) è interessantissima in quanto dice che “unico fra gli eruditi (poi vedremo il perchè)” che secondo lui menziona il toponimo “Vibo ad Sicam”, citato dallo stesso Livio, Cicerone e nel Chronicorum Casinensium Epitome, unico erudito che per la prima volta non solo la cita ma la pone a Vibonati. Ovviamente sul sito di Vibonati bisognerà fare delle ovvie precisazioni che farò. Dunque, il La Greca, scrive questo in quanto stà parlando della “Vibo ad Sicam” citata nella carta corografica conservata alla Biblioteca Nazionale di Parigi (la carta n. 6, da lui pubblicata nel suo testo insieme al Valerio che è collocata come “Partie du royaume de Naples, comprenant la Terre d’Otrante avec Brindisi, Bari, la Basilicate, la principauté citérieure avec Salerne, XVIIe s. ID/Cote: GE AA-1305 – feuille 6, conservata alla Biblioteca Nazionale di Francia, di cui egli dice essere uguale a quella da me scoperta all’ASN e a cui rimando per gli opportuni approfondimenti, nel mio saggio “Una carta corografica manoscritta e inedita, d’epoca Aragonese”, ivi pubblicata ed illustrata nell’immagine di Fig. 1, completamente diversa e più antica anche se simile.

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(Fig….) Carta conservata alla BNF – GE AA-1305 – feuille 6

Fernando La Greca (…), parlando sempre della sua carta Parigina e, parlando dei toponimi contenuti nella carta cita l’Antonini come si è visto e scrive che: “unico fra gli eruditi (poi vedremo il perchè)” che secondo lui menziona il toponimo “Vibo ad Sicam”. Infatti, il La Greca (…), a pp. 72-73 si fa particolarmente interessante quando egli ritiene l’Antonini uno sprovveduto che non conoscesse Livio, Cicerone ecc.. e, scrive che: “Ci sono fondati sospetti che Giuseppe Antonini, barone di S. Biase, ed autore dell’opera ‘La Lucania’, pubblicata in un volume nel 1745 e in due volumi nel 1795 (dagli eredi) (227), abbia avuto modo di vedere le mappe, o parte delle mappe, prima del Galiani, facendone largo uso nella sua opera, ma nascondendo tale fonte. Quasi costantemente, nella sua descrizione, sembra avere davanti agli occhi e seguire passo passo la nostra mappa, con i suoi nomi, i suoi fiumi, degli affluenti, dei monti, dei paesi, dei santuari, delle isole, e segnalando i ponti lungo le strade. Molte sue ipotesi sul sito di paesi antichi scomparsi trovano riscontro sulla mappa, come ad es. ‘Vibo ad Siccam’ presso Sapri, e ‘Petilia’ sul Monte della Stella (peraltro riportata nella mappa solo come ‘Mercato Petilia’). Inoltre, nella sua descrizione di Paestum ecc…” e, a p. 73 si chiede “Come potè l’Antonini entrare in possesso di tali mappe? Probabilmente grazie al fratello maggiore, Annibale Antonini, abate a Parigi, uomo di vasta cultura, erudito, ed autore di varie opere, fra le quali, significativamente, una guida di Parigi per i viaggiatori stranieri, giunta nel 1734 alla seconda edizione (229). L’opera descrive in gran parte musei, archivi, biblioteche, pinacoteche; l’abate Antonini se ne mostra esperto conoscitore, giungendo a indicare anche i nomi delle persone preposte ai vari uffici e alle quali rivolgersi per consultare volumi e documenti. Probabilmente l’abate si era imbattuto, durante le sue ricerche, nelle mappe aragonesi, e riconoscendo le località del Regno di Napoli, doveva essersi procurato facilmente qualche copia, poi inviata al fratello. Le mappe, fino al 1738, secondo il Galiani (230), erano state nell’Archivio della Corona di Parigi; ppoi, sfuggite ad un incendio, erano state portate a Versailles (Dépòt de la Marine). A questo punto, possiamo facilmente immaginare che la notizia dell’esistenza di tali carte a Parigi sia passata dai fratelli Annibale e Giuseppe Antonini ai fratelli Berardo e Ferdinando Galiani. Una sicura connessione ci è raccontata dal Winckelmann: questi, nella sua ‘Prefazione’ (1760) alle ‘Osservazioni sopra l’Architettura degli Antichi’, parlando del suo viaggio a Paestum, racconta che l’architetto Bernardo Galiani (poi traduttore dell’opera di Vitruvio) era intervenuto sul testo manoscritto del barone Antoni per correggerne gli errori più evidenti, riguardanti proprio la descrizione di Paestum; era stato lasciato tuttavia un grosso abbaglio, la definizione della cinta muraria come “quasi ovale”, che sorprende molto il Winckelmann (231). L’Antonini pubblica il suo lavoro nel 1745, e diventa presto noto a tutti i viaggiatori del ‘gran tour’; molte sue descrizioni però non reggono alla prova dei fatti, come quella della muraglia ovale. E’ probabile che, anziano e pressato dalle domande dell’amico Berardo, infine Giuseppe Antonini si sia deciso a rivelare l’esistenza delle carte parigine, notizie girate da Berardo al fratello Ferdinando, ambasciatore a Parigi, che, avendo in mente la realizzazione di una carta moderna del Regno, dovette mettersi subito alla ricerca delle antiche mappe. Siamo nel campo delle ipotesi, ma appare plausibile che sia andata così.”. L’ipotesi di Fernando La Greca è molto interessante e merita ulteriori approfondimenti. Ho voluto riproporre integralmente questo passo del La Greca (…) perchè, sebbene sia, come lui stesso sostiene, un’ipotesi, lo trovo una buona e corretta ipotesi di lavoro su cui svolgere i necessari approfondimenti. Il La Greca (…), a p…., nella sua nota (229) postillava che: “(229) A. Antonini, Memorial de Paris et de ses environs a l’usage des voyageurs, Nouvelle édition, Paris, 1734”. Il La Greca a p…., nella sua nota (230) postillava che: “(230) B. Tanucci, Lettere a Ferdinando Galiani, cit., pp. 231-232 (11 luglio 1768).”. Il La Greca a p…, nella sua nota (231) postillava che: “(231) J.J. Winckelmann, Osservazioni sopra l’Architettura degli Antichi, in Id., Opere, a cura di C. Fea, 1832, pp. 18-19; vd. J. Raspi Serra (a cura di), ‘Paestum idea e immagine. Antologia di testi critici e di immagini di Paestum (1750-1836), Panini, Modena, 1990, pp. 31-34.”. Leggiamo da Wikipedia che Marco Tullio Cicerone (in latino: Marcus Tullius Cicero, pronuncia ecclesiastica: /ˈmarkus ˈtulljus ˈʧiʧero/, pronuncia restituta o classica: /ˈmaːr.kʊs ˈtʊl.lɪ.ʊs ˈkɪ.kɛ.roː/; in greco antico: Κικέρων, Kikérōn; Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato un avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano. Esponente di un’agiata famiglia dell’ordine equestre, fu una delle figure più rilevanti di tutta l’antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica. Grande ammiratore della cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu, senza dubbio, la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano, invece, le Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all’amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell’aristocrazia romana. Le epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto che l’immagine che traspariva di Cicerone non era quella dello strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità. Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone, Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie:

  • Epistole agli amici (Epistulae ad familiares) (16 libri)
  • Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad Quintum fratrem) (3 libri)
  • Epistole a Marco Giunio Bruto (Epistulae ad M. Brutum) (2 libri)
  • Epistole ad Attico (Epistulae ad Atticum) (16 libri)

Per esempio Epistulae ad familiares (Lettere ai familiari o Lettere agli amici) sono la sezione dell’epistolario di Marco Tullio Cicerone contenente le lettere indirizzate dall’oratore arpinate a personaggi della vita pubblica, come Gneo Pompeo Magno, Gaio Giulio Cesare e Asinio Pollione, e privata, come la moglie Terenzia o il liberto Tirone. Redatte tra il 63 e il 43 a.C., le lettere non sono suddivise secondo un criterio cronologico, ma secondo il destinatario cui sono indirizzate. Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia. Riguardo queste lettere Pietro Ebner (….), nel suo “Chiesa baroni e popolo nel Cilento”, vol. II parlando di Velia, a p. 727, nella sua nota (40) postillava che: “(40) Cicerone, Ad Familiares, XVI, 7: in Verrem, III.”. Sempre Ebner a p. 740 parlando di Vibonati, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Cicerone, Ad Attico, XVI, 6, vedi F.A. Soria, Lettera intorno alle visite di alcuni autori, in “Giornale letterario di Napoli, vol. LXXV.”Cicerone per sfuggire ad una probabile vendetta di Silla, tra il 79 ed il 77 a.C. Cicerone si recò, accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall’amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia ed in Asia Minore. Particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene. Qui incontrò nuovamente l’amico Attico che, fuggito da un’Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia. Egli era poi diventato cittadino onorario di Atene e poté presentare a Cicerone alcune tra le più importanti personalità ateniesi del tempo. Ad Atene, inoltre, Cicerone visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare dall’Accademia di Platone, di cui era allora capo Antioco di Ascalona. Di quest’ultimo Cicerone ammirò la facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche, ben differenti da quelle di Filone, delle quali era convinto ammiratore. Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, Cicerone tornò in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto, e dove poté visitare l’Oracolo di Delfi. Qui domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto raggiungere la gloria, ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto, e non i suggerimenti che riceveva. Dopo il suo rifiuto a partecipare alla vita politica con la costituzione del  primo triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso, Marco Tullio Cicerone, si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares, nel 58 a.C. e dopo fu costretto all’esilio. Cicerone, non si diede pace, implorando le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno, ma alcune sue ville furono addirittura distrutte, come quella di Formia che spesso dovette abbandonare a causa delle sue repentine fughe. Verso la metà del I° secolo a.C., quando, dopo la congiura e l’uccisione di Giulio Cesare, il questore Romano Marco Tullio Cicerone, si diede alla fuga e, girovagando si recò via mare per le diverse ville sparse sulla costa tra la sua villa di Anzio fino ad arrivare a quelle del Golfo di Policastro. Dunque, come vedremo, è molto probabile che Cicerone, prima di essere ucciso dai sicari di Marcantonio che, lo credette uno dei congiurati trascorse gli ultimi giorni della sua vita proprio in una delle patrizie ville romane che allora vi erano nel Golfo di Policastro come quella che esisteva a Sapri in località S. Croce, l’unica di cui abbiamo la testimonianza essendo i suoi monumentali ruderi ancora esistenti. Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall’assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l’uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l’uomo che avrebbe ristabilito l’ordine nella repubblica. In seguito alla sua prescrizione decretata da Antonio, Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo, poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi dell’arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del triumvirato. Prima del suo assassinio, Cicerone, si spostava continuamente in viaggio dalla sua Villa di Formia e scriveva tanto ai suoi fedelissimi amici. Nei primi del ‘400, Francesco Petrarca, nel corso delle sue frequentazioni nei luoghi campani, rinvenne le lettere (Epistole) che il Questore romano Marco Tullio Cicerone scrisse ai suoi fedeli amici, tra cui, vi sono 396 epistole, scritte tra il 68 e il 44 a.C., indirizzate a Tito Pomponio Attico, uomo ricco, appartenente al rango equestre, dotato di grande cultura, seguace dell’Epicureismo e pertanto determinato a non prendere parte attiva alla vita politica. Le epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti. Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone, Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie. Alla prima delle 4 categorie appartengono quelle scritte da Cicerone al suo amico Attico. Epistole agli amici (Epistulae ad Familiares) (16 libri). Pare che le lettere scritte da Cicerone, quelle che a noi interessano siano due, ovvero Lettere ad Attico, scritte nel 44 d.C. (quindi proprio quando oramai era arrivata la sua fine) e, sono: epistola 6 del libro 16 e, l’epistola 19, del lib. 14 ad Attico. Subito dopo, il 7 dicembre del ’43 a.C., Cicerone sarà ucciso nella sua villa di Formia dai sicari di Antonio. Tito Pomponio Attico, era grande amico e vecchio compagno di Cicerone. Prese il cognonem di Attico, dopo una lunga permanenza ad Atene. In alcune lettere, Cicerone, cita il toponimo di “Vibonem ad Sicam”Forse proprio le rovine di un’antica città scomparsa di ‘Vibonem ad Sicam’, citata e conosciuta da Cicerone, nelle sue continue fughe. Forse a Sapri, vi era un suo carissimo e potentissimo amico che viveva nella sua villa patrizia, su cui Cicerone poteva fidare, fuggendo dalla sua villa di Formia a causa delle beghe e delle lotte politiche per l’uccisione di Giulio Cesare e la sua successione. La notizia andrebbe ulteriormente indagata. Dalla biografia che ne fa Plutarco (….), si evince che Cicerone, pur essendo molto amico di Bruto, e odiasse Giulio Cesare per le sue manie accentratrici, forse abbia avuto un ruolo, sia pur secondario nella tragica fine del dittatore e che a Sapri, Cicerone venisse ad incontrare un personaggio all’epoca molto influente. Attraverso l’epistolario scritto da Cicerone (….), le cui memorie furono poi in seguito riprese da Plutarco (….), veniamo a conoscenza di alcune interessanti notizie che riguardano i nostri luoghi.

La Villa marittima e monumentale con strutture portuali in località S. Croce a Sapri

Ferdinando La Greca (…), nel suo recente “Da Libio Severo ai Paleologo etc…”, nel 2017, a p. 35, in proposito scriveva che: “Lungo la costa sorgono anche importanti ville romane quali centri di produzione agricola, vere e proprie aziende che sfruttano il lavoro degli schiavi e si specializzano in pochi prodotti altamente redditizi per il mercato (olio, vino, grano, frutta, fiori, ortaggi): sono note le ville costiere di Tresino presso Agropoli (quella più antica, in quanto fortificata), di Licosa, di Sapri.”. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I, parte I, a p. 64, in proposito scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, e una iscrizione trovata ad Ostia (1), in cui è ricordato Q. Calpurnio Modesto che, fra le alte cariche, tenne quella di ‘procurator Lucaniae’. Si tratterebbe del ‘procurator Augusti’ per la Lucania, cioè dell’amministratore dei possedimenti imperiali sparsi per la Lucania (2).”. In questo ultimo passaggio, riguardo le ville Imperiali in Lucania, il Magaldi citava il Nissen (….). Il Magaldi scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, ecc…”. Dunque, il Magaldi scriveva che il Nissen, spiegava che il toponimo di “Caesariana”, spiegava e faceva pensare ad antichipossedimenti in Lucania. Il Magaldi, a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted U., Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p.22.”. Sempre il Magaldi a p. 282, in proposito alle ville scriveva che: “Dell’esistenza di possedimenti imperiali in Lucania qualche cosa si è detta (p. 64 e seg.), qualche altra cosa si dirà in seguito.”. Il Magaldi, a p. 64, riferendosi alla probabile villa Imperiale di Massimiano Erculio, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. Orosio, VII, 28, 5 riportato in seguito”. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I (parte I), a pp. 287-288-289-290, in proposito scriveva che: “Abbiamo già detto di Velia, per la sua mitezza del suo clima, e per le ville che allietavano il litorale, era un luogo ricercato di villeggiatura e di cura, e abbiamo ricordato, tra i suoi frequentatori illustri, il console Emilio Paolo, e anche Orazio ricordammo (p. 41). Qui aggiungiamo che Velia, col suo porto (p. 34), per essere uno scalo quasi obbligatorio di coloro che andavano in Sicilia, o ne tornavano per via di mare, costringeva i viaggiatori a fermarvisi (1). Cicerone, nella sua seconda ‘actio’ contro Verre, ricorda che, per trovarsi a Roma, come richiedeva la procedura, il giorno della trattazione della causa, dové esporsi ad un viaggio per mare pieno di pericoli, da Vibone a Velia (2). In un altro passo Cicerone afferma di aver visto con i suoi occhi, all’ancora del porto di Velia (p. 34), la splendida nave, su cui Verre si era imbarcato, non senza avervi prima caricato una parte, la più preziosa della refurtiva (3).”. Il Magaldi a p. 288, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Cfr. Cicerone, Ad fam., IX, 7, 2 (a. 46): “……………..”….(in questa lettera Cicerone riferisce le diverse voci che correvano sull’itinerario che avrebbe seguito Cesare ritornando dalla guerra d’Africa).”. Il Magaldi, a p. 288, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Cfr. Cicerone, Actio II in Verrem, II, 40, 99: “……………..”…Cfr. C.F. Crispo, I viaggi di M. Tullio Cicerone a Vibo, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, a. XI (1941), p. 18 seg.. Nel passo riferito di Cicerone vi era un allusione al ‘Thempsanum incommodum’, di cui si è fatto cenno (p. 188).”. Il Magaldi, a p. 288, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. Cicerone, Actio II in Verrem, V, 17, 44 etc..”. L’archeologa Giovanna Greco (….) che, in un suo saggio in ‘Dall’Alento al Mingardo, stà in “A Sud di Velia-I-ricognizioni e ricerche 1982- -1988′, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia,Taranto, 1990, p. 17, a p. 19, in proposito scriveva che: “L’alleanza che già agli inizi del III sec. Elea stringe con Roma segna la scomparsa dei centri fortificati dell’interno, lo spopolamento delle campagne ed il sorgere di ‘ville’ lungo la costa (26). A sud di Capo Palinuro la deduzione della colonia di Buxentum nel 194 porta a forme di occupazione del territorio già analizzate dal Karhstedt (27) e, in questa stessa sede, documentate ed evidenziate dalle ricerche di H. Fracchia e di M. Gualtieri. Velia è città fiorente in età romana ed il territorio alle sue spalle, ancora una volta forse per la sua morfologia tormentata e difficile, non mostra segni di grosse trasformazioni; è piuttosto sulla costa che si vanno infittendo le emergenze monumentali di ‘ville’ più o meno complesse: da quella di Punta Licosa a Nord di Velia a quella imponente e monumentale di Sapri a Sud. Le evidenze monumentali ed epigrafiche provenienti da Sapri, le ampie descrizioni degli studiosi ottocenteschi (28) testimoniano una situazione più complessa ed articolata che non quella di una semplice villa marittima per quanto monumentale essa sia (29). Al problema, al momento insolubile, della ubicazione a Sapri della statio Caesernia, lungo la via costiera che univa Capua a Reggio (30), si connette la complessità delle emergenze monumentali nonché la presenza di un cippo funerario, pubblicato dall’Antonini e dal Mommsen, che menziona un ‘duovir des’ (ignatus) che documenta una costituzione duovirale tipica di una colonia (31).” (….)(….). Si veda Giovanna Greco (….) ed il suo saggio, Dall’Alento al Mingardo, stà in “A Sud di Velia-I-ricognizioni e ricerche 1982- -1988“, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia,Taranto, 1990, p. 17; Si veda pure Greco G., 1990 b, p. 18; Fiammenghi-Maffettone 1990, p. 32. L’archeologa Giovanna Greco (…), nel suo saggio, a p. 19, nella sua nota (27) postillava che: “(27) U. Karhstedt, Die wirtschaftliche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p. 20 s.; A. Greco Pontrandolfo – E. Greco, L’agro picentino e la lucania occidentale, in Società romana e produzione schiavistica, vol. I, Bari, 1981, p. 138 ss.”. Riguardo la citazione della Greco dello studioso tedesco Ulrich Karhstedt (….), e il suo ‘Die wirtschaftliche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit’, pubblicato a Wiesbaden nel 1960. Riguardo le due citazioni della Greco di Fracchia si tratta di H. Fracchia – M. Gualtieri – F. Polignac (…) e del loro “Il territorio di Roccagloriosa in Lucania”, in MEFRA, 1983, I, p. 345 s.; mentre per la citazione di Gualtieri si tratta di M. Gualtieri (…), “Roccagloriosa, Relazione preliminare”, in NSc, 1979, p. 383 s. Per quanto mi riguarda vorrei citare su Roccagloriosa due testi di Maurizio Gualtieri ed Helena Fracchia (….), “Roccagloriosa II”, pubblicato per il Centre Jean Berard e l’altro meno recente “Roccagloriosa – Un’antico centro lucano sul golfo di Policastro”, ed. Ediprint, Siracusa, 1990.  Sempre la Greco, a p. 19, nella sua nota (28) postillava che: “(28) W. Johannowsky, Sapri, in Atti XXIII, CSMG, Taranto, 1983, p. 528.”. La Greco, a p. 19, nella sua nota (29) postillava che: “(29) G. Antonini, Lucania, Napoli, 1745, p. 429 e p. 431; relazione Magaldi alla Soprintendenza di Napoli del 1938: descrive minuziosamente un complesso sistema idrico ed ambienti mosaicati venuti alla luce durante la costruzione di alcune palazzine.”. La citazione della Greco sulla Relazione di Magaldi è riferita a Josè Magaldi (…) è errata. Se la Greco si riferiva alla Relazione di Josè Magaldi (…) dal titolo “Cenno storico archeologico della città di Sapri”,essa è del marzo 1928 non è del 1938, come scriveva Giovanna Greco. La relazione in parola è in mio possesso, e fui io a fornirne visione alla Sezione di Sapri G.A.S. Golfo di Policastro. La relazione, di cui ivi pubblico il frontespizio fu a me donata in copia dall’autore che viveva a Salerno. Josè Magaldi, nel 1928, presentò detta Relazione su incarico dell’allora  “Regia Soprintendenza alle Antichità e Scavi della Campania” (Archivio Attanasio) dove, nella sua ricostruzione storica ci parla degli scavi che furono fatti nella zona di S. Croce per portare a compimento la realizzazione della SS. 18 “Fu nel 1884 che fu fatta un pò di luce sulle rovine. In quell’anno portandosi a compimento il tronco di strada provinciale Sapri – Salerno e dovendo essa attraversare tutta quell’estensione di terreno offrì la fortunata occasione ecc…Così fu possibile scoprire nel sito dell’attuale Istituto S. Croce una grande agglomerazione di ruderi di fabbrica antica con numerosi mosaici di dimensioni considerevoli ecc..”. Il tecnico Josè Magaldi, inoltre si rifece al testo del dott. Nicola Gallotti (…), nel suo ‘Sapri nella storia e nella tradizione popolare – Brevi cenni del dott. Nicola Gallotti’, Napoli, Tipografia Giuseppe Golia, (Archivio Attanasio), pubblicato nel lontano 1899, ovvero dopo cinque anni dai lavori per la costruzione della SS. 18 e di cui posseggo una copia malandata. Nella relazione, inoltre, il Magaldi non parla affatto di “un complesso sistema idrico ed ambienti mosaicati venuti alla luce durante la costruzione di alcune palazzine”, non parla di rinvenimenti dovuti alla costruzione di alcune Palazzine. Il Magaldi descrive alcuni rinvenimenti ed evidenze archeologiche presenti su tutto il territorio saprese ma non parla di nessuna palazzina, se per questo si vuole far credere che l’area archeologica si potesse estendere alle palazzine dei via Camerelle. Invece il Magaldi descrive minuziosamente i rinvenimenti limitati all’area di S. Croce a Sapri. Infatti, nello stesso testo, Carla Antonella Fiammenghi e Rosanna Maffettone (…), a p. 33 scrivono che: “Tuttavia, fondamentale per lo studio del complesso di S. Croce è la testimonianza dell’Ing. G. Magaldi (anche loro commettono l’errore, infatti non si tratta dell’Ing. G. Magaldi ma di Josè Magaldi) che nel 1828, per incarico della Soprintendenza alle Antichità e Scavi della Campania, redasse un ‘Cenno storico ed archeologico della città di Sapri’. Il Magaldi ci restituisce un quadro minuzioso della situazione dell’epoca con due planimetrie particolareggiate del complesso di S. Croce, menzionando anche gli scavi e i ritrovamenti del 1884, in occasione dell’apertura della strada provinciale, e del 1906 quando fu costruito l’Istituto di S. Croce. A tutta questa evidenza non ha tuttavia mai fatto seguito uno scavo sistematico se si esclude un piccolo saggio di scavo da P.C. Sestieri nel 1948 nell’area di S. Croce rimasto inedito. Anche il recente intervento della Soprintendenza Archeologica di Salerno (cfr. W. Johannowsky, in ‘Atti XXIII CSMG’, Taranto 1983, P. 528) ha interessato il restauro (molto brutto dico io) delle volte delle strutture delle Cammerelle.”. Le due studiose, continuano il loro racconto sui rinvenimenti di Sapri. Interessante sarebbe il recupero della relazione inedita del saggio di Scavo che P.C. Sestieri effettuò a S. Croce nel lontano 1948. 

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(Fig….) Disegno da me eseguito e tratto dal testo di Josè Magaldi (…), op. cit., sugli scavi archeologici del 1928 condotti dalla Regia Soprintendenza alle Antichità della Campania – Salerno in occasione dei lavori condotti per la costruzione della strada Provinciale SS. 18 che collegava i paesi prossimi a Sapri.

Nel 75 a.C., il “vicus Saprinus” e il ‘Fudus Sicca’: “Parva gemma maris inferi” di Cicerone nelle sue lettere all’amico Caio Trebazio Testa di Velia

Negli scritti di alcuni storici locali ricorre spesso la notizia di una lettera di Cicerone che scrisse al suo amico Caio Testa Trebazio, di Velia appellando il ‘Vicus’ come “Parva gemma maris inferi”, la cui traduzione letterale è “piccola gemma dei mari del Sud”. In questi scritti, però non vengono mai riferiti i riferimenti bibliografici. Questa notizia non è stata mai sufficientemente indagata. In questo blog che curo da pochi anni stò cercando di approfondire ed ulteriormente indagare alcuni temi e notizie. Nel 1998, nella mia Relazione sull’ “Analisi sull’Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“ redatta su incarico del Comune di Sapri per la redazone del nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.), in proposito scrivevo che: “Sulla scorta dell’Antonini, la storiografia locale, credeva riferirsi a Sapri Marco Tullio Cicerone, quando come questore in viaggio per la Sicilia occidentale, scrivendo all’amico Caio Testa Trebazio di Velia, nel 75 a.C., diceva:  “Parva gemma maris inferi” (piccola gemma del mare del sud). Marco Tullio Cicerone, nel I° sec. navigò ripetute volte per le nostre coste; infatti nella lettera scritta nel 44 ad Attico (60) si legge: “perveni enim Vi bonem ad Siccam”.”. Nella mia nota (60) postillavo che: “(60) Cicerone M.T., Lettere ad Attico, libro 16, epistola 6.”, riferendomi all’altra notizia e lettere ad Attico. Ancor prima, nel 1987, pubblicavo un mio saggio “Sapri, incursioni nella notte dei tempi“, stà in ” I Corsivi”, 1987, Anno II, n. 12, pp. 9-10 che fu citato da Felice Cesarino (…), nel suo saggio, ‘La Lucania del Barone Antonini’, stà in ” I Corsivi”, n. 3, 1988. Nel 2014, lo studioso Antonio Scarfone (….), sulla scorta di alcuni scrittori locali, sul sito dell’ISPRA pubblicò il saggio dal titolo “Presenze geomitologiche nell’area costiera di Sapri”,  dove non troviamo nessun contributo o citazione a Cicerone, se non la frase: “Gli Autori del passato hanno avuto un forte interesse verso la storia di Sapri, definita da Cicerone come parva gemma maris inferi, ecc…, senza indicarne i riferimenti bibliografici. Il sacerdote Luigi Tancredi (….), sulla scorta dell’Antonini, così si esprimeva: “Nel 75 a.C. Marco Tullio Cicerone, noto oratore, filosofo romano, passando per le coste tirreniche, durante il viaggio di andata nella Sicilia Occidentale, per svolgere il suo compito di Questore, si fermò a ‘Saprinus’ e di quì scrisse al suo amico Caio Testa Trebazio, di Velia appellando il Vicus Parva gemma maris inferi, ‘Piccola gemma dei mari del sud’.“. Il Tancredi riferisce la notizia di una “parva gemma maris inferis” scritta da Cicerone riferendosi ad un “Saprinus” in una lettera scritta all’amico Caio Testa Trebazio ma il Tancredi non dice altro e non da alcun riferimento bibliografico di questa lettera. Come sappiamo le lettere scritte all’amico di Velia sono tante e non sono solo quelle scritte e contenute nell’epistolario “Lettere ad Attico”. E così negli anni, si è tramandata questa notizia di cui non si dice mai quale fosse la sua vera origine. Nell’Antonini (….) non si fa cenno della notizia. Nel 1997, Angelo Guzzo (….), nel suo “Il Golfo di Policastro – natura-mito-storia” a p. 175 parlando di Sapri in proposito scriveva che: “Altra testimonianza della notevole importanza raggiunta da Sapri ci viene fornita da Marco Tullio Cicerone, il quale, durante uno dei suoi numerosi viaggi per le nostre coste, nell’anno 75 a.C., diretto in Sicilia in qualità di questore, scrivendo all’amico Caio Testa Trebazio di Velia, gli parlò di Sapri, dove si era fermato, concentrandone in quattro parole tutta la bellezza: “Parva gemma maris inferi” (piccola gemma dei mari del Sud).”. Anche in questo caso il Guzzo non fornisce nessun riferimento bibliografico. Il Guzzo, a p. 175, dopo aver parlato della stele funeraria in piazza del Plebiscito nella sua nota (11) cita Werner Johannowsky, ‘Appunti sulla tipologia e lo sviluppo architettonico della “villa urbana” – in ‘Apollo’ (rivista), n. IX, 1933. Dunque, il Tancredi (….) prima ed il Guzzo (….) in seguito ci informano  di un’altra lettera scritta da Cicerone all’amico di Velia, Caio Trebazio Testa. Questa però è una lettera che Cicerone scrive nel 75 a.C., molti anni prima, quando cioè Cicerone, in qualità di Questore di Roma si recò in viaggio nella Sicilia Occidentale. Il Tancredi scrive che in occasione del viaggio di andata, Cicerone si fermò a “Saprinus” e da quì scrisse all’amico di Velia Caio Testa Trebazio “appellando il Vicus Parva gemma maris inferi, ‘Piccola gemma dei mari del sud’.“. Forse Cicerone si fermò nel vicus “Saprinus” presso la proprietà dell’amico Sica di cui parla in altre lettere ad Attico. Da “Saprinsus” Cicerone scrive all’amico Caio Trebazio di Velia. Gaio Trebazio Testa (in latino: Gaius Trebatius Testa; Elea, … – 4 d.C. circa) è stato un giurista e politico romano, la cui fioritura si colloca nel I secolo a.C.. La familiarità con Cicerone è testimoniata dall’intensa corrispondenza – diciassette lettere – nelle quali aleggia sempre un tono umoristico e confidenziale e da cui è possibile attingere molte delle notizie sulla sua vita. Ancora oggi non riesco a capire l’esatta provenienza della notizia ed ad individuare la lettera di Cicerone in cui egli, nel 75 a.C. scrive all’amico di Velia Caio Trebazio Testa. Tuttavia, rivedendo alcuni autori locali come ad esempio il sacerdote Luigi Tancredi (….) credo si tratti di Plutarco (…) che scrisse della vita di Cicerone. Infatti, Luigi Tancredi (….), nel 1978, nel suo “Le città sepolte del Golfo di Policastro” parlando dell’antica “Vibone Lucana”, che egli così chiama per distinguerla dalla Vibo Valenzia, a p. 66 in proposito scriveva che: “Nel tempo imperiale romano dev’esserci già una chiara distinzione, ma non sempre è mantenuta. Cicerone è una eccezione: egli si riferisce alla città lucana e, per evitare ogni malinteso, parla nelle sue Lettere ad Attico (20) di “Vibo ad Siccam”, mentre l’altra calabra, menzionata nelle Verrine, porta sempre il nome di “Valenzia”. Poi, proseguendo il suo racconto il Tancredi viene al passo che interessa e scrive che: “Sicca era un amico di Cicerone ed abitava a Vibone lucana; il viaggio fu compiuto nel 44 a.C. (21).”. Dunque, il Tancredi ci parla chiaramente di un podere e di un amico di Cicerone “Sicca” o “Sica” che viveva ed abitava a Vibona o “Vibo ad Siccam”. Dunque, secondo la notizia che citava il Tancredi vi era un luogo o vicus o piccola città chiamata Vibone abitata dall’amico di Cicerone “Sica” che aveva ivi una villa o un grande podere agricolo. Cicerone si era recato dall’amico Sica subito dopo aver fatto visita a Velia (Elea) all’amico Caio Trebazio Testa. Ma secondo la notizia del Tancredi che io credo provenga dalle “Vita di Cicerone” in Plutarco (…), Cicerone si era fermato nel podere a Vibone o “Bibone” o “Bibo” dove fu ospitato dall’amico Sica. A questo riguardo il Tancredi a p. 64 in proposito scriveva che: “Nel sec. XVII Vibona Lucana è già un ricordo lontano, citato come ‘Bibo’ (16) ed al suo posto si trova il villaggio, detto “Petrasia” (17), che poco dopo scompare e rinasce col nome di Villammare (Marina di Vibonati).”. Il Tancredi nella sua nota (16) postillava che: “(16) Cfr. nota n. 13. Ferraro Filippo (cit. da Troyli, Tomo I, Parte II, p. 178.”. Il Tancredi nella sua nota (17) postillava che: “(17) Cfr. nota n. 13”. Il Tancredi a p. 64 richiama più volte la sua nota (13) dove egli postillava che: “(13) Archivio di Stato, Napoli, Sez. Piante Topografiche, carta 32a, n. 2 (Bibo ad Siccam odie ruin), anno 1600.”. In sostanza il Tancredi, nella sua nota (13) postillava della carta d’epoca aragonese (e non come egli scrive del sec. XVI o 1600) che fui proprio io a scoprire all’Archivio di Stato e a mostrargli. Sulla carta in questione il La Greca ed il Vladimiro hanno pubblicato quelle Parigine. E qui, stranamente, il Tancredi invece di postillare della lettera ad Attico citata dall’Antonini (una delle quatto), nella sua nota (21) postillava che: “(21) Vita di Cicerone”, dove egli voleva riferirsi appunto alle “Vite” di Plutarco. Riguardo la citazione di Antonini (…), è interessante ciò che scrive Fernando La Greca (…) nel suo libro scritto insieme a Vladimiro Valerio (…), ‘Paesaggio antico e medievale nelle mappe aragonesi nelle carte di Giovanni Pontano – Le terre del Principato Citra’, che illustrava una delle carte scoperte da Ferdinando Galiani (…) a Parigi e conservate alla Biblioteqhe Nationale di Francia a Parigi. Si tratta della carta collocata “Cartes et Plans, GE AA 1305-6, part. e GE AA 1305-6, part.”. La carta citata dal La Greca non è la nostra, ma credo essa sia una copia di quelle originali trafugate dal Galiani. La carta citata dal La Greca si trova a Parigi. Parlando di queste carte Parigine (simili alla nostra di cui ho già parlato), il La Greca (….), a p. 44, in proposito scriveva che: “Fra i numerosi toponimi risalenti ad epoca romana, troviamo ‘Bibo ad Siccam odie ruin(ato) (41), l’antica Vibone lucana, posta anche dall’Antonini, unico fra gli eruditi (poi vedremo il perchè), presso il sito di Vibonati (con l’isoletta ‘La Sicca’ davanti alla costa); ‘Cosuento ruin(ato)(42) presso Magliano ecc..”. Il La Greca (…), a p. 44, nella sua nota (41) postillava che: “(41) Liv., XXXV, 40, 5-6 (Vibonem’ colonia al confine con il Bruzio); Cicerone, Ad Att., III, 2; 3; 4; (‘in fundo Siccae; Vibonem; Sicca); Cic., Ad Att., XVI, 6, 1 (‘Vibonem ad Siccam’); Plut., Cic., 31; 32 (Ipponion è città della Lucania, dove si trova il podere di Vibio Sicca, amico di Cicerone); ‘Chronicorum Casinensium Epitome’, p. 353 (‘Vibonam’). Cfr. G. Antonini, ‘La Lucania….’, cit., vol. I, pp. 419-428”. Sempre il La Greca (…), a p. 44, nella sua nota (42) postillava che: “(42) Plin., ‘Natur. histor., III, 11, 97 (‘Casuentum’ fiume della Lucania).”. Dunque, il La Greca (…), riguardo la carta Parigina ed il toponimo di “Bibo ad Siccam odie ruin (ato)”, contenuto in quella carta, in proposito postillava di Plutarco e nella sua nota (41) postillava che: Plut., Cic., 31; 32 (Ipponion è città della Lucania, dove si trova il podere di Vibio Sicca, amico di Cicerone); ecc…”. Dunque, il La Greca (….) cita Plutarco (….) e credo che si riferisca proprio alle sue “Vite”, ovvero la vita di Cicerone, ne parla a pp. 31, 32. Non sappiamo a quale edizione di Plutarco si riferisca nella sua postilla il La Greca. Dunque, la notizia potrebbe provenire anche da Plutarco (…) che parlò di Cicerone nella sua opera le Vite parallele (Βίοι Παράλληλοι) sono dedicate a Quinto Sosio Senecione, amico e confidente di Plutarco, al quale lo scrittore dedica anche altre opere e trattati. Costituite da 23 coppie (una è andata perduta), alla biografia di un personaggio greco viene accostata, generalmente, quella di un romano, ad esempio Alessandro Magno e Giulio Cesare. L’originalità plutarchea sta proprio in questo accostamento, che dimostra sia come l’Ellade avesse prodotto valenti uomini d’azione e sia come i Romani non fossero tutti barbari. Le sue biografie contengono un’infinità di informazioni utili alla ricerca storiografica. 

Nel ’58 a.C., Cicerone, il vicus “Saprinus” e la tenuta (proprietà fondiaria), il ‘Fundus Sicca’ dell’amico Sicca o Sica nei pressi di Vibone (Lucana)

Dopo il suo rifiuto a partecipare alla vita politica con la costituzione del  primo trimvirato di Cesare, Pompeo e Crasso, Marco Tullio Cicerone, si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares, nel 58 a.C. e dopo fu costretto all’esilio. Il sacerdote Luigi Tancredi (….), nel 1978, nel suo “Le città sepolte del Golfo di Policastro” parlando dell’antica “Vibone Lucana”, che egli così chiama per distinguerla dall’altra città calabra ‘Vibo Valenzia’, a p. 66 in proposito scriveva che: “Cicerone è un’eccezione: egli si riferisce alla città lucana e, per evitare ogni malinteso, parla nelle sue Lettere ad Attico (20) di “Vibo ad Siccam”, mentre l’altra ecc…”. Il Tancredi, a p. 66, nella sua nota (20) postillava che: “(20) Cicerone M.T., ‘Ad Atticum’, III, 3 “Sed te oro ut ad me Vibonem statim venias, quo multis de causis converti iter meum”; ecc…”. Il Tancredi postillava della lettera ad Attico nel Libro III, la n. 3. Infatti, la lettera in questione la ritroviamo in “Lettere ad Attico” che, ivi pubblico traendole dal testo “Epistole ad Attico_1” (vol. II) a cura di Carlo Di Spigno (….), pubblicato nel 1998 per l’edizione Utet. Si tratta dell’epistola n. 3 contenuta ne Libro III, la lettera che Marco Tullio Cicerone scrive ad Attico che il Di Spigno (….), nel suo vol. I, Libro III a p. 266 in proposito è ivi scritto: “47 (III, 3) Scritta in itinere c. IX Kal. Apr., ut. vid., an. 58.”: “Cicero ad Attico sal. Utinam illum diem videam cum tibi agam gratias quod me vivere coegisti! Adhuc quidem valde me paenitet. Sed te oro ut ad me Vibonem (1) statim venias, quo ego multis de causis (2) converti iter meum. Sed eo si veneris, de toto itinere ac fuga mea consilium capere potero. Si id non feceris, mirabor; sed confido te esse factorum.”, la cui traduzione del Di Spigno è: “Voglia il Cielo che io veda il giorno in cui potrò ringraziarti di avermi costretto a vivere! Finora solamente rammarico è quel che provo e anche profondo. Ma ti prego di venire immediatamente ad incontrarmi a Vibone (1), dove sono diretto, perchè ho deviato, per molte ragioni (2), dal cammino che mi ero prefisso. Ma, se tu verrai là, potrò prendere una decisione sull’itinerario completo che devo seguire nel mio esilio. Se non lo farai, me ne stupirò; comunque ho fiducia che tu lo farai.”. Il Di Spigno, a p. 266, nella sua nota (1) postillava che: “‘Vibo Valentia (‘Hipponium’), città dei ‘Brutii’ sul versante tirrrenico” e, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Cicerone progettava di cercare rifugio in Sicilia, oppure nell’isola di Malta; cfr. Cic., Planc., 95 e l’epist. 49 (III, 4).”. Ma pare che il questore Romano Marco Tullio Cicerone, riguardo la sua amicizia con Sicca ed il suo podere a Vibone (Lucana non Vibo Valenzia), ho trovato un’altra lettera che mi sembra molto eloquente a riguardo. Si tratta dell’epistola sempre contenuta nelle sue Lettere ad Attico, la n. 2 del Libro III. Il Di Spigno a p. 267, la riporta e scrive che: “48 (III, 2) Scritta a Nari di Lucania il 27 marzo del 58. Cicerone ad Attico. La ragione per cui ho scelto questo itinerario sta nel fatto che non ho altro luogo ove con pieno diritto possa soggiornare alquanto tempo, eccetto la tenuta fondiaria di Sicca, ecc…(1).”. Il Di Spigno a p. 267, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Ma Cicerone avrà un’amara sorpresa; cfr. 49 (III, 4)” e, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Cicerone temeva una vendetta da parte di Publio Autronio Peto, il console designato per il 65, implicato nella così detta prima congiura di Catilina e, in tono ridotto, nella violenta cospirazione del 63. Ecc..”. Dunque, il Di Spigno riguardo l’amara sorpresa che attendeva Cicerone cita l’epistola n. 49 (III, 4) che egli scrive a p. 268: “49 (III, 4) Scritta Vibone, ut vid., III, Non. Apr. an. 58. Cicerone ad Attico Sal. Miseriae nostrae ecc…Vorrei che tu attribuissi all’infelicità in cui mi dibatto, piuttosto che alla mia incoerenza, il fatto che all’improvviso sono partito dalle vicinanze di Vibone (1), dove ti sollecitavo a venire. Mi è stato appunto portato il testo della proposta di legge ecc…”. Il Di Spigno, a p. 268, nella sua nota (1) postillava che:  “(1) In quei paraggi si trovava la proprietà fondiaria di Sicca; cfr. 48 (III, 2).”. Dunque, come scrive Cicerone, egli sollecitava l’amico Attico a ragiungerlo nella “tenuta” dell’amico Sicca che, nella lettera n. 2 del Libro III scrive essere “vicina” a Vibone. Dunque potrebbe trattarsi della bella e grande villa romana di cui ancora oggi si possono ammirare le antiche vestigia in località S. Crce a Sapri. Il Di Spigno, a p. 268, nella sua nota (2), riferendosi alla lettera (49, III, 4) postillava che: “(2) La distanza era calcolata dalle coste d’Italia; cfr. 52 (III, 7), vol. I; Plut., Cic. 32. Mentre Cicerone parla di 400 miglia, in Plutarco e in Cassio Dione leggiamo 500; cfr. Plut., l.c.; Cass. Dio, XXXVIII, 17,7. La discrepanza dei dati è variamente spiegabile, ma il testo ciceroniano non va toccato.”. Dunque, al di là della dissertazione sulle distanze calcolate dai vari autori per stabilire i luogni citati nelle lettere Ciceroniane, il Di Spigno, pur credendo che si trattasse di una ‘Vibo Valenzia’ e non di una Vibone Lucana, come la chiama il Tancredi ed il Racioppi, in queste due epistole del ’58 abbiamo la citazione di una villa con annesso grande podere a Vibone dell’amico Sicca che ospitò Cicerone. Ora vediamo cosa voleva intendere il Di Spigno con la postilla di: “Plut., Cicer., 32.”. Voleva intendere il testo di Plutarco sulla vita di Cicerone contenuta nelle sue “Vite parallele”. A sostegno della sua tesi, l’Antonini (….), cita lo scrittore greco Plutarco (….), che visse sotto l’Impero romano e scrisse la biografia di diversi personaggi illustri, tra cui quella di Marco Tullio Cicerone. Antonini, dice che Plutarco, nella sua: “Vita di questo Oratore” (parlava della vita di Cicerone), scriveva che “per venire qui: Lucaniam pedestri itinire percurrit, e chiama Hipponem il nostro Vibone, dicendo, esser in Lucania: (riporta il passo scritto in greco da Plutarco), Hipponii vero (quod oppidum est Lucaniae, Vibonem dicunt nunc, il volete più chiaro?).. Dovrebbe trattarsi di un passo (il Di Spigno e il La Greca dicono essere a pp. 31-32) che io ho trovato nel testo di Plutarco (….), ‘Vite parallele’ pubblicato nel testo “Seconda parte delle vite di Plutarco Cheroneo etc…”, dove a p. 235 è scritto: “cinquecento miglia fuori d’Italia. Non vi fu quasi persona, che stimasse quello editto, perchè tutti riverivano Cicerone, & infinita umanità e cortesia gli usarono sempre. Tuttavia capitan lo egli in Hippone città della Lucania, la quale oggi si chiama Vibone, un certo Siciliano, che aveva nome Vibio, il quale in affarissime cose s’era servito dell’amicizia di Cicerone, & nel Consolato di lui era stato creato prefetto dè fabri; non lo volle alloggiare; anzi gli minacciò, che subito sarebbe ito ad accusarlo. Ecc…Navigando poi con buon vento a Durazzo ecc..”. Questo passaggio di Plutarco nella vita di Cicerone è interessante perchè anche lui ci parla di una Vibone. Il trascrittore dellopera di Plutarco prima la chiama ‘Hippone’ (Hipponion) e poi aggiunge “città della Lucania, la quale oggi si chiama Vibone”. Ovviamente, sebbene tantissimi autori locali tra cui l’Ebner (….) abbiano citato le lettere ad Attico di Cicerone, nessuno ha mai voluto indagare ed approfondire la questione della Vibo Lucana e del podere di Sicca che Cicerone cita più volte:

Petronio, p. 235

(Fig….) Plutarco, vita di Cicerone, in ‘Vite parallele’, p. 235

Ora, Plutarco parla di Vibio siciliano. Cicerone, nel passo della lettera, menziona invece Sicca . E’ possibile conciliare le due testimonianze? Si deve pensare ad una svista di Plutarco, che tramanderebbe un nome per un altro, oppure Sicca e Vibio siciliano sono effettivamente due persone distinte? Per spiegare questa confusione e per far concordare le due fonti sono state avanzate delle ipotesi. Premettiamo che presso taluni si nota una certa perplessità nel riconoscere in Vibio siciliano, che non volle accogliere Cicerone a Vibo bensì in un cwrìon ,  lo stesso personaggio ricordato da Cicerone e che accolse invece l’esule a Vibo. Questo dubbio è dello Smith, che si fa eco di vecchi commenti. Effettivamente a prima vista, Sicca e Vibio potrebbero sembrare due persone distinte. Infatti, come vedremo più avanti anche Fernando La Greca (…), a p. 44, nella sua nota (41) postillava che: “(41) Liv., XXXV, 40, 5-6 (Vibonem’ colonia al confine con il Bruzio); Cicerone, Ad Att., III, 2; 3; 4; (‘in fundo Siccae; Vibonem; Sicca); Cic., Ad Att., XVI, 6, 1 (‘Vibonem ad Siccam’); Plut., Cic., 31; 32 (Ipponion è città della Lucania, dove si trova il podere di Vibio Sicca, amico di Cicerone);”. Il La Greca (…), a p. 44, nella sua nota (41) cita alcune lettere di Cicerone inviate ad Attico, in particolare cita Cicerone, Ad Att., III, 2; 3; 4; (‘in fundo Siccae; Vibonem; Sicca);” e poi aggiunge: “Plut., Cic., 31; 32 (Ipponion è città della Lucania, dove si trova il podere di Vibio Sicca, amico di Cicerone);”. Dunque, il passaggio di Plutarco che abbiamo letto: “….Hippone città della Lucania, la quale oggi si chiama Vibone, un certo Siciliano, che aveva nome Vibio, ecc…” è per Ferdinando La Greca il Vibio Sicca, amico di Cicerone”. Dunque, l’amico di Cicerone che aveva una villa con podere o tenuta agricola in un luogo sul mare molto vicino alla Vibone Lucana si chiamava Vibio Sicca. A ‘Vibo’ Cicerone è ospitato presso il praefectus fabrum L. Vibio Sicca: Att. III, 2. 3. 4; Planc. 96; PLUT. Cic. 32, 1. Cf.  DG 5, 631; CRISPO 1941, 186; MOREAU 1987, 471; RUOPPOLO 1988, 194. Sulla rete, su questo personaggio trovo scritto: “L. VIBIUS SICCA; Cfr. Crispo, 1941; Ruoppolo (…), 1988; Amico di Cicerone. Ospita Cicerone a Vibo durante il viaggio in esilio (anno ’58 a.C.); Cicerone si reca da lui per non vedere Publilia nell’anno 45 a.C.; Ospita Cicerone a Vibo nell’anno 44 a.C.”. Dell’esatta ubicazione del Fundus Siccae si sono interessati l’Amatucci: “ Di un luogo dell’epistola IV lib. III di Cicerone ad Atticum e d’un Oppidulum dei Bruttii in rend. Della R. Acc. Di Arch. – lett. e belle arti 1898 pp. 131-137, ed il Crispo “ I viaggi di M. T. Cicerone a Vibo in Archivio storico per la Calabria e la Lucania,  1941 fasc. III p. 183 e seg. RUOPPOLO 1988 = M.G. RUOPPOLO, Un amico di Cicerone, L. (?) Vibius Sicca, «Athenaeum» LXVI, 1988, pp. 194-197. CRISPO 1941 = C.F. CRISPO, I viaggi di M. Tullio Cicerone a Vibo, «ASCL» XI, 1941, pp. 1-20; 183-199; 225-233: Si fermò Cicerone nella marina di Vibo la prima volta, nella primavera del 75 a.C. quando era in viaggio per raggiungere Lilybaeum sede della sua questura nella Sicilia Occidentale. Aveva 34 anni e cominciava allora la sua vita politica. Ecc..”.

Crispo, ASCL, XI, p. ...

(Fig….) C.F. Crispo (….), in ASCL, XI, 1941

Sebbene il Crispo (….) parlando del viaggio di Cicerone in Sicilia per raccogliere informazioni sul Propretore della Sicilia Caio Licinio Verre, si ostinava a credere che la Vibone (Lucana) fosse Vibo Valenzia, a p. 18, invece, il Crispo in proposito citava una lettera di Cicerone (….), contenuta nelle ‘Verrine’, in cui Cicerone parla di una città “Vibo di Velia”. Il Crispo a p. 18 in proposito scriveva che: “Cicerone (‘in Verrine’ (II), 1,9) accenna alle insidie tesegli da Verre in mare e in terra nel viaggio in Sicilia e scansate in parte per la propria vigilanza, in parte per lo zelo e le affettuose premure degli amici (2). In nessun luogo dà particolare informazione su questo punto, ma pare che fosse proprio nel ‘Sinus Vibonensis’, alla fine della sua missione, gli fosse stato preparato l’agguato per sopprimerlo o almeno per impedirgli di essere presente a Roma il giorno del processo – il 5 di agosto (nonae sextilis) ecc…”. Il Crispo a p. 18 nella sua nota (3) postillava che: “(3) ‘In Verrine’ (II), II, 40: non ego a Vibone Veliam parvulo navigo inter fugitivorum ac praedonum ac tua tela ecc..”. Dunque, dall’epistola contenuta nelle ‘Verrine’ Cicerone parla proprio di “Vibone Veliam”. Dunque, Cicerone fuggendo dalla Sicilia non si trovava per mari verso Vibo Valenzia ma si trovava vicino a una città chiamata “Vibone Velia”. Il Crispo a p. 18 nella sua nota (3) scriveva che: “Verre per essere assolto sperava nell’assenza di Cicerone ecc..”. Leggiamo da Wikipedia che Gaio Licinio Verra  dal 73 a.C. al 71 a.C. fu propretore della Sicilia, designato dal Senato, e quindi acquisisce potere di imperium: funzioni militari, amministrative, giurisdizionali. Il governo di una provincia aveva durata annuale, ma in particolari circostanze poteva essere esteso. Il suo successore per il 72 era Quinto Arrio, che però non poté raggiungere la Sicilia in quanto impegnato nella guerra contro Spartaco ( nella quale morì) e quindi Verre ottenne una proroga dell’incarico. Poiché inoltre a causa della guerra servile e delle insurrezioni nell’Italia meridionale la situazione militare era molto pericolosa, il Senato gli prorogò ancora l’incarico anche per il 71 a.C., allo scopo di affidargli la protezione dell’isola contro eventuali infiltrazioni di ribelli. Durante il suo governo si macchiò di innumerevoli ingiustizie, allo scopo di accrescere il suo potere e le sue ricchezze personali. Compì concussioni, saccheggi e ruberie, pratiche piuttosto comuni nel periodo, per le quali, denunciato dai siciliani, subì un celebre processo a Roma nel quale Cicerone pronunciò contro di lui le orazioni denominate Verrine.

Crispo, ASCL., p. 18

Sulla rete trovo un interessante saggio di Guido Carugno (….). Nel febbraio del 58 fu promulgata la lex Clodia de capite civis Romani    (che mandava Cicerone in esilio) . Cicerone, senza attenderne l’approvazione dei comizi tributi, nella notte del 20 marzo del ’58 a.C., lasciò Roma e si diresse verso la Campania. Voleva recarsi in Epiro (ad Att. III,1), ma poi cambiò idea e, lasciata la via Appia, si mise sulla via Popilia che conduceva a Reggio Calabria. Nei pressi di Nares Lucanee scrisse ad Attico (III,2) per informarlo del cambiato itinerario e gli dava appuntamento a Vibone (Lucana); in una successiva lettera (ad Att. III,3), spiegava all’amico che per motivi di sicurezza si era rifugiato a Vibo nella casa di Sicca. Qui Cicerone venne a conoscenza della correzione apportata da Clodio alla seconda legge che nel frattempo era stata promulgata. Partito da Vibo alla volta di Turi, per raggiungere Brindisi e quindi l’Oriente, durante il viaggio, verso il 13 di aprile, scrisse una lettera ad Attico (III,4) nella quale tra l’altro gli diceva: ‘allata est enim nobis rogatio de pernicie mea; in qua quod correctum esse audieramus erat eiusmodi ut mihi ultra quadringenta milia liceret esse, illoc pervenire non liceret. Statim iter Brundisium versus contuli ante diem rogationis, ne et Sicca apud quem eram periret et quod Melitae esse non licebat’. Cicerone, male informato. parla di 400 miglia. che per giunta calcola da Roma, ma in effetti egli era allontanato di 500 miglia dai confini d’Italia, come attesta Plutarco. Ora, mentre Cicerone era a Vibo nel fundus Siccae (….), dovette ricevere, quantunque non ne faccia menzione nelle lettere scritte ad Attico in questo periodo, una comunicazione: da Gaio Virgilio, pretore della Sicilia, il quale gli faceva sapere, come attesta Plutarco, di tenersi lontano dalla sua provincia. Cicerone dovette maturare l’idea di recarsi in Sicilia durante il viaggio verso il mezzogiorno della penisola, tant’è vero che, come abbiamo ricordato, ad un certo punto non bene identificabile, invece di recarsi direttamente a Brindisi per raggiungere l’Oriente, deviò verso il Bruzio ponendosi sulla via Popilia. L’esule dunque, agitato da vari pensieri, depose l’idea di andare in Oriente e decise di trovare ospitalità in Sicilia, dove era pretore un suo amico. Quantunque questa decisione non emerga dalle lettere inviate ad Attico, tuttavia non c’è dubbio che le cose si siano svolte così, come del resto rilevasi sia da quanto Cicerone stesso ricorda nell’orazione pro Plancio 95, 96, sia anche dalla testimonianza di Plutarco (1.c.), il quale attribuisce all’esule il proposito di raggiungere la  Sicilia appena uscito da Roma . Ora, riprendendo il nostro ragionamento, se, come abbiamo motivo di ritenere, Cicerone, prima di scrivere questa lettera ad Attico, aveva ricevuto anche la comunicazione da Gaio Virgilio, a maggior ragione, a parte il computo della distanza dall’Italia, egli dovette rinunziare al proposito di andare in Sicilia, nella quale gli era vietato di porre i piede. Veramente, nel passo della lettera che stiamo esaminando. Cicerone non fa altra questione se non quella della distanza, ma poichè lascia intendere di recarsi in oriente, dal momento che prende la via di Brindisi, è giusto pensare che il divieto di Gaio Virgilio era già a sua conoscenza. Suppongo che Cicerone tralasci di ricordare esplicitamente il divieto del pretore di Sicilia, perchè egli è tutto rivolto con la mente alla correzione della legge del tribuno. Quando Cicerone scrive ut… illoc pervenire non liceret vuole alludere alla Sicilia e non ad altro luogo; ed è anche evidente che, nelle righe seguenti della lettera, il pensiero dell’esule è rivolto ad altro e che la Sicilia, tra le considerazioni che seguono, non può essere più ricordata in quanto che l’argomento è stato già in precedenza esaurito, sia pure con la semplice valutazione della distanza. Nell’esame della lettera, non dobbiamo in questo momento perdere di vista la successione logica del pensiero di Cicerone, perchè ciò, come vedremo, ha una grande importanza ai fini della nostra dimostrazione. A questo punto, vien fatto di domandarsi: che c’entra, nel passo della lettera, il ricordo di Malta e quando mai Cicerone aveva manifestato il proposito di rifugiarsi in quest’isola? Se Melita fosse Malta, Cicerone avrebbe ricordato quest’isola, logicamente, accanto alla Sicilia e non dopo altre considerazioni statim iter Brundisium versus contuli… ne et Sicca apud quem eram, periet et  quod Melitae esse non licebat. Ma c’è da fare un’altra importante osservazione. Malta che, come si sa, è a sud di Pachino di circa 90 km., fu definitivamente strappata ai Cartaginesi nel 218 dal console Sempronio, il quale costrinse alla resa il presidio cartaginese agli ordini di Amilcare. Da allora, quel gruppo di isole fu annesso alla provincia di Sicilia ed il governo centrale, con sede nel municipio di Malta, era rappresentato da un procuratore alle dipendenze del pretore di Sicilia. In base a ciò. non può sfuggire l’impossibilità d’identificare Melita con Malta. Ai fini del divieto imposto a Cicerone dal pretore Gaio Virgilio, è evidente che dire Sicilia o Malta era perfettamente la stessa cosa, dato il rapporto di dipendenza giurisdizionale dell’isola dal pretore di Sicilia. Esclusa l’identificazione di Melita con Malta per gli argomenti su addotti, cerchiamo di identificare questo luogo. Suppongo che dovesse trovarsi in territorio metropolitano e lontano da Vibo, come sil rileva dal passo di    Cicerone, in cui il nome di Sicca, che era a Vibo, è posto accanto alla menzione di Melita (ne et Sicca, apud quem eram periret, et quod Melitae esse non licebat). Ora, nei pressi di Monteleone esiste un paese chiamato Mileto, sulle cui rovine Ruggiero il Normanno nel 1058 fece costruire una cittadina nella quale stabilì la sua corte (10). Questa località è vicina all’antico Hipponio, che sovrastava all’ Ippwniàthz  kòlpoz (Strabone 6, 266), detto dai Romani sinus Vibonensis (Plinio n. h. 10, 29). Quivi appunto nel 191 a. C. i Romani dedussero una colonia di plebei del Lazio. Concludendo, dunque, Cicerone ha voluto dire ad Attico: appena che sono venuto a conoscenza della correzione apportata da Clodio al bando per cui non potevo, per motivi di distanza, recarmi in Sicilia, ho preso immediatamente la via di Brindisi il giorno precedente alla votazione della legge, sia per non mettere nei guai Sicca, che mi ospitava a suo rischio, sia anche perchè a Mileto non potevo starmene nascosto in campagna. A bene osservare il testo di Cicerone, appare chiaro che l’esule, dopo aver liquidato con la valutazione della distanza di 400 miglia il suo progettato ritiro in Sicilia, nel successivo periodo,passa ad un’altra serie di considerazioni, in cui il fatto che egli non volesse generosamente mettere nei guai Sicca, dato il divieto di Clodio di accogliere l’esule, è intimamente legato alla sua permanenza a Mileto, cioè nel fundus Siccae, che corrisponde esattamente a (tò) cwrìon  ricordato da Plutarco. Dell’esatta ubicazione del ‘Fundus Siccae’ si sono interessati l’Amatucci: “ Di un luogo dell’epistola IV lib. III di Cicerone ad Atticum e d’un Oppidulum dei Bruttii in rend. Della R. Acc. Di Arch. – lett. e belle arti 1898 pp. 131-137, ed il Crispo “ I viaggi di M. T. Cicerone a Vibo in Archivio storico per la Calabria e la Lucania,  1941 fasc. III p. 183 e seg. L’Amatucci, nell’interessante nota già ricordata, ha avuto per primo il merito di identificare Melita con l’attuale Mileto. Il fundus Siccae, ricordato da Cicerone, è da identificare col cwrìon  menzionato da Plutarco. E questo fundus non era a Vibo, dove Sicca, come attesta Plutarco, non volle accogliere l’esule per ovvie ragioni di sicurezza, bensì in un oppidulum della valle del Mesima, denominato sin dal sec. XIV Mellite o Melita. La serrata dimostrazione dell’Amatucci, che identifica il luogo dell’Appennino calabrese ricordato da Cicerone nella lettera in questione. è basata su rilievi di carattere puramente topografici, che dimostrano un‘esatta conoscenza dei luoghi percorsi da Cicerone in questo doloroso momento della sua vita. Il Crispo non condivide il punto di vista dell’Amatucci e ritiene che Melita sia Malta, ma di questa sua asserzione non dà una dimostrazione convincente. Certo, è naturale che, leggendo Melita il pensiero corra a Malta, ma, in base a quanto abbiamo detto, discutendo dei luoghi di Cicerone e di Plutarco che ricordano lo stesso episodio, non credo che si possa agevolmente accogliere quest’identificazione che si tramanda, a parer mio, erroneamente di edizione in edizione. Io ho accolto la tesi dell’Amatucci e ad essa ho apportato nuovi elementi per sostenerla e – confermarla.

Nel ’44 a.C, la ‘Vibonem ad Sicam’ citata da Cicerone nelle sue lettere ad Attico

La testimonianza di un’antica città chiamata ‘Bibo ad Sicam‘ o ‘Siccam’ – nelle campagne di Sapri e che, probabilmente fosse stata già conosciuta dagli antichi e quindi anche dallo stesso Cicerone che la cita nelle sue lettere al suo amico di Velia. La raccolta di queste lettere sono dette “Epistole ad Attico”. In alcune di queste lettere scritte da Cicerone ai suoi amici che l’avevano ospitato o in cui egli si recò, egli citò diverse volte alcuni luoghi del Golfo di Policastro. Il barone di S. Biase Giuseppe Antonini (….), nella sua “La Lucania – Discorsi di Giuseppe Antonini”, a pp. 424-425 e ssg., nel suo “Capitolo XI – Di Vibonati, e Sapri”,  in proposito scriveva che: “Quando Cicerone dopo la morte di Cesare per le brighe fra Ottavio, ed Antonio fuggì di Roma, andossene alla sua villa a Pompei; di là postosi in barca, andò a Velia, donde ( dopo essere stato un giorno in casa di Talna (partì ed andò a Vibone (I). Ed acciò nulla ci si possa opporre sulle parole di Cicerone, le riporteremo belle, ed intiere ‘ad Attico lib. 16. epist. 6 Ego adhuc (perveni enim Vibonem ad Sicam) magis commode quam strenue navigavi; remis enim magnam partem; prodomi nulli: illud fatis opportune. Duo Sinus fuerunt, quos transmitti oportet, Paestanus, & Vibonensis. Utrumque pedibus (2) aequis transmisimus. Veni igitur ad Siccam octavo die a Pompeiano, cum uno die Veliae constitissem, ubi quidem fui fane libenter apud Talman nostrum, nec potui accipi, illo absente praesertim, liberalius, IX. Kal. igitur ad Sicam (3).”.

Ant.,p. 425

Nella trascrizione del testo dell’epistola 6, contenuta nel Libro 16 delle “Lettere ad Attico” riportata dall’Antonini a p. 425, si potrebbe tradurre in questo modo: “Io ancora (perché arrivai a Vibo a Sica) navigavo più comodamente che vigorosamente; per gran parte dei remi; era opportuno per il destino. C’erano due baie, che devono essere trasmesse, Paestus e Vibonae. Li abbiamo incrociati a piedi uguali. Venni dunque a Sicca l’ottavo giorno da Pompei, quando un giorno mi ero fermato a Velia, dove in verità mi trovavo volentieri nel nostro tempio di Talma; Kal. poi a Sicam”, ovvero che, Cicerone dice che, prima di portarsi e raggiungere via mare navigando a remi con la sua barchetta “Vibo a Sica”, incontra C’erano due baie, che devono essere trasmesse, Paestus e Vibonae.”. Riguardo la trascrizione dell’epistola ad Attico di Cicerone, l’Antonini i proposito nella sua nota (3) postillava che: “(3) Devesi avvertire, che nell’edizione dell”Epistole ad Attico’ fatta da Aldo Manunzio nel MDXIII. trovansi diversamente notate le date, i luoghi e ‘l numero dell”Epistole.”. Cicerone aggiunge che dopo aver navigato da Pompei l’ottavo giorno si era fermato a Velia dove si era fermato nella villa dell’amico “Talmam” (….) e, in seguito si recò nella villa di “Sica”. Subito dopo, il 7 dicembre del ’43 a.C., Cicerone sarà ucciso nella sua villa di Formia dai sicari di Antonio. L’Antonini, nella nota (I), dice di trarre la notizia dalla ‘Storia’ di Francesco Fabricio (….). L’Antonini (….), nel parlare del ‘Sinus Vibonensis’ si riferiva a Francesco Fabricio (….) ed al suo testo sulla vita o la storia di Cicerone ‘Ciceronis HIstoria’, del 1569. L’Antonini confuta ciò che aveva scritto Fabricio che credeva si trattasse di Vibo Valenzia e non della nostra Vibone. Come intuì l’Antonini (….), quando credeva riferirsi a Sapri,  il Questore romano, Marco Tullio Cicerone che, nel I° secolo, spesso era in viaggio navigando ripetute volte per le nostre coste, nella sue lettere scritte al suo amico Attico nel 44 d.C., scrivendo all’amico Caio Testa Trebazio di Velia, nel 44 a. C., diceva: Ego adhuc (perveni enim Vibonem ad Sicam) ecc…Veni igitur ad Siccam octavo die a Pompeiano, cum uno die Veliae constitissem, ubi quidem fui fane libenter apud Talnam nostrum, nec potus accipi, illo absente praefertim, liberalius, IX Kal. igitur ad Sicam” (…..). Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I (parte I), a pp. 287-288-289-290, in proposito scriveva che: Cicerone fu di nuovo a Velia, per un giorno, il 20 luglio 44, facendo il viaggio per mare da Pompei, dove aveva una villa, a Vibone (4). Trovandosi a Velia, egli volle andare a visitare gli amici Trebazio e Talna, ma trovò che erano assenti. Trebazio era il noto giureconsulto C. Trebazio Testa, a cui Orazio finge di rivolgersi, nella prima satira del secondo libro, per averne un parere circa il grado di pericolosità della sua satira (5). Trebazio possedeva a Velia estesi fondi rustici, ed una casa, dinanzi a cui cresceva un albero meraviglioso, che ne impediva la vista. Egli era molto benvenuto a Velia, e la notizia corsa, che volesse disfarsi delle sue possessioni, e abbandonare la città degli avi, per Roma, dove costruiva una casa, aveva messo di cattivo umore i Veliesi. Di questo loro sentimento si fa portavoce Cicerone, aggiungendovi una sua esortazione personale, nella lettera diretta all’amico da Velia, alla vigilia della partenza per Reggio (1). Durante questo viaggio per mare, che durò una settimana, Cicerone, per far piacere all’amico, voltò in latino, affidandosi alla sola memoria, senza il sussidio di libri, la materia dei “Topica” di Aristotele, e dedicò il lavoretto a Trebazio (2). Il 17 agosto del 44 avvenne a Velia l’incontro – e fu quello l’ultimo incontro – di Cicerone con bruto. Cicerone era sbarcato a Velia, respintovi dal vento contrario, che gli aveva impedito di proseguire l’intrapreso viaggio per la Grecia, dove egli doveva ritirarsi. Per consiglio di Bruto, egli non ripartirà più per la Grecia, ma farà ritorno a Roma, per riprendervi la lotta. Bruto veniva da Roma, ed era diretto in Grecia, dove si andava a stabilire dopo che il fallimento della congiura da lui ordita non gli consentiva di rimanere più nella Capitale. Costretto ad abbandonare l’Italia, aveva attraversato la Lucania e aveva raggiunto il mare a Velia, nel cui porto le sue navi lo aspettavano alla fonda (p. 34). L’incontro fra i due personaggi fu dei più trepidi ed affettuosi. Cicerone lo ricorda con commosse parole (3). Bruto era stato accompagnato, fino a Velia, dalla moglie Porzia, e là, i due si separarono, partendo l’uno per la Grecia, tornando l’altra a Roma (1). A questo punto della sua narrazione, Plutarco riferisce l’episodio di Porzia, che si commuove dinanzi alla scena, raffigurata in un quadro, dell’addio di Ettore ad Andromaca.”. Il Magaldi, a p. 288, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Cfr. Cicerone, Ad Attic., XVI, 6, 1: “Veni igitur ad Siccam octavo die e Pompeiano, cum unum diem Veliae constitissem. Ubi quidem fui sane libenter apud Talnam nostrum nec potui accipi, illo absente praesertim, liberalius (da Vibone, il 25 luglio 44). Cfr. Crispo, o. c., p. 230.”. Il Magaldi, a p. 288, nella sua nota (5) postillava che: “(5) Su Trebazio cfr. Perin, Onomasticon cit., s.v.”. Il Magaldi, a p. 289, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Cfr. Cicerone, Ad famil., VII, 20, 1 seg.: “……………” (da Velia, il 20 luglio 44) .La casa di Trebazio si chiamava Papiriana dalla gente Papiria, che anteriormente l’aveva posseduta ecc…”. Il Magaldi, a p. 289, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Cfr. Cicerone, Ad famil., VII, 19: “…………..” (da Regio, il 28 luglio 44). Cfr. Topica, I, 5: “………..” Cfr. Crispo, o. c., p. 232 seg.”. Il Magaldi, a p. 289, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. Plutarco, Brutus, XXIII, 1 (a. 44): “……………………”; Philipp., I, 4, 9: “Atque ego celeriter Veliam devectus, Brutum vidi, etc…” Cfr. Ad Brutum, I, 10, 4 (da Roma, nel giugno-luglio 43): “……..” etc…Cfr. G. Boissier, Cicéron et ses amis. – Etude sur la societé romaine du temps de César, Parigi, 1905, p. 368 segg.”.”. Il Magaldi, a p. 290, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Cfr. Plutarco, XXIII, 2 (a. 44) (trascrive il passo di Plutarco in greco) etc…”. Dunque, secondo Plutarco (….) citato pure dall’Antonini (….), il questore Marco Tullio Cicerone citava il toponimo di “Bibo ad Sicam” in due lettere che ritroviamo in “Lettere ad Attico” che, ivi pubblico traendole dal testo “Epistole ad Attico_2” (vol. II) a cura di Carlo Di Spigno (….), pubblicato nel 1998 per l’edizione Utet. Si tratta dell’epistola n. 6 contenuta ne Libro XVI e dell’epistola n. 19 contenuta nel Libro n. XIV. La prima epistola, la n. 6 del Libro XVI è la lettera che Marco Tullio Cicerone scrive ad Attico ‘Sal.’ da “Scrive da Vibone VIII Kal. Sext. an. 44 a.C.” (414 (Libro XVI, 6). Il Di Spigno (….) che ha curato l’edizione delle ‘Lettere ad Attico’ a p. 1461, nella sua traduzione scrive “Scritta a Vibo Valentia il 25 luglio del 44”. La lettera in questione viene  pubblicata a pp. 1460-1461 e sgg. Dunque la lettera in questione fu scritta da Cicerone ad Attico il 25 luglio del ’44 a.C.. Nella traduzione del testo dell’epistola in questione, a p. 1461, vol. II leggiamo dal Di Spigno (….), in proposito scriveva che Cicerone “scrive a Vibo Valentia il 25 luglio del ’44 a.C.” : “Fino ad ora (sono giunto a casa di Sicca a Vibo Valentia) ho compiuto il viaggio per mare più placidamente che rapidamente: in gran parte a remi; il soffio dei vènti di nord-nord-est non si è sentito affatto. E’ capitato ben a proposito perchè due erano i golfi che bisognava oltrepassare, quello di Pesto e l’altro di Vibo: Abbiamo attraversato ciascuno dei due a pié fermo. Dunque sono arrivato da Sicca sette giorni dopo che ero partito dalla mia villa di Pompei, però con un giorno di sosta a Velia, dove mi sono trattenuto proprio volentieri a casa del nostro amico Talna (1) e non avrei potuto essere accolto con maggiore generosità, tanto più che egli era assente. Quindi il 24 sono giunto da Sicca. Qui, naturalmente, mi trovo come se fossi a casa mia. Pertanto sto aggiungendo al mio soggiorno anche il giorno successivo. Ma penso che, una volta raggiunta Reggio, lì, “meditando sulla lunga navigazione” (2), dovremo riflettere se far rotta per Patrasso con una nave da carico, oppure puntare con delle barche, ecc…”. Il Di Spigno, a p. 1460, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Cfr. 299 (XIII, 28), 4, n. 5” e, a p. 1460, nella sua nota (2) postillava che: ((2) Cfr. Hom., ‘Od.’ III, 169, inserito con la tecnica ad intarsio”. Dunque, il Di Spigno crede trattarsi di Vibo Valenzia e non della nostra Vibone Lucana che alcuni dicono essere l’attuale Vibonati se non addirittura la baia ed il porto di Sapri. Ritornando alle parole di Cicerone ed alla traduzione del Di Spigno leggiamo che Cicerone dopo essersi fermato a Velia per trascorrervi un breve soggiorno alla villa o casa di “Talna” (di cui il Di Spigno postillava la nota (1): “(1) Cfr. 299 (XIII, 28), 4, n. 5”. Riguardo questo “Talna”, il Di Spigno forse si riferiva ad una delle tante lettere che Cicerone scrisse all’amico Caio Trebazio Testa che aveva una villa a Velia e che la cui moglie si chiamava “Telna” che l’accolse il settimo giorno di viaggio da Pompei. Gaio Trebazio Testa (in latino: Gaius Trebatius Testa; Elea, … – 4 d.C. circa) è stato un giurista e politico romano, la cui fioritura si colloca nel I secolo a.C.. La familiarità con Cicerone è testimoniata dall’intensa corrispondenza – diciassette lettere – nelle quali aleggia sempre un tono umoristico e confidenziale e da cui è possibile attingere molte delle notizie sulla sua vita. Ecco come Cicerone, probabilmente ospite di Trebazio (o forse dell’amico Thalna) ad Elea (Velia). L’Antonini (….), scriveva: ” Quando Cicerone, dopo la morte di Cesare per le bighe fra Ottavio, ed Antonio fuggì di Roma, andossene alla sua villa a Pompei, di la postosi in barca, andò a Velia, donde (dopo essere stato un giorno in casa di Talna, partì ed andò a Vibone (I)”. Cicerone scrive che: “Dunque sono arrivato da Sicca sette giorni dopo che ero partito dalla mia villa di Pompei,………….Quindi il 24 sono giunto da Sicca. Qui, naturalmente, mi trovo come se fossi a casa mia. Pertanto sto aggiungendo al mio soggiorno anche il giorno successivo.”. Questi i due passaggi in cui Cicerone parla dell’amico “Sicca” a Vibone. Cicerone scrive ad Attico ed in questa lettera egli cita il toponimo di “Vibonem ad Sicam”. Dunque, secondo la traduzione dell’Antonini, Cicerone aveva scritto“Ego adhuc (perveni enim Vibonem ad Sicam)”. Il fatto è che la traduzione del Di Spigno non coincide con quella che riporta l’Antonini (….). Il Di Spigno a p. 1460 scriveva: (I) Ego adhuc (perveni enim Vibonem ad Siccam) magis ecc…” e, a p. 1461 traduce dicendo “Fino ad ora (sono giunto a casa di Sicca a Vibo Valentia) ho compiuto il viaggio per mare ecc…”. Dunque è un “Vibo ad Sicam” come scrive l’Antonini o è un “Vibonem ad Siccam” come scrive il Di Spigno. La seconda lettera, Epistola n. 19 del Libro XIV, è la lettera che Marco Tullio Cicerone scrive ad Attico ‘Sal.’ da “Scr. in Pompeiano VIII Id. Mai. an. 44.” (anno ’44 a.C.) (372, Libro XIV, 19). Il Di Spigno (….) che ha curato l’edizione delle ‘Lettere ad Attico’ a p. 1333, nella sua traduzione scrive “Scritta nella villa di Pompei l’8 maggio del 44.”. A sostegno di questa tesi, l’Antonini (….), cita lo scrittore greco Plutarco (….), che visse sotto l’Impero romano e scrisse la biografia di diversi personaggi illustri. Antonini, dice che Plutarco (….), nella sua “Vita di questo Oratore”, scrive che “per venire qui: Lucaniam pedestri itinire percurrit, e chiama Hipponem il nostro Vibone, dicendo, esser in Lucania: (riporta il passo scritto in greco da Plutarco), Hipponii vero (quod oppidum est Lucaniae, Vibonem dicunt nunc, il volete più chiaro?).”. L’Antonini, a sostegno della sua tesi che Cicerone si riferisse al nostro Vibonati cita anche Plinio (…), dicendo che egli nel cap. 5 del lib. 3: “aveva incontro al nostro Vibone situato alcune isole col nome d’Ithacesiae: Et contra Vibonem parvae sunt Insulae, quae vocantur Ithacesiae, Ulyssis specula”, e sulla base di ciò detto l’Antonini affermava non essere il Vibo Valenzia ma un luogo a noi prossimo. Le isole ‘Ithacesiae’ di cui parla l’Antonini e Plinio, sono degli isolotti che ricorrono in tutte le carte d’Italia annesse alla ‘Geografia’ di Tolomeo, come possiamo vedere nel codice greco più antico conosciuto, il Codice Vaticano Urbinate Greco 82, di cui l’immagine di Fig….., ne illustra un particolare della carta dell’Italia. Ma come abbiamo cercato di dire e dimostrare alcuni autori come Plutarco (….) dicono non si tratti di Vibo Valenzia in Calabria anche perchè questa cittadina aveva un porto molto distante dalle ville della costa Velina. E’ molto probabile che si tratti della baia e del porto di Sapri. L’Antonini (….), nella sua ‘Lucania’, alla pagine 424-425, disserta sul toponimo di  ‘Vibone‘ e, citando “l’Abbate Aceti” scriveva che, il Questore romano, Marco Tullio Cicerone, nelle sue “Epistole ad Attico” (una raccolta di lettere che Cicerone scrisse a diversi suoi amici subito dopo la congiura che portò alla morte di Giulio Cesare), si riferiva all’antico toponimo (nome di luogo) riferito a Sapri o al porto naturale di Sapri. Infatti, il Questore romano Marco Tullio Cicerone, nelle sue “lettere ad Attico”, cita più volte il toponimo di ‘Vibonem ad Sicam‘. L’antica città romana o ‘Latina’ di cui parlava Cicerone nelle sue famose lettere allo amico Attico. Bibo ad Siccam odie ruin.. Dal punto di vista strettamente bibliografico e, storiografico, il primo a riferire del toponimo “Bibo ad Sicam”, è stato il Barone di S. Biase (natio di Cuccaro Vetere), Giuseppe Antonini, nella sua ‘Lucania’ (…). Nel 1745 e in seguito, nel 1795, il nipote Matteo Egizio, pubblicò la “Lucania – I Discorsi”, del barone di S. Biase Giuseppe Antonini (….) che, ci parla per la prima volta di un Bibo ad Sicam o ‘Siccam’ (…), citata da Cicerone (…). L’Antonini (….), è il primo a riferire del toponimo (nome di luogo), attribuendolo e credendo si riferisca a Sapri,  il Questore romano, Marco Tullio Cicerone che, nel I° secolo, che era spesso in viaggio navigando ripetute volte per le nostre coste. Giuseppe Antonini (…), nella sua ‘Lucania’, parlando di Vibonati, scriveva che: “Chiama il volgo questo paese ‘Libonati’, mutando la lettera V in L, ciò che per latro non di rado nella lingua Italiana accade. Fu dà Latini detto ‘Vibo ad Sicam’, e ‘Siccam’ da una Isoletta, che gli sta all’incontro, poche miglia all’oriente di Maratea, anche oggi chiamata ‘Sicca’ a differenza del ‘Vibo Valentia’, ch’è Monteleone, detto già ‘Ipponium, & Hipponium. Ecc…”. Riguardo questo passaggio dell’Antonini (….), Pietro Ebner (….), nel suo “Chiesa baroni e popolo nel Cilento”, vol. II, a p. 740 parlando di Vibonati in proposito scriveva che: “Naturalmente è da escludere l’ipotesi dell’Antonini (3) che vuole Vibonati denominato da un’isoletta che le sarebbe quasi di fronte “Vibo ad Sicam, e Siccam” e che ubica ivi la Vibone di Cicerone (4). Già il Troyli (5) aveva fatto giustizia di questa ipotesi quando scriveva “lasciando da parte l’opinione di qualche altro Autore, che per amore della sua Lucania la vorrebbe ne’ Bonati; da Vibone diducendolo Vibonati, con una etimologia molto nuova”. Dello stesso parere il Soria (6), più incisivo il Magnoni (7).”. Ebner a p. 740 nella sua nota (5) postillava che: “(5) Troyli, cit., I, p. 419, p. 178.”. Dunque Pietro Ebner (….) dando torto all’Antonini citava l’opera dell’abbate Troyli (….) riferendosi al tomo I, p. 419 e p. 178 del suo ‘Istoria generale del Reame di Napoli etc…’ dove a p. 176 del tomo I parlando di Vibo Valenzia in proposito scriveva che:

Troyli, tomo I, p. 178

L’Antonini continua il suo discorso argomentando su ciò che aveva scritto Gabriele Barrio (….), di cui parlerò in seguito che voleva che il ‘Vibone’ citato da Cicerone fosse l’attuale Vibo Valenzia in Calabria. Figuriamoci se Cicerone nel fuggire dopo l’uccisione di Giulio Cesare si fosse recato a Vibo Valenzia e non come voleva giustamente l’Antonini nel golfo di Policastro che gli antichi chiamarono “Seno Vibonense” e, che altri in seguito, come vedremo chiamarono “Seno Saprico”. L’Antonini (…), a p. 428, iniziando a parlare di Sapri e del suo porto, scriveva che: “Verisimilmente il porto dei Vibonesi dovea esser quello di ‘Sapri’, lontano dalla terra circa un miglio, e mezzo, ed i grandi antichissimi avanzi di fabbriche, che in esso sono, mostrano, che non potevano essere per gente di poco conto, siccome diremo.”. Infatti, l’Antonini aggiungeva che: “Gabriel Barrio nella, per altro, eruditissima opera ‘de situ Calabrie’, al lib. 2, per tirar tutto a quella regione, non solo volle darci a credere, che questo ‘Vibo ad Sicam’ fosse lo stesso, che ‘Vibo Valentia’, cioè l’Hipponium, ma nel principio dello stesso libro con franchezza indicibile dice, che ‘Plutarco’ siasi altamente ingannato col porlo in Lucania: ‘Ut Plutarchus’, qui Vibonem in Lucania esse scribit; ed a sede di lui standone l”Abbate Aceti’ nelle note ultimamente fatte allo stesso Barrio, ha purtroppo malmenato il medesimo Plutarco, perchè aveva posto Vibone in Lucania; tutto perchè non han saputo, o non han voluto sapere, che c’era un altro ‘Vibone’, chiamato ‘ad Siccam’, per distinguerlo dal ‘Vibo Valentia: Nec solus Strabo, ecc..”. Certo è che le ‘Cammerelle’, come si mostravano prima degli anni ’80, somigliano ai ‘criptoportici’ (così detti da Schmiedt) di alcune ville patrizie romane a Formia, dove vi era anche la villa di Cicerone. Questo studio, riapre nuovi scenari circa il pasaggio e la conoscenza che il grande oratore Cicerone, avesse dei nostri luoghi. L’Antonini (….), è il primo a riferire del toponimo (nome di luogo), attribuendolo e credendo si riferisca a Sapri,  il Questore romano, Marco Tullio Cicerone che, nel I° secolo, che era spesso in viaggio navigando ripetute volte per le nostre coste. Giuseppe Antonini (…), nella sua ‘Lucania’, parlando di Vibonati, scriveva che: “Chiama il volgo questo paese ‘Libonati’, mutando la lettera V in L, ciò che per latro non di rado nella lingua Italiana accade. Fu dà Latini detto ‘Vibo ad Sicam’, e ‘Siccam’ da una Isoletta, che gli sta all’incontro, poche miglia all’oriente di Maratea, anche oggi chiamata ‘Sicca’ a differenza del ‘Vibo Valentia’, ch’è Monteleone, detto già ‘Ipponium, & Hipponium. Gabriel Barrio nella, per altro, eruditissima opera ‘de situ Calabrie’, al lib. 2, per tirar tutto a quella regione, non solo volle darci a credere, che questo ‘Vibo ad Sicam’ fosse lo stesso, che ‘Vibo Valentia’, cioè l’Hipponium, ma nel principio dello stesso libro con franchezza indicibile dice, che ‘Plutarco’ siasi altamente ingannato col porlo in Lucania: ‘Ut Plutarchus’, qui Vibonem in Lucania esse scribit; ed a sede di lui standone l”Abbate Aceti’ nelle note ultimamente fatte allo stesso Barrio, ha purtroppo malmenato il medesimo Plutarco, perchè aveva posto Vibone in Lucania; tutto perchè non han saputo, o non han voluto sapere, che c’era un altro ‘Vibone’, chiamato ‘ad Siccam’, per distinguerlo dal ‘Vibo Valentia: Nec solus Strabo, ecc..”. Infatti, il Questore romano Marco Tullio Cicerone, nelle sue “lettere ad Attico”, cita più volte il toponimo di ‘Vibonem ad Sicam‘. L’Antonini, nella nota (I), dice di trarre la notizia dalla ‘Storia’ di Francesco Fabricio (….). L’Antonini continua il suo discorso argomentando su ciò che aveva scritto Gabriele Barrio (….), di cui parlerò in seguito che voleva che il ‘Vibone’ citato da Cicerone fosse l’attuale Vibo Valenzia in Calabria. Figuriamoci se Cicerone nel fuggire dopo l’uccisione di Giulio Cesare si recò a Vibo Valenzia e non come voleva giustamente l’Antonini nel golfo di Policastro che gli antichi chiamarono “Seno Vibonense” e, che altri in seguito, come vedremo chiamarono “Seno Saprico”. L’Antonini (…), a p. 428, iniziando a parlare di Sapri e del suo porto, scriveva che: “Verisimilmente il porto dei Vibonesi dovea esser quello di ‘Sapri’, lontano dalla terra circa un miglio, e mezzo, ed i grandi antichissimi avanzi di fabbriche, che in esso sono, mostrano, che non potevano essere per gente di poco conto, siccome diremo.”. Infatti, l’Antonini aggiungeva che: “Gabriel Barrio nella, per altro, eruditissima opera ‘de situ Calabrie’, al lib. 2, per tirar tutto a quella regione, non solo volle darci a credere, che questo ‘Vibo ad Sicam’ fosse lo stesso, che ‘Vibo Valentia’, cioè l’Hipponium, ma nel principio dello stesso libro con franchezza indicibile dice, che ‘Plutarco’ siasi altamente ingannato col porlo in Lucania: ‘Ut Plutarchus’, qui Vibonem in Lucania esse scribit; ed a sede di lui standone l”Abbate Aceti’ nelle note ultimamente fatte allo stesso Barrio, ha purtroppo malmenato il medesimo Plutarco, perchè aveva posto Vibone in Lucania; tutto perchè non han saputo, o non han voluto sapere, che c’era un altro ‘Vibone’, chiamato ‘ad Siccam’, per distinguerlo dal ‘Vibo Valentia: Nec solus Strabo, ecc..”. Nel 1975, lo studioso  Giulio Schmiedt (…), pubblicò un’interessantissimo studio per i tipi dell’Istituto Geografico Militare di Firenze. Nel suo studio, sugli ‘Antichi porti d’Italia’ (…) riferiva che: “Dopo il porto di Policastro il Portolano del Mediterraneo (172), elenca nel Sinus Laus gli scali di Marina di Vibonati, di Sapri e di Maratea, ma non si hanno elementi che documentino se in epoca greca fossero frequentati. Per quanto riguarda il primo (Vibonati) si può solo dire che fu probabilmente uno scalo lucano chiamato ‘Vibo ad Sicam’ che il secondo (Sapri) fu sicuramente uno scalo romano, di cui rimarrebbero semisommerse alcune strutture sulla costa immediatamente a nord di Punta del Fortino”. Sulla questione ancora oggi dibattuta dagli storici, ovvero se si trattasse di Vibo Valenzia o piuttoto di una Vibone Lucana, l’Antonini (….), nella sua ‘Lucania’, alla pagina 424, disserta sul toponimo di  ‘Vibone‘, credendo che si riferiva a Sapri, il Questore romano Marco Tullio Cicerone, quando scriveva e citava nelle sue Epistole il toponimo di ‘Vibonem ad Sicam‘ e, dedica molte pagine a Vibonati, dissertando sull’origine del toponimo ‘Vibone’, spiegando e sostenendo e confutando le tesi del Barrio (…) che, nel suo ‘De antiquitate et Situ Calabriae’ (…), sosteneva essere la Vibo Valenzia in Calabria e, confutava quanto aveva sostenuto Plutarco (…), il quale, al contrario parlava di una Vibonem in Lucania’ . Il Barrio (…), bistrattava Plutarco e, scriveva: “Nec solus Strabo Calabriam cum Lucania confuntit, Plutarchus, ut infra vedebimus, Vibonem in Lucania esse dicit.”. Antonini, parlando di ‘Vibone’, dava torto a Barrio e cita anche Pomponio Mela (…), Tito Livio (…) e Plinio (…). L’Antonini (…), a p. 428, iniziando a parlare di Sapri e del suo porto, scriveva che: “Verisimilmente il porto dei Vibonesi dovea esser quello di ‘Sapri’, lontano dalla terra circa un miglio, e mezzo, ed i grandi antichissimi avanzi di fabbriche, che in esso sono, mostrano, che non potevano essere per gente di poco conto, siccome diremo.”. Antonini, parlando di Vibone’, dando torto a Barrio (…) e cita anche Pomponio Mela. Anche il Laudisio (…), nella sua ‘Synopsi’, traeva questa notizia dalle epistole papali di papa S. Gregorio Magno e, nella nota (48), a p…., del Visconti (…), che postillava il Laudisio (…), scriveva: “(48) Bar., Ant. Luc., part. 1, pag. 139.”, ovvero il Laudisio (…), nel riportare la notizia secondo cui: Bonati (Bonatos), una città sorta, come pensa qualche studioso (48), sulle rovine dell’antica Vibona (Vibonam), un volta sede vescovile.”, l’aveva tratta dal Barrio (…), nel suo ‘De antiquitate et Situ Calabriae’, Roma, 1571, libro II, part. I, p. 136 e s., molto prima dell’Ughellio (…), scriveva sull’antica Vibonati e su alcune notizie citate dal Laudisio (…), credendola l’antica Vibone Lucana o “Hipponium”:

Barrio, parte I, libro II, p. 139

(Fig….) Barrio Gabriele, De situ Calabrie,

Nel 13 d.C. (I sec. d.C.), la villa a S. Croce a Sapri (?) di Giulia, figlia di Augusto e moglie dell’Imperatore Tiberio esiliata

Giulia

Nel 1700, il barone Giuseppe Antonini (…), nella sua “La Lucania – I Discorsi”, nel suo Discorso X che, parlando di Bussento a p. 418 parlando del campanile della cattedrale scriveva che: “La Cattedrale, che non è di rozza architettura, è bastantemente grande, e di presente molto ben ornata, ed ufficiata per sei mesi da dodici Canonici.”, poi proseguendo la sua dissertazione sul campanile l’Antonini a p. 419 in proposito segnalava che: “Trovasi però non pochi frammenti d’Iscrizioni antiche, che dimostrano essere stata un tempo di qualche considerazione. Eccone due, che sono allogati nel campanile, i quali, cogl’altri pezzi di marmo, onde questo è composto, mostrano, che la città fosse ben antica. Uno è il seguente GERMANICO CAESARI….AVG….F. DIVI. AVG.  N……DIVI. IVLII…PRON…AVG….COS. II. IMPERAT…..l’altro è questo AUGUSTAE IULIAE….DRVSI F…..DIVI….AVGVST…..”. Si tratta, come vedremo, dell’epigrafe dedicata a Giulia maggiore, figlia di Augusto e moglie di Tiberio. Dunque, l’Antonini fu il primo a segnalare le antiche iscrizioni marmoree o epigrafi latine presenti sul campanile della Cattedrale di Policastro Bussentino allora Buxentum.

Antonini, p. 419

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Sulle due epigrafi presenti incastonate nel campanile della Cattedrale ha scritto mons. Nicola Maria Laudisio (….), nelle ultime pagine della sua “Synopsis et…”. Infatti a pp. 109-110, troviamo scritto (vedi versione curata dal Visconti): Poichè la città, come afferma l’Ughelli (231), è molto antica, in una di queste lapidi marmoree si legge: “A GERMANICO CESARE FIGLIO DI TIBERIO AUGUSTO NIPOTE DEL DIVO AUGUSTO PRONIPOTE DEL DIVO GIULIO AUGUSTO PER DUE VOLTE CONSOLE E IMPERATOR. Germanico Cesare visse intorno al 12 dopo Cristo. Era figlio figlio naturale di Druso e figlio adottivo di Tiberio, suo zio; perciò fu nipote del divo Augusto, che a sua volta era padre di Tiberio e figlio di Giulio Cesare; Germanico inoltre fu console per due volte col secondo imperatore, cioè con Tiberio. Ebbe il soprannome di Germanico perchè dopo la morte di Augusto partì per la Germania e, rifiutato il titolo di imperatore con cui era stato acclamato dall’esercito, dopo aver vinto i nemici ritornò a Roma dove ottenne l’onore del trionfo. Partito anche per l’oriente per sedare delle dedizioni, vinse il re dll’Armenia; perciò Tiberio fu preso dalla gelosia e nello stesso tempo dall’odio, e per suo comando Germanico fu avvelenato ad Antiochia dal re di Siria pisone, quando aveva 34 anni di età, nel 19 dopo Cristo. Egli aveva pubblicato diverse opere, ma ci restano di lui soltanto la versione in esametri latini dei ‘Phaenomena’ che Arato aveva scritto nel 275 prima della nascita di Cristo, e alcuni epigrammi. Ecc…”. Il Laudisio proseguendo il suo racconto sulle due epigrafi poste sul campanile della Cattedrale diPolicastro, in proposito aggiungeva della seconda epigrafe marmorea: “Si vede anche un’altra iscrizione in onore di Augusta Giulia Drusilla che fu l’unica figlia del divo Augusto e moglie di Tiberio; ma per loro ordine fu mandata in esilio a causa della sua vita scandalosa, e secondo la tradizione morì in esilio. L’iscrizione è questa: AD AUGUSTA GIULIA FIGLIA DEL DIVO AUGUSTO.”. Ecco ciò che scriveva il Laudisio a proposito delle due epigrafe marmoree. Le frasi scolpite delle due epigrafi marmoree riportate ivi del testo tradotto dal Visconti che curò la versione del Laudisio che in originale è a p. 58. Il Laudisio (…), nella versione del Visconti, a p. 58, nella sua nota (231) postillava che: “(231) ‘Italia Sac.’, tom. 7, col. 758: Satis admodum eius (scil. urbis Polycastri) origo antiqua, nomen retinens a Greco vocabulo, quasi magnum castrum, seu urbis castrum; amplam fuisse indicant eius vestigia et ruinae, diversis enim ex varia fortuna bellis cessit in praedam).”. Il Laudisio riportava una frase di Ferdinando Ughelli (…), nella sua “Italia Sacra”, col. 758, vol. VII. L’Ughelli scriveva in proposito alle due lapidi che: La sua origine (cioè la città di Polycastrus) è piuttosto antica, conservando il suo nome dal nome greco, come fosse un grande castello, o un castello di una città; indicano che i suoi resti e le sue rovine erano estesi; ecc..”. Dunque, le due epigrafi furono citate anche dall’Ughelli ove parlava della Diocesi di Policastro. Il sacerdote Luigi Tancredi (….), nel suo “Le città sepolte del golfo di Policastro”, nel 1978, nel suo cap. “4. Ricordi dell’Età Imperiale”, a p. 15 in proposito scriveva che: “La romana Buxentum, invece, non ha mai raggiunto importanza fino al I secolo a. C.. Sotto ‘Silla’, verso l’87 a.C. divenne ‘municipio’ romano (22). Ai tempi dei primi imperatori era posto di confino per gli esiliati di marca. La figlia di ‘Augusto, moglie di Tiberio, ‘Giulia’, che il padre non poteva tollerare a Roma, perchè la sua vita privata era troppo licenziosa, deve essere morta nelle vicinanze di Buxentum, come dimostra la sua lapide, incastonata nel campanile di Policastro (23). Augusto morì a Nola; probabilmente doveva allontanare la figlia dal luogo degli scandali, senza, però, perderla di vista, o almeno poterla raggiungere entro un tempo non proibitivo. Anche la lapide di ‘Cesare Germanico’ (24) si trova allo stesso posto, indicando l’intera genealogia: da Giulio Cesare ad Augusto e a Tiberio. Non sappiamo come questi illustri personaggi se l’abbiano passata da queste parti, nè abbiamo notizie di palazzi o costruzioni da essi eseguiti. La città più importante di questo lembo del Golfo era probabilmente ‘Vibona’, che giace tuttora sotto una folta vegetazione e che copre forse anche i palazzi.”. Il Tancredi, a p. 15, nella sua nota (23) postillava che: “(23) “AUGUSTAE IULIAE – DRUSI F(ILIAE) – DIVI AUGUSTI”. Tacito C., ‘Annales’, I. Dione Cassio, ‘ad annum a. U.c. 748; Svetonio, In vita Tiberii, LIII.”. Dunque, il Tancredi postillava che ci parlano di questo personaggio, Giulia maggiore sia Tacito (…) che Svetonio. L’epigrafe lapidea vi è scolpita una iscrizione che recita in latino la seguente frase: “AUGUSTAE IULIAE – DRUSI F(ILIAE) – DIVI AUGUSTI”: “l’Augusta Giulia figlia di Druso, divino Augusto”. Il Tancredi, a p. 16, nella sua nota (24) postillava che: “(24) “GERMANICO CAESARI – TI(BERII) AUG(USTI) F(ILIO) – DIVI AUG(USTI) N(EPOTI) – DIVI IULI PRO N(EPOTI) AUG(USTI) – CO(N)S(ULU) II – IMPERATORI II”. Tacito C., ‘Annales’, II, 72 e 83 (per la vita).”. Il Tancredi segnalava la prima iscrizione o epigrafe riportata a p. 419 dall’Antonini. Devo però segnalare una strana notizia al riguardo che proviene da Domenico Romanelli (…), nel suo “Antica topografia istorica del regno di Napoli”, dove, a p. 96 parlando di Buxentum egli in proposito scriveva che: “Ma ruderi di antichità non esistono in Policastro…Eppure l’Antonini, quantunque avesse dichiarata questa città di epoca recente, e vuota di abitanti, pure attestò, che un miglio fuori le sue mura a levante si trovi un avanzo di edifizio romano, che mostra di essere stato un tempio. Oggi è detto ‘castellare’. Questo solo indizio per bocca di un contraddittore ci basta. Il p. Mannelli, che adottò (2) la stessa nostra opinione, vide in Policastro varj ruderi di antichità, che non si videro nell’Antonini, e specialmente la seguente iscrizione innalzata a Germanico (3): GERMANICO CAESARI T. AVG. F. DIVI AVG. N. DIVI IVLI PRON. AVG. COS. II IMPERATORI II AVG.  ET  IVLIA  DRVSI  F….DIVI  AVGVSTI.”. Innanzitutto devo far presente che il Romanelli riunisce in un unica iscrizione le due iscrizioni che l’Antonini riportava separatamente perchè sebbene fossero entrambe sul campanile della cattedrale esse non erano unite.  Il Romanelli a p. 96, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Mannelli. Stor. della Lucania ms. nella R. Bibliot. di Napoli.”. Il Romanelli si riferiva all’opera inedita, è un manoscritto, “La Lucania Sconosciuta” del padre agostiniano Luca Mannelli di cui ho pubblicato ivi in un altro mio saggio le pagine originali tratte dalla Biblioteca Nazionale di Napoli. Sul manoscritto del Mannelli scrisse anche il sacerdote Rocco Gaetani (…) che, riguardo il manoscritto del Mannelli riportò la trascrizione integrale delle pagine in cui parla di Policastro, nel suo “Notizie di Policastro Bussentino dalla storia lucana del Mannelli pubblicate per la prima volta dal manoscritto pel sac. Rocco Gaetani”, a pp. 18-19 in proposito scriveva che: “Credo che molte iscrizioni di quei tempi sian sepolte fra gli abbattuti edifici di Policastro, dalle quali potrebbesi formar concetto della sua magnificenza, essendone però una sola, nemmeno intera pervenuta a mia notizia, non voglio tediarla di qui rapportarla, argomentandosene che Livia moglie d’Augusto e madre di Tiberio insieme con Giulia sua figliola honorò con la sua presenza quella città nella quale inalzarono a quel famoso Germanico del sangue loro una statua con tale iscrizione GERMANICO CAESARI TI. AVG F. DIVI AUG. N. DIVI. IVLI PRON. AVG. COS II IMPEATORI II AVGVSTA EI  IVLIA DRVSI  F…..DIVI  AVGVSTI…..”. Ecco ciò che scriveva il Mannelli che riportava l’epigrafe che l’Antonini sia nella prima edizione del 1745 che nell’altra pubblicata dal nipote nel 1795 scriveva essere posta sul campanile della Cattedrale. Il Mannelli riportava l’epigrafe riportata dall’Antonini e scriveva “Livia moglie d’Augusto e madre di Tiberio insieme con Giulia sua figliola honorò con la sua presenza quella città nella quale inalzarono a quel famoso Germanico del sangue loro una statua con tale iscrizione”. Dunque, l’epigrafe in questione è dedicata all’Imperatore Tiberio che fu proprio il marito di Giulia maggiore, figlia di Augusto e di Livia.  Secondo il Mannelli, Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio e di Giulia, che sposò lo stesso Tiberio, suo fratellastro dimorarono a Buxentum. Io non credo che essi dimorarono a Buxentum ma credo che la loro villa fosse a Sapri. Il Romanelli (…) che, a p. 96 dubitava delle cose scritte a riguardo dall’Antonini e dal Mannelli, nella sua nota (3), riguardo le due iscrizioni riportate dall’Antonini in proposito postillava che: “(3) C.I.L., X, 460”. Dunque, secondo il Romanelli, l’epigrafe che l’Antonini riportava separatamente egli postilla del libro X del “Corpus Inscriptionum Latinarum”, pubblicato da Theodor Mommsen (…). Sull’epigrafe hanno scritto i due studiosi Pasquale Natella e Paolo Peduto (….), nel loro “Pixous-Policastro”, a p. 507: “Le testimonianze di Buxentum sono numerose: le iscrizioni furono raccolte dal Mommsen, che dichiarò “falsae vel alienae” altre due iscrizioni (54), riportate dagli storici locali come l’Antonini e il Riccio (55); la storia politica fu più o meno trattata, da Plinio a Strabone (56); sarcofagi romani vennero alla luce nel secolo scorso, ecc…”. I due studiosi a p. 507, nella loro nota (54) postillavano che: “(54) C.I.L., X, I, p. 51, nn. 459-460, iscrizioni originali: 1) Iscrizione nel campanile di Policastro, ancora in loco; 2) altra ivi, in loco. Tra le false o estranee ha interesse la seguente: …….xent. in rem/urbic./iug. LX. adsig./d.d.i.s. K….Fra gli studiosi stranieri il primo che abbia riportato le iscrizioni latine fu C. Tait Ramage (Viaggio nel Regno delle Due Sicilie, Roma, De Luca, 1966, pp. 104-109), che visitò Policastro nel 1828.”. I due studiosi sempre a p. 507, nella loro nota (55) postillavano che: “(55) Notevole è l’ipotesi che G. Riccio (Storia e topografia antica della Lucania, cit.), avanza sull’iscrizione falsa citata alla nota precedente. Egli riteneva che il frammento si riferisse alla ‘rifazione delle pubbliche mura ecc…”. Ma, come vedremo non è questa l’iscrizione che ci interessa. Dunque, riepilogando, i due studiosi Natella e Peduto scrivono che il Mommsen raccolse alcune epigrafi riportate dall’Antonini (…) e dal Riccio (…) e scrivono pure che le due epigrafi riportate dall’Antonini e dal Riccio, furono ritenute false dal Mommsen (…) che le inserì tra le iscrizioni “falsae vel alienae”. Diciamo subito che non sono le due iscrizioni o le epigrafi citate dall’Antonini a p. 419 e a cui mi riferisco, le due o una che ci parlano di Giulia maggiore, figlia di Augusto. Dunque, i due studiosi non si riferivano a questa testimonianza ancora presente sulla base del campanile della Cattedrale di Policastro. Sulle epigrafi marmoree a cui si riferivano i due studiosi Natella e Peduto che scrivevano che il Mommsen le aveva ritenute false,  ci viene incontro Nicola Corcia (…), nel suo ‘Storia delle Due Sicilie’, nel suo vol. III, ci parla di Bussento e a pp. 63 riportava le due epigrafi di cui i due studiosi Natella e Peduto dicevano che il Mommsen sosteneva la loro falsità. Una la pubblicò l’Antonini a p. 370 e l’altra molta antica la pubblicò l’Antonini a p. 407. Dunque, non sono quelle a cui ci riferiamo. Inoltre l’epigrafe o le due epigrafi (separate) pubblicate dall’Antonini a p. 419, sono state prese in considerazione dai due studiosi, i quali, nella loro nota (54) a p. 507 postillavano che: “(54) C.I.L., X, I, p. 51, nn. 459-460, iscrizioni originali: 1) Iscrizione nel campanile di Policastro, ancora in loco; 2) altra ivi, in loco. ecc…”. I due studiosi citavano le epigrafi riportate nel “Corpus Inscriptionum Latinarum” (C.I.L.) e, postillavano C.I.L., X, I, p. 51, nn. 459-460″. Infatti, la bibliografica intorno alle due epigrafi citate dai due studiosi e che il Mommsen dava per false, ovvero “falsae vel alienae”, sono state citate da Clara Bencivenga Trimllich (….), nel suo “Pyxous-Buxentum”, a p. 706, dove nella sua nota (20) postillava cosa diversa da Peduto e Natella: “(20) C.I.L., X, I, n° 94.”. Il Corpus Inscriptionum Latinarum (C.I.L.) è un’opera in più volumi che raccoglie antiche iscrizioni in latino. Si pone come fonte autorevole di documentazione epigrafica relativa ai territori compresi nell’Impero romano. Il CIL, come viene comunemente denominato, raccoglie le iscrizioni latine sino alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, di qualsiasi natura (pubblica, sacra, sepolcrale, onoraria, rupestre, graffiti etc.), e su ogni supporto epigrafico (per lo più pietra e bronzo). I due studiosi segnalavano che le epigrafi di Policastro Bussentino, alcune delle quali risalivano alla suindicata antica e romana Buxentum, furono riportate e pubblicate dal viaggiatore scozzese Craufurd Tait Ramage (….), nel suo ‘Viaggio nel Regno delle Due Sicilie, Roma, De Luca, 1966, pp. 104-109. Nell’edizione dell’Ippogrifo a cura di Raffaele Riccio ma posso segnalare anche la ristampa pubblicata per i tipi di Galzerano. Nella mia edizione, a pp. 129, Craufurd scriveva che: “Di fronte alla cattedrale giacciono, semi interrate, alcune bellissime colonne di marmo. evidentemente resti di un tempio che doveva eregersi dove oggi sorge l’odierna cattedrale. Le uniche iscrizioni che potei trovare furono quelle murate sulla base del campanile ed anche queste non erano che frammenti. Una si riferiva a Germanico e l’altra alla figlia di Druso. Le registro qui, ed è strano che non siano state trascritte con esattezze dai geografi: GERMANICO CAESARI….ecc…E’ impossibile ora stabilire in che modo la famiglia di Tiberio mantenesse dei legami con Buxentum, ma la suddetta iscrizione è comunque stata scolpita in onore di Druso Cesare Germanico, figlio di Tiberio, che fu console per la seconda volta nel 18 d.C.. L’altra è dedicata a: AVGVSTAE. IVLIA. DRVSI. F…..DIVI. AVGVST…..Questa Giulia, figlia del primo, sposò, nell’anno 20 d.C, il cugino germano Nerone, figlio di Germanico e Agrippina. Essa si atirò l’odio di Messalina, tanto che, istigato da lei, l’imperatore Claudio nel 59 d.C., la fece condannare a morte. Per spiegare l’esistenza di queste iscrizioni si deve ritenere che in questa provincia dovevano esservi delle proprietà della famiglia imperiale. Ecc…”. Dunque, il Ramage che fu il primo degli scrittori stranieri a riportare le epigrafi o iscrizioni latine presenti a Policastro, ragionando sulla presenza di queste epigrafi scriveva che: “Per spiegare l’esistenza di queste iscrizioni si deve ritenere che in questa provincia dovevano esservi delle proprietà della famiglia imperiale. E’ ancora curioso notare che, quattrocento anni dopo la loro collocazione, Buxentum abbia dato i natali ad un altro imperatore, Severo Libio, il quale regnò dal 461 al 465 d.C.”. Recentemente, Rosanna Romano (…), nel suo saggio “La cattedrale di Policastro” (in “Visibile latente etc…”, ed. Donzelli), a p. 38 in proposito al campanile della Cattedrale di Policastro scriveva che: “Nel 1167 fu costruito il campanile utilizzando materiale di spoglio ricavato dalle pietre tombali di età romana……Due le iscrizioni funerarie romane poste sui primi due ordini romanici, una dedicata a Julia, figlia dell’imperatore Augusto, l’altra a Germanico, figlio dell’imperatore Tiberio. Gli altri due ordini furono sovrapposti nel secolo XV.”. Angelo Guzzo (…) che, sulla scorta del Laudisio, nel suo “Il Golfo di Policastro – natura – mito – storia”, quando parlando di Policastro a p. 119 in proposito scriveva che: “”In ricordo di Giulia figlia di Augusto e moglie di Tiberio. Il Vescovo di Policastro Nicola Maria Laudisio, ecc…., afferma che detta lapide deriva dal monumento funebre eretto ad Augusta Giulia Drusilla, figlia unica di Augusto e moglie di Tiberio, da questi esiliata a Buxentum e fattavi morire di fame per la sua condotta disonesta. Giulia, quindi, era l’unica figlia di Augusto, nata nel 39 a.C., dalla seconda moglie Scribonia. Sposò prima Marcello, poi Agrippa, infine Tiberio, futuro imperatore romano, figlio adottivo della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla. Giulia fu celebre per la sua meravigliosa bellezza, per intelligenza e per depravata condotta. Tiberio, non potendola più sopportare, da uomo intransigente e severo qual era, la costrinse a ritirarsi dalla corte. Augusto, informato del fatto, la fece esiliare prima nell’isola Pandataria (Ventotene), poi a Regium Julium (Reggio Calabria) ed infine a Buxentum, ove Tiberio la fece morire di fame nell’anno 13 d.C., all’età di 52 anni. Di questo fatto parlano Tacito, Dione Cassio e Svetonio (52).”. Il Guzzo, a p. 119, nella sua nota (52) postillava che: “(52) G. Cataldo, op. cit., pagg. 10-11.”. Ma, come possiamo leggere dalla trascrizione del testo di Laudisio, egli non dice Tiberio, da questi esiliata a Buxentum e fattavi morire di fame per la sua condotta disonesta. Giulia, quindi, era l’unica figlia di Augusto, nata nel 39 a.C., dalla seconda moglie Scribonia.”. Rileggendo il passaggio del Guzzo mi colpisce la frase secondo cui Giulia, oltre ad essere stata esiliata da Tiberio nell’isola Pandataria (Ventotene), poi a Regium Julium (Reggio Calabria)”, aggiunge anche che Giulia fu esiliata “ed infine a Buxentum, ove Tiberio la fece morire di fame nell’anno 13 d.C., all’età di 52 anni.”. Leggendo le cronache alla voce “Giulia figlia di Augusto”, per esempio ciò che scrive Wikipedia o la Treccani non si evince che ella fosse stata esiliata o “confinata” a Buxentum (Bussento), “ove Tiberio la fece morire di fame nell’anno 13 d.C., all’età di 52 anni.”. Il Guzzo, sulla scorta del Cataldo, scrive che l’esilio forzato di Giulia a Buxentum Di questo fatto parlano Tacito, Dione Cassio e Svetonio (52).”. Dunque, il Guzzo a p. 119, postillava del sacerdote Giuseppe Cataldo. Il Guzzo, a p. 119, nella sua nota (52) postillava che: “(52) G. Cataldo, op. cit., pagg. 10-11.”. Le due epigrafe di IVULIA e di GERMANICO, citate dall’Antonini furono pure citate con un disegno dal sacerdote Giuseppe Cataldo (…), a p. 115, nella Tav. XXVI del suo “Notize storiche su Policastro Bussentino”. Il Cataldo, a pp. 10-11, in proposito scriveva che: “Sotto Augusto Buxentum fu compresa nella III^ Regione Italica (Lucania e Brutium) l’anno 42 a. C…Fra le maggiori località costiere di origine greca, come ecc.., nonchè Blanda Julia (Maratea) e Velia e Vibo ad Siccam (Vibone Lucana), Pixunte non doveva essere inferiore, perchè, pur non essendo un centro di grande entità, era, più che oggi, soggiorno turistico specialmente per gli uomini illustri come Cicerone, Orazio, ecc…Dell’antica Buxentum restano tracce di mura romane, costruite su quelle greche ecc..e tre lapidi, di cui una incompleta. La (I) “In ricordo di Giulia, figlia di Augusto e moglie di Tiberio” e la (2) ecc…Facciamo alcune possibili precisazioni circa le lapidi I^ e 2^. I) – Chi è Augusta Giulia ? – Mons. Laudisio, nelle ultime pagine della sua Sinopsis, afferma che detta lapide deriva dal monumento funebre eretto ad Augusta Giulia Drusilla, figlia di Augusto e moglie di Tiberio, da questi esiliata (a Bussento) e fatta morire di fame per la sua disonesta condotta (Lapis erectus etc….). Codesta Giulia era l’unica figlia di Augusto, ecc…, sposò…..ed infine Tiberio, figlio adottato dalla terza moglie Livia Drusilla. Giulia fu celebre per bellezza, per spirito e per depravata condotta. Tiberio, non potendola più sopportare, da severo ed intransigente che era, la costrinse a ritirarsi dalla corte. Augusto, informato del fatto, la fece esiliare nell’isola Pandataria (Vendotene), poi a Reggio Calabria (Regium Julium), infine in una piccola città della Campania, dove Tiberio la fece morire di fame nel 13 d.C. all’età di 52 anni. Ecc..”. Dunque, rilegendo il passo del Cataldo notiamo che egli non scrive ciò che aferma il Guzzo, ovvero che Giulia Augusta fu esiliata da Tiberio “ed infine a Buxentum, ove Tiberio la fece morire di fame nell’anno 13 d.C., all’età di 52 anni.” ma, più correttamente, il Cataldo sulla scorta di Tacito e di Svetonio parla di infine in una piccola città della Campania, dove Tiberio la fece morire di fame nel 13 d.C. all’età di 52 anni.”. Dunque, la notizia che Giulia, figlia di Augusto e moglie di Tiberio, fosse da questo esiliata anche ed infine a Buxentum è una illazione del Guzzo. Dunque, il Cataldo parla di una piccola città della Campania. Ed è per questo motivo che io escludo che si trattasse di Buxentum ma potrebbe trattarsi della villa bellissima che ancora oggi ne restano le vestigia a Sapri in località S. Croce. Il Cataldo continuando il suo racconto scriveva pure che: “Dell’esilio parlano Tacito, Dione Cassio (ad Ann. Urb. Cond. 748) e Svetonio (in Vita Tiberii, LIII). Tacito si esprime così: “Julia supremum diem obiit; ob impudicitiam olim a padre Augusto Pandataria insula, mox oppido Rheginorum, qui siculum fretum accolunt, clausa” (Annali, I). Non credo chedovremmo confondere l’augusta Giulia con altre due delle dieci ricordate dalla storia. Queste sono: a) Giulia, nipote di Augusto ecc…ecc…”. Dunque, il Cataldo in questo ultimo passaggio cerca di chiarire al suo lettore che vi erano pure altre Giulie citate dalla storia. Dunque, della Giulia “augusta”, figlia unica di Augusto hanno scritto Tacito (…), nei suoi “Annali”, libro I; hanno scritto Dione Cassio (ad Ann. Urb. Cond. 748) e Svetonio (in Vita Tiberii, LIII).”. Chi era “Giulia maggiore” o “IVLIA” che ritroviamo nell’altra epigrafe ?. Leggendo Wikipedia vediamo che si tratta di Giulia maggiore figlia di Augusto. La madre di Augusto, Azia maggiore era più precisamente la figlia della sorella di Cesare, Giulia minore, e di Marco Azio Balbo; Ottaviano, pertanto, era pronipote di Cesare. Da Wikipedia leggiamo che Giulia maggiore (nota ai contemporanei come Iulia Caesaris filia o Iulia Augusti filia; ottobre 39 a.C. – 14) era una nobildonna romana, figlia dell’imperatore Augusto, l’unica naturale, e della sua seconda moglie Scribonia. Dopo la morte di Agrippa, Augusto fece sposare Giulia e Tiberio, allo scopo di legittimare la successione del figliastro. Per sposare Giulia (11 a.C.), Tiberio dovette divorziare da Vipsania Agrippina, la figlia di primo letto di Agrippa che egli amava profondamente e da cui aspettava un secondo figlio, (dopo Druso minore). Si dice che lo perse per via dello shock dovuto a questo improvviso cambiamento. Il matrimonio con Tiberio non ebbe un corso positivo. Perseguendo gli interessi politici della famiglia, Tiberio nel 12 a.C. era stato costretto da Augusto a divorziare dalla prima moglie, Vipsania Agrippina, figlia di Marco Vipsanio Agrippa, che aveva sposato nel 16 a.C. e da cui aveva avuto un figlio, Druso minore. L’anno successivo sposò dunque Giulia maggiore, figlia dello stesso Augusto e quindi sua sorellastra, vedova di Agrippa. Tiberio era sinceramente innamorato della prima moglie Vipsania e se ne allontanò con grande rammarico; il sodalizio con Giulia, vissuto dapprima con concordia e amore, si guastò ben presto, dopo la morte del figlio ancora infante che era nato loro ad Aquileia. Il carattere di Tiberio, particolarmente riservato, si contrapponeva inoltre a quello licenzioso di Giulia, circondata da numerosi amanti. Il figlio che ebbero morì durante l’infanzia; alla scarsa opinione che il marito aveva del carattere della moglie, Giulia rispondeva considerando Tiberio non alla sua altezza, lamentandosi di questo fatto persino attraverso una lettera, scritta da Sempronio Gracco, destinata all’imperatore. Quando Tiberio si recò a Rodi, nel 6 a.C., i due avevano già divorziato. Giulia maggiore era figlia di Augusto e sorellastra di Tiberio che la sposò nel 17 a.C. Nel 2 a.C., Giulia, madre di due eredi di Augusto (Lucio e Gaio) e moglie del terzo (Tiberio), venne arrestata per adulterio e tradimento. Augusto le fece recapitare una lettera a nome di Tiberio in cui il loro matrimonio veniva dichiarato nullo. L’imperatore stesso affermò in pubblico che Giulia era colpevole di aver complottato contro la vita di suo padre. Molti dei complici di Giulia vennero esiliati, tra cui Sempronio Gracco, mentre Iullo Antonio, figlio di Marco Antonio e Fulvia, fu obbligato a suicidarsi. Anche la liberta Febe, che aveva aiutato Giulia nella congiura, si suicidò. Augusto mostrò di essere a conoscenza da tempo delle manovre dei congiurati, che si incontravano al Foro Romano, come pure della relazione amorosa tra Iullo e Giulia, forse l’unica vera tra tutte quelle attribuite alla figlia dell’imperatore. Augusto tentennò sull’opportunità di mandare a morte la propria figlia, decidendo poi per l’esilio. Giulia fu confinata sull’isola di Pandateria (moderna Ventotene), dove venne accompagnata dalla madre Scribonia. Le condizioni di vita erano disagevoli: sull’isola, di meno di due chilometri quadrati, non erano ammessi uomini, mentre eventuali visitatori dovevano essere prima autorizzati da Augusto, dopo che l’imperatore fosse stato informato della loro statura, carnagione, segni particolari o cicatrici; inoltre, non era concesso a Giulia di bere vino né alcuna forma di lusso. L’esilio di Giulia causò ad Augusto sia rimorso che vergogna e rancore, per il resto della sua vita. Cinque anni dopo le fu permesso di tornare sulla terraferma in condizioni migliori, a Reggio Calabria, dove secondo la leggenda sarebbe stata ospitata nella Torre di Giulia. Augusto non accolse nessuna intercessione che potesse richiamarla presso di sé e quando il popolo romano gli implorò la grazia con insistenza, egli gli augurò di avere tali figlie e tali spose. Decretò che le ceneri della figlia non venissero inumate nel mausoleo di famiglia. Secondo Svetonio (…), Giulia maggiore, moglie di Tiberio, dopo l’arresto fu confinata sull’isola di Ventotene e poi in seguito, secondo la leggenda sarebbe stata ospitata a Reggio Calabria. Ma sappiamo dalle fonti e dallo stesso Svetonio che quando Tiberio divenne imperatore nel 14, tolse a Giulia le sue rendite, ordinando che fosse confinata in una sola stanza e le venisse tolta ogni compagnia umana. Giulia morì poco dopo. La morte potrebbe essere stata causata dalla malnutrizione, se Tiberio la volle morta come ritorsione per aver disonorato il loro matrimonio; è anche possibile che Giulia si sia lasciata morire dopo aver saputo dell’assassinio del suo ultimo figlio, Agrippa Postumo. Il Cataldo, riguardo l’esilio forzato di Giulia citava Svetonio (in Vita Tiberii, LIII)”. Di Svetonio Tranquillo Gaio, le sue opere sono le Vite dei dodici Cesari in otto libri, sono ben più ampie e sono a noi giunte pressoché complete (manca solo una breve parte iniziale). Comprendono, in ordine cronologico, i ritratti di dodici Imperatori romani, tra cui lo stesso Cesare, a cui seguono Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano. Secondo Wikipedia Svetonio ne ha parlato nella sua opera “Augustus”, 65 e in “Tiberius”, 7. Sempre secondo Wikipedia hanno parlato di Giulia Velleio Patercolo, II, 10; Cassio Dione in “Storia romana”, LIV, 35.4; Tacito in “Annali”, I, 53. Dunque, la mia ipotesi che Giulia fosse stata confinata a Sapri nella bella villa in località S. Croce non potrebbe essere tanto campata in aria visto che l’epigrafe funebre a lei dedicata esiste e si trova non molto distante da Sapri. Tuttavia la notizia andrebbe a mio parere ulteriormente indagata. Secondo quanto scrivevano Tacito e Svetonio, la villa (Imperiale) che accolse l’esilio forzato della bella moglie di Tiberio potrebbe essere quella di Sapri essendo questa l’unica più vicina a Policastro, dove si trova la sua epigrafe funeraria e l’unica esistente su tutto il litorale fino a Velia. L’ipotesi è plausibile ?. Certo è che la notizia e l’ipotesi stessa dovrebbe essere ulteriormente e meglio indagata dagli addetti ai lavori chepare abbiano dimenticato le due epigrafi ancora visibili sul campanile della cattedrale di Policastro. Già il Ramage si chiese come mai si trovassero a Policastro quelle epigrafi che ci parlano di una famiglia imperiale, la quale a suo avviso, essi dovevano possedere una villa di una certa importanza. Vi sono ville d’epoca romana a Policastro ?. Che io sappia non ne sono mai state trovate. Forse è per questo motivo che l’Antonini poneva Bussento lì dove doveva trovarsi l’antica città della Molpa. Sono ancora tanti i dubbi e le incertezze storiche di questo territorio e non credo che certe notizie vadano liquidate alla stregua del Racioppi che criticò fortemente l’Antonini. L’Antonini scrive che il campanile fu costruito con materiale di risulta proveniente da altri ruderi o monumenti dell’antichità. Infatti, il campanile è di epoca posteriore a quello delle Iscrizioni citate dall’Antonini, solo una risulta anteriore. E’ quindi da non ecludere l’ipotesi che l’epigrafe di Giulia (“IVLIAE”), provenga da una villa d’epoca romana posta nella zona. Credo che oltre ogni ragionevole dubbio si possa propendere per l’ipotesi che si trattasse proprio della villa d’epoca Romana a Santa Croce a Sapri. Come scriveva il Tancredi, la figlia di Augusto e moglie di Tiberio, Giulia maggiore, di cui a Policastro Bussentino, l’antica Buxentum (Bussento) possiamo leggerne l’epitaffio della sua morte su una lapide scolpita nel marmo posta sul campanile bizantino della cattedrale, fu confinata dal padre Cesare Augusto in una villa di cui a Policastro non si trovano i resti. E’ molto probabile però che la sua villa, in cui ella dovette morire, fosse la villa romana di cui ancora oggi possiamo ammirarne le vestigia in località S. Croce a Sapri. Il fatto che l’epigrafe marmorea si trovasse a Policastro significa poco perchè essa poteva provenire da altro luogo essendo materiale di risulta reimpiegato sulla torre campanaria della Cattedrale. L’epigrafe lapidea di Giulia, moglie di Tiberio, poteva essere scolpita e posta solo dopo la sua morte nel municipio di Buxentum. Ferdinando La Greca (…), nel suo recente “Da Libio Severo ai Paleologo etc…”, nel 2017, a p. 47, in proposito alle due epigrafi di cui parlo in questo mio saggio scriveva che: “La presenza di dediche per membri della famiglia Giulio-Claudia (per Livia moglie di Augusto e madre di Tiberio, qui chiamata Iulia, e per Germanico, murate nel campanile della cattedrale di Policastro)(70) è spiegata in connessione a proprietà imperiali nella zona, o in relazione ad assegnazioni coloniarie ai veterani di Augusto. Sono presenti numerose ville nel territorio, con importanti attestazioni archeologiche, come un rilievo tardo-repubblicano di produzione regionale affine ai rilievi coevi del vallo di Diano (71).. Il La Greca (…), a p. 47, nella sua nota (70) postillava che: “(70) CIL X 459-460.”. Infatti due studiosi Natella e Peduto, a p. 507, nella loro nota (54) postillavano che:“(54) C.I.L., X, I, p. 51, nn. 459-460, iscrizioni originali: 1) Iscrizione nel campanile di Policastro, ancora in loco; ecc…”. Il La Greca, a p. 47, nella sua nota (71) postillava che: “(71) Vd. Gualtieri, 1996.”. Il La Greca, nella sua disamina, citando le epigrafi di cui ci stiamo occupando scriveva però che quella di IVLIA era riferita a “…(per Livia moglie di Augusto e madre di Tiberio, qui chiamata Iulia,”. Infatti, il La Greca, a p. 37 pubblica l’immagine dell’epigrafe e scrive che si tratta di un iscrizione romana che menziona Livia moglie di Augusto (qui chiamata Augusta Iulia). Dunque, per il La Greca non si trattava di un epigrafe riferita a “Giulia maggiore” ma l’epigrafe è riferita a Livia, la seconda moglie di Augusto. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I, parte I, a p. 278, in proposito scriveva che: “A Bussento, troviamo una dedica a Livia (6), la moglie di Augusto, la quale, dopo la morte del marito (a. 14 d.C.), fu adottata per testamento nella gente Giulia, ed ebbe il titolo di “Augusta”, onde nelle lapidi la troviamo indicata come ‘Iulia Augusta’. Da Svetonio (‘Claud.’ 11,2) veniamo a sapere che Claudio onorò la sua memoria di culto divino. Abbiamo conosciuto una sacerdotessa di Giulia Augusta a Volceio e ad Atina (p. 246). A Volceio, s’incontra una lapide in onore di Agrippa Postumo (1), figlio postumo di Agrippa e di Giulia, figlia di Augusto, adottato dall’Imperatore, il quale non avendo avuto figli maschi, sperò di avere trovato in lui il successore ecc…”. Il Magaldi, a p. 278, nella sua nota (6) postillava che: “(6) Cfr. C.I.L., X, 459: ‘Augustae Iulia(e) / Drusi f. / divi Augusti’. Cfr. la C.I.L., X, 799 da Pompei, e l’annotazione del Mommsen: “Augusta vocabulum nomini ideo praeponitur, quod pro dea Livia colitur (cfr. n. 823)”.”. Dunque, il Magaldi, sulla scorta del Mommsen propendeva per Livia Drusilla, seconda moglie di Augusto. Il Magaldi, a p. 278, riferendosi alla sacerdotessa dice di parlarne a p. 246. Infatti, il Magaldi, a p. 246, in proposito scriveva che: “In Lucania noi incontriamo, oltre quello di Roma e di Augusto a Potenza, un “flamine perpetuo del divo Augusto” a Grumento, a Volceio e ad Atina una sacerdotessa di Giulia Augusta, e cioè di Livia, che si chiamò così dopo la morte di Augusto ed ebbe culto divino, un flamine di Tiberio a Pesto, uno di Vespasiano e uno di Adriano a Volceio, ecc…”. Il Magaldi, a p. 279, aggiungeva che: “A Germanico, figlio adottivo di Tiberio, che fu salutato ‘imperator’ per la seconda volta nel 18 d.C., fu posta una dedica a Bussento (3).”. Il Magaldi, a p. 279, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. C.I.L., X, 460: ‘Germanico Caesari / Ti, Aug. f. divi Aug. n. / divi Iuli pron. Aug. / cos. II imperatori II.”. Dunque, è molto probabile che le due epigrafi siano legate alle due figure di Livia e di Germanico.  Livia Drusilla Claudia (in latino: Livia Drusilla Claudia; Roma, 30 gennaio 58 a.C. – Roma, 28 settembre 29), anche conosciuta semplicemente come Livia e dopo il 14 come Giulia Augusta, è stata una nobildonna romana, moglie dell’imperatore romano Augusto e Augusta dell’Impero. Fu la madre di Tiberio e di Druso maggiore, nonna di Germanico e Claudio, nonché bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone. Fu divinizzata da Claudio. Dunque, l’epigrafe murata ed ancora visibile sul campanile della cattedrale di Policastro si riferisce a “Giulia” detta “maggiore”, figlia unica di Augusto Ottaviano e di Strabonia o si riferisce a Livia Augusta, seconda moglie di Augusto Ottaviano, come scrive il La Greca ?. A questo riguardo posso dire che il La Greca citava Gualtieri (….) ed il sacerdote Giuseppe Cataldo (…), nel suo “Notizie storiche su Policastro Bussentino”, a pp. 10-11 in proposito aggiungeva che: “Dell’esilio parlano Tacito, Dione Cassio (ad Ann.Urb.Cond. 748) e Svetonio (in Vita Tiberii, LIII). Tacito si esprime così: “Julia supremum diem obiit; ob impudicitiam olim a padre Augusto Pandataria insula, mox oppido Rheginorum, qui siculum fretum occolunt, clausa” (Annali, I).”. Il Cataldo cioè scriveva che Tacito nei suoi annali, parla di Julia e del padre Augusto. Il Cataldo, continuando il suo racconto a p. 11 scriveva che: “Non credo che dovremmo confondere l’augusta Giulia con altre due delle dieci ricordate dalla storia (Nuova Enciclopedia Popolare Italiana: p. 596-97, G-GU, vol. 9: Torino, 1959). Queste sono: a) Giulia, nipote di Augusto, figlia di Druso e di Livia, sorella di Germanico; sposa di Nerone e di Rebellio Blando. Relegata nelle isole Tremiti, per la condotta depravata, morì nel 59 d.C. per ordine dell’imperatore Claudio. b) Giulia Augusta, adottata per testamento da Augusto e detta così da lui: era Livia Drusilla, discendente dai Claudii, figlia di Livio Druso Claudiano, già morto Tiberio Claudio Nerone e madre di Tiberio imperatore. Donna retta ed esemplare, ma così bella da indurre Augusto a divorziare da Scribonia per sposarla. Nata nel 57 a.C., morì nel 29 d. C. a 86 anni.”. Dunque, il Cataldo pur portando altri esempi riteneva si trattasse della Giulia maggiore, figlia unica di Augusto e di Strabonia e moglie dell’imperatore Tiberio. Ma quali che fossero questi due personaggi a cui si riferiscono le due epigrafiche latine e marmoree di sicuro a Policastro, l’antica Buxentum, ville d’epoca romana non ne sono state trovate e di contro abbiamo la bella e opulenta villa d’epoca romana in località S. Croce a Sapri. Infatti, il La Greca (…), a p. 35, in proposito scriveva che: “Lungo la costa sorgono anche importanti ville romane quali centri di produzione agricola, vere e proprie aziende che sfruttano il lavoro degli schiavi e si specializzano in pochi prodotti altamente redditizi per il mercato (olio, vino, grano, frutta, fiori, ortaggi): sono note le ville costiere di Tresino presso Agropoli (quella più antica, in quanto fortificata), di Licosa, di Sapri.”. Nicola Corcia (…), nel suo ‘Storia delle Due Sicilie, dall’antichità più remota al 1789′, vol. III, nella p. 61, ci parla di ”19 – Promontorio, porto e fiume Pissunto, o Bussento” e, nelle pp. 62-63-64 e s., parla di ” 20 – Pissunto, o Bussento (Buxentum)”. Nicola Corcia, dunque, a p. 64, del suo vol. III, in proposito scriveva che: “…..risorse l’antica ‘Bussento’, a circa due miglia dalla foce del fiume omonimo e ad un miglio dalle sue rovine. Di queste rovine or non rimane che una muraglia di opera reticolata, nella quale si sono distinti i ruderi di un tempio, e nella torre della cattedrale fabbricati si veggono rottami d’iscrizioni poste a Germanico e Giulia Augusta, la nobilissima e virtuosa madre di Tiberio.”. Dunque, Nicola Corcia ci parla di un’iscrizione dedicata Giulia Augusta, madre di Tiberio.

Nel ’68 (I sec. d.C.), San Paolo ordinava Vescovo Bacchilo che visiterà le diocesi di Bussento e Blanda

Oltre al Gagliardo (…), citato dal Laudisio e dal Tancredi, un’altra notizia simile che riguarda l’apostolo San Paolo che, fonderà la Diocesi di Bussento, la conosciamo da Nicola Curzio (…) che, nel suo ‘Melania di Blanda, ovvero l’Aurora del Vangelo sul litorale del Tirreno dall’Etna ai sette colli’, edito nel 1910, parlando dell’antica città di Blanda, ci ricorda che essa fu visitata da Bacchilo (…), primo Arcivescovo di Messina, ivi mandato qualche anno dopo la fondazione, nel ’68 d.C. dall’Apostolo S. Paolo, a visitare le prime comunità cristiane costiere. Secondo la tradizione, la diocesi sarebbe stata eretta da san Paolo di Tarso che ordinò il primo vescovo della diocesi di Messina, san Bacchilo. Secondo il Curzio (…), il vescovo Bacchilo, partito da Blanda, attraversate le falde del Monte Coccovello, raggiunse ‘Buxentum’ e poi passò a visitare ‘Vibone ad Sicam’ (…). Il sacerdote Giuseppe Cataldo (…), nel suo dattiloscritto inedito ‘Notizie storiche su Policastro Bussentino’, a p. 119, parlando della Diocesi di Policastro, citava Mons. Nicola Curzio (…) e, scriveva in proposito che: ” c) – Mons. Nicola Curzio (1877-1942), Arciprete di Lauria Superiore (Pz), nel suo opuscolo  ‘Melania di Blanda, ovvero l’Aurora del Vangelo sul litorale del Tirreno dall’Etna ai sette colli’, racconto storico della prima era Cristiana (Estratto dal “Pensiero Cattolico”): Manduria, Taranto, 1910, afferma quanto segue (Cap. XIV: pag. 38).”. Pubblicato nel 1910, scriveva che il luogo di Vibone ad Sicam’, fu visitato da Bacchilo, primo Arcivescovo di Messina, ivi mandato qualche anno dopo la fondazione, nel ’68 d.C. dall’Apostolo S. Paolo, a visitare le prime comunità cristiane costiere. Secondo il Curzio (…), il Vescovo Bacchilo, partito da Blanda, attraversate le falde del Monte Coccovello, raggiunse ‘Buxentum’ e poi passò a visitare ‘Vibone ad Sicam’ (…). Il sacerdote Giuseppe Cataldo (…), nel suo opuscolo, inedito e dattiloscritto “Origini e diffusione del Cristianesimo nella Campania e nel Cilento”, scriveva che: Sempre dal Curzio, si apprende che dell’esistenza di Bussento (Ecco là Bussento come primeggia sul Golfo. Che ridente posizione! (Cap. III, p. 10), la quale, con i ridenti centri marittimi della Magna Grecia, forma “una ghirlanda di gemme, la cui greca bellezza è ammirata nel mondo intero!…” (p. 11), offrendo ai naviganti una incantevole veduta (131). Questa cittadina fu visitata da Bacchilo, primo Arcivescovo di Messina (mandatovi da S. Paolo nell’anno 41 ed ivi vissuto fino al 68), assieme alle altre comunità costiere. Bacchilo, partito da Blanda, attraversate le falde del Monte Coccovello su un cavallo grigio, raggiunse Bussento, dove parlò in nome dell’Apostolo Paolo, esercitando sugli animi un fascino indicibile ed inebriandoli delle divine bellezze della fede cristiana (p. 29 e p. 30). Da Bussento il venerando presule passò a visitare le comunità vicine di Vibone ad Sicam (132)…. Il Curzio, nel cennato racconto del I secolo dell’era Cristiana (Melania di Blanda), parla spesso di Blanda, accennando alla comunità cristiana guidata dal Presbiterio Tileno e visitata da Bacchilo, Arcivescovo di Messina, mandatovi da S. Paolo qualche anno dopo la fondazione, nel 68: “Il dì seguente a notte inoltrata giunse a Blanda il venerando Bacchilo. La notizia del suo arrivo si sparse in breve per tutta la città, appena che l’alba ebbe nella dimane fugata le tenebre della notte, tano che in poco d’ora s’erano già radunati nell’atrio della casa di Tileno i pochi fedeli di Blanda. Il vescovo incomincia la sua evangelica allocuzione,…, in nome dell’Apostolo Paolo, ecc…, il venerando vescovo si accinge a partire per Bussento (193)”. Il Cataldo aggiunge che “Altra persona oriunda di Blanda, era Letonia, di cui si è detto parlando di Velia. ”. Il Cataldo (…), nella sua nota (131), postillava che:  “(131) Curzio N., op. cit., pp. 10-11”. Il Cataldo (…), nella sua nota (132), postillava che:  “(132) Curzio N., op. cit., pp. 29-30”. Il Cataldo (…), nella sua nota (193), postillava che:  “(193) Curzio N., op. cit., pp. 30.”. Il Curzio (…), dice in proposito di Blanda: “Di origine enotrica, fu Lucana, come la ricordà Tito Livio nel 214 a.C., cittadina interna secondo Tolomeo, ma sulle spiagge Tirreniche secondo Plinio. Bacchilo radunò i discepoli cristiani di Blanda nella casa di Tileno. Altra persona oriunda di Blanda era una certa Letonia di Velia. Blanda Jiulia ebbe sei vescovi dal III secolo in poi: Giuliano, con lapide (250-320); Elia, presente al Concilio Ecumenico di Calcedonia (451); ignoto (+ 592), per cui il papa S. Gregorio I Magno affida la Diocesi al Vescovo Felice di Agropoli; Romano (592 – 640), presente al Concilio Romano del 595-601; Pasquale (640-649), presente al Sinodo romano di papa Martino e, Gaudioso, presente al Sinodo romano di papa Zaccaria (743).”. Discepolo dell’Apostolo San Paolo, Bacchilo fu dallo stesso consacrato vescovo di Messina nel 42 d.C. Secondo la tradizione fu lui ad inviare l’ambasciata alla Vergine Maria, per annunziarle la conversione della Città, a cui la Vergine rispose con una lettera chiusa fra i suoi capelli in cui fra l’altro diceva: “Benediciamo voi e la vostra città” (come si legge sul monumento posto nel mare dello stretto). Rimase a capo della Chiesa messinese per molti anni e morì vecchio nella seconda metà del I secolo. Riguardo poi la diocesi di Blanda, Luigi Tancredi (…), nel suo  ‘Le città sepolte nel Golfo di Policastro’, a p. 82, scriveva che: “Il Cristianesimo si diffonde molto più tardi che sul Jonio e, verso il 300 d.C. Blanda è sede, o piuttosto, dimora d’un vescovo, ‘Giuliano’ (26). La costruzione di regolari diocesi si forma in Italia Meridionale soltanto un secolo più tardi. Il vescovo Elia (27) partecipa al Concilio di Calcedonia, nel 451: non è Blanda, ma dev’essere di Bleandro, in Asia Minore (28), come osserva argutamente Francesco Russo. In questo periodo la Magna Grecia è già provincia di scarsa importanza. Nel 592 il Papa S. Gregorio Magno deve intervenire per provocare l’elezione di vescovi nelle gloriose città di Velia, Buxentum e Blanda, ormai ridotte a pochi abitanti, alla miseria, ad una scarsa vita spirituale e culturale (29). L’incaricato di Gregorio Magno è il vescovo Felice di Agropoli, che assolve bene il suo compito, perchè la fila dei presuli Blandani riappare nei concili romani, fino al 743, col vescovo ‘Gaudioso’ (30). L’interruzione dal 640 al 740 non è in questo connesso indicativo, perchè corrisponde all’occupazione bizantina, che include la dipendenza del vescovado dal Patriarca di Costantinopoli, e non da Roma.”. Il Tancredi, nella sua nota (26) a p. 82, postillava che: “(26) Russo F., op. cit., vol. III, p. 18”. Il Tancredi, nella sua nota (27) a p. 82, postillava che: ” (27) Ibidem”. Il Tancredi, nella sua nota (28) a p. 82, postillava che: “(28) Mansi Joseph, Sacrorum Conciliarorum nova et amplissima collectio, Firenze-Venezia, 1759-98, vol. IV, 574.”. Il Tancredi, nella sua nota (29) a p. 82, postillava che: “(29) Migne, op. cit., Ep. XLIII, c. 1. 2° (cfr. nota 34 di Pyxous).”. Il Tancredi, nella sua nota (30) a p. 82, postillava che: “(30) Mansi, op. cit. vol. XII, 369.”.

Nel ’72 (I sec. d.C.), il ‘VICUM SAPRINUM’ nelDe Coloniis libellus’ di Giulio Sesto Frontino

Assume particolare importanza la citazione di un ‘Vicum Saprinum’ in Frontino (….) nel suo de ‘Coloniis’ (…). E’ l’Antonini (…) che, parlando di Sapri, riferisce alcune interessanti notizie che andrebbero ulteriormente indagate. Nel 1998, in occasione della redazione dell’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, in proposito scrivevo che: Nel 72 d.C., Frontino (67), riferisce di un “Vicum Saprinum” in una non meglio precisata “Mappa Albanensium”: “In mappa Albanensium invenientur haec: praeterea Vicum Saprinum et Clinivatium.”. Guglielmo Goesio, curatore dell’edizione seicentesca della “Lucania” dell’Antonini (68), postillava al riguardo che questo nome appariva per la prima volta: “cuius alibi factam nescio mentionem”. Nella mia nota (67) postillavo che: “(67) Frontino, De Coloniis (citato dall’Antonini, op. cit.)” e, nella mia nota (68) postillavo che: “(68) Antonini G., op. cit., parte II, disc.XI, p.430.”. La stessa notizia, in precedenza era stata pubblicata dal prof. Felice Cesarino (….), in uno dei suoi saggi pubblicati sui bollettini del Gruppo Archeologico di Sapri, di cui facevo parte. Il Cesarino (…), nel suo saggio “Contributo ad una ricostruzione della Storia antica di Sapri”, in “L’attività archeologica nel Golfo di Policastro”, (anno 1979), a pp. 25-35, senza fornire alcun riferimento bibliografico come si era solito fare all’epoca, in proposito scriveva che: “L’informazione di Frontino (‘De Coloniis’ – 1° sec. a.C.), relativa ad un ‘vicum saprinum’ citato in una non meglio precisata ‘mappa Albanensium’, non ci consente alcuna illazione, laddove lo stesso curatore dell’edizione seicentesca postilla al riguardo: “cuius alibi factam nescio mentionem”.”. Devo però precisare che correttamente il Cesarino riferendosi a Guglielmo Goesio (…) scriveva che era il “curatore dell’edizione seicentesca” del testo “De Coloniis” di Giulio Sesto Frontino (…) e non come ho ritenuto  curatore dell’edizione seicentesca della “Lucania” dell’Antonini”. Nel 1560 Guglielmo Goesio (….), pubblicò il testo in cui si riporta il testo di Giulio Sesto Frontino. Dopo la pubblicazione di Guglielmo Goesio, molti intrapresero a studiare il testo di Frontino. Il mio errore fu dipeso dalla provenienza della notizia. Giuseppe Antonini, Barone di S. Biase nella ‘Lucania’, per i tipi di Gessari (….)(1745), a p. 430 riferisce: “In Frontino de Coloniis, leggiamo che Sapri fosse stato solamente un Vico:  “IN MAPPA ALBANENSIUM INVENIENTUR HAEC: PRAETEREA VICUM SAPRINUM ET CLINIVATIUM. In terra voratos, e Sardiatos testimoniis dividi, ripis, rivis &c.”, e come non si trova, che altri avesse mai parlato di Sapri, perciò Guglielmo Goesio scrisse: “cuius alibi factam nescio mentionem.”. Dunque, l’Antonini cita il testo di Giulio Sesto Frontino e poi cita Guglielmo Goesio.  Il significato letterale di questa frase contenuta (secondo l’Antonini) nel testo di Giulio Sesto Frontino (….) è il seguente: “Questi luoghi: il Vicum Saprinum ed il Vicum Clinivatium, si trovano segnati nella Mappa Albanense. Nella terra dei divorati, divisa dalle testimonianze dei Sardi, da sponde e torrenti ecc…”.

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Nel 72 d.C., Frontino (1 bis), riferisce di un “Vicum Saprinum” in una non meglio precisata “Mappa Albanensium: “In mappa Albanensium invenientur haec: praeterea Vicum Saprinum et Clinivatium.. Dunque, l’informazione dell’Antonini è interessante. Riguardo la citazione di Frontino (…), l’Antonini lo cita pure quando a p. 423 ci parla della città scomparsa di “Vibone”. Il barone Giuseppe Antonini (….), nella sua ‘Lucaniadiscorsi’, ed. Tomberli, Napoli, 1795, Parte II, disc. XI, pp. 423, 424, 425, 426, 427,428. Giuseppe Antonini, ne parla nella sua ‘Lucania’, parte II, disc. XI, pp. 423, 424, 425, 426, 427, 428. Antonini (…), a p. 423, del Discorso XI, nella sua prima edizione del 1745 (ed. Gessari) scriveva che: ..ch’ancora oggi il luogo conserva di Vibonati. Ma perchè altri non abbia motivo di caricarsi di presunzione, e di autoità, vi aggiungeremo, che ‘Frontino’ lo mette unitamente con Bussento così: AGER VIBONENSIS ACTUS. N.X. G.P. XXV. E sebben ponga Bussento nè Bruzj; come l’è indubitato, che sempre fu della Lucania per incontrastabile sicurezza, così fu dimostrato già, che questo dovette essere inavvertenza di qualche sciocco Copista; e che così sia….”. La citazione di Frontino che fa l’Antonini la confermo in Guglielmo Goesio a p. 91. L’Antonini scrive a riguardo che: E sebben ponga Bussento nè Bruzj; come l’è indubitato, che sempre fu della Lucania per incontrastabile sicurezza, così fu dimostrato già, che questo dovette essere inavvertenza di qualche sciocco Copista; e che così sia. Ecc..”. Proseguendo il suo racconto l’Antonini aggiunge che: “In terra voratos, e Sardiatos testimoniis dividi, ripis, rivis ecc., ecc…”. Il sacerdote Luigi Tancredi (….), nel suo “Le città sepolte nel Golfo di Policastro” parlando dei “Documenti sull’antichità che riguardano il sito di Pixous, a p. 48 in proposito scriveva che: “F) Frontino: ‘De Coloniis’: “In provincia Brittinorum centuriae quadrate in jugera CC. et caetera in laciniis sunt praecisa post demortuos milites. Ager Buxentinus sextertianus est assignatus in cancellationem limitibus maritimis”. = Nella provincia dei Bruzii dopo la strage dei soldati le centurie quadrate furono divise per 200 iugeri di terreno e il resto rimase ai margini in pezzi non assegnati. L’agro bussentino preso a sesterzi fu destinato come barriera nei confini marittimi.”. Dunque, Frontino pone Bussento nei Bruzi. Antonini sulla scorta di Guglielmo Goesio (….) cita il “Vicum Saprinum”, cita Giulio Sesto Frontino e, cita l’opera di Frontino “De Coloniis” che cita un “Vicum Saprinum”. Chi era Frontino?. Giulio Sesto Frontino (….), De Coloniis (I secolo d.C.). Leggiamo da Wikipedia che Giulio Sesto Frontino (in latino: Sextus Iulius Frontinus; 40 circa – 103/104) è stato un politico, funzionario e scrittore romano. Tra le maggiori sue opere vi è gli Strategemata sono commentari di una sua opera perduta, il De re militari, e consistono in quattro libri di stratagemmi militari. Poi anche il De aquaeductu urbis Romae è un trattato sugli acquedotti ed è l’opera più importante di Frontino, una buona e concreta trattazione, svolta in due libri, dei problemi di approvvigionamento idrico a Roma. Frontino era stato curatore delle acque, cioè il responsabile degli acquedotti e dei servizi connessi, e il trattato riflette la serietà e lo scrupolo del suo impegno. L’opera contiene notizie storiche, tecniche, amministrativo-legislative e topografiche sui nove acquedotti esistenti all’epoca, visti come elemento di grandezza dell’Impero Romano e paragonati, per la loro magnificenza, alle piramidi o alle opere architettoniche greche. L’opera si è conservata nel codice Cassinensis 361 di mano di Pietro Diacono (XII secolo), ritrovato nell’Abbazia di Montecassino da Poggio Bracciolini nel 1429. Tra le opere di Frontino troviamo quella citata da Antonini (…), il ‘De Coloniis libellus’. Sex. Iulius Frontini De coloniis libellus, un testo latino presumibilmente pubblicato postumo nel 1560. Dalla Treccani leggiamo che è “falsa è l’attribuzione a F. del De coloniis, dove si nomina Adriano, mentre F. visse prima.”.

Frontino, De Coloniis

Vediamo ora l’opera di Guglielmo Goesio (….) a cui si riferiva Giuseppe Antonini. Si tratta di Guglielmo Goesio. Guglielmo Goesio nella Prefazione alla Raccolta “Rei agraria Auctores , legesque varia” . Ediz. di Am. ſterdam del 1674. Egli è citato nel prodromo nelle “Memorie etc..” di Francesco Antonio Ventimiglia (….). Guglielmo Goesio, nel 1674, insieme ad altri testi pubblicò il “De Coloniis libellus” che egli attribuì a Giulio Sesto Frontino (…). Il testo del Goesio è il  “Rei agraria Auctores, legesque varia”. Guglielmo Goesio (…), curatore dell’edizione seicentesca del testo “De Coloniis libellum” di Giulio Sesto Frontino (….), secondo l’Antonini (….), postillava al riguardo che questo nome appariva per la prima volta: “cuius alibi factam nescio mentionem”.

Goesio Guglielmo

Il significato letterale di questa frase contenuta (secondo l’Antonini) nel testo di Giulio Sesto Frontino (….) è il seguente: “Questi luoghi: il Vicum Saprinum ed il Vicum Clinivatium, si trovano segnati nella Mappa Albanense. Nella terra dei divorati, divisa dalle testimonianze dei Sardi, da sponde e torrenti ecc…”. A quale passo di Frontino contenuto nel testo pubblicato da Guglielmo Goesio si riferiva l’Antonini ?. Vediamo il testo di Guglielmo Goesio (….) del 1674, in cui riportava il “De Coloniis libellum”. Nell’edizione di Guglielmo Goesio (….), a p. 102 fu plubblicato il “De Coloniis libellus – ex commentario Claudio Cesaris subsequitur” e a pp. 145-146-146-147 troviamo il passo di Giulio Sesto Frontino sul “Vicum Saprinum” che fu citato dall’Antonini. Il Goesio, a p. 145 riportando il passo di Frontino scriveva che: “IN MAPPA e ALBANENSIUM INVENIENTUR HAEC. – Ager ecc…” e a pp. 146-147, dopo aver parlato della “Provincia Calabra” e della “Provincia Dalamaiarum”, in proposito scriveva che: “PRAETEREA VICUM SAPRINUM & Clinivatium. d In terra voratos & sardiatas testimoniis dividi, ripis, rivis, arboribus antemissis ut supra dixi, loca, pali sacrificales, tumor terrae, in effigiem limitis constitutus. aliquotiens enim petras quadratas inscriptas. non enim omnis titulus inscriptionibus indutus est, nam & ipsi montes sic terminantur. Alia subseciva sunt, quae in mensura non venerunt, si convenerit inter possessores, possident: si non convenerit remanent potestati. Alia loca sunt praefectoria quae, ad publicum ius pertinent.” che, tradotto significa: “Ulteriori Ville Saprine e Clinivazio. d. La terra è divisa in anfratti e sardine dalle testimonianze, con argini, ruscelli, alberi davanti, come ho detto sopra, luoghi, pali sacrificali, e il rigonfiamento della terra, a forma di frontiera. per più volte inscritto rocce quadrate. poiché non portava alcuna iscrizione sull’iscrizione, poiché le montagne stesse sono così delimitate. Ce ne sono altri subsecivi, che non sono venuti in misura, se concordati tra i possessori, posseggono; Altri luoghi sono prefetti di diritto pubblico”. Il termine “Clinivatium” è strano, dovrebbe trattarsi di un toponimo:

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(Fig….) Giulio Frontino tratto da Guglielmo Goesio (….), p. 146-147

Roberto Almagià (….), nella sua “Monumenta Italiae Cartographica” pubblicò (tav. VI, 3) una “Carta d’Italia”  di Jacques Signot, del 1515. La carta del Signot (….) fu stampata a Parigi, è annessa al ‘La totalle et vraye description des tous les passaiges qui sont de Gaules en Italie’.  Questa carta è stata pubblicata da Andrea Borri (….), Carta 17, p. 33. Pare che in questa carta fosse segnato un Bibone ed un Vicus, forse il Vicus Saprinum di Frontino in de Coloniis.

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(Fig……) Carta d’Italia di Jacques Signot, del 1515, dove è segnato un Bibone ed un Vicus, forse il Vicus Saprinum nel ‘de Coloniis’ di Frontino di cui ci parlava l’Antonini (….)

Nel ’77 d.C. (I sec. d.C.), Plinio, nel Libro 3, cap. 5, il “sinus Vibonensis” (il Golfo Vibonese)

L’Antonini (…), nella sua prima edizione della “Lucania” del 1745 (ed. Gessari), a p. 423 aggiungeva che: “….e che così sia, sentiamone quello che ne scrive ‘Plinio’, nel cap. 5 del lib. 3. Egli dopo aver descritto Bussento, il fiume Lao colla Città dello stesso nome, passa verso il lido Bruzio, che comincia di là del Lao, parla di Blanda, ch’è Maratea, del Bato, poi del porto Partenio, ch’è il Diamante, e chiude, o finisce il glofo Vibonense, in cui tutti questi luoghi sono: ‘Opdum Buxentum, graece Pyxus, Oppidum Blanda, flumen Batum, Laus amnis,: Fuit & Oppidum eodem nomine. Ab eo Brutium littus, portus Parthenius Phocensium, Sinus Vibonensis’; e con queste parole (ch’è la sua vera esatta lezione) ragiona ‘Plinio’ del seno Vibonense, o sia oggi golfo di Policastro, con altri luoghi, che in esso sono. Indi passato nella Bruzia (diciamola pur ora Calabria) vedete quanto spazio di paese cammina, per arrivare ad ‘Ipponio’, o sia ‘Vibo Valentia’; continua dunque così: ‘Locus Campletiae, Oppidum Tempsa ecc…, la fluvius Acheron. Hippo, quod nunc Vibonem Valentiam appellamus’, e così via via descrive quel tratto di mare, chiaramente mostrandoci qual sia il golfo Vibonense, e dopo sì lungo spazio il Tirreno, o S. Eufemia, in cui Monteleone, o Vibona al mare è posto. Quando Cicerone dopo la morte di Cesare ecc…”. Dunque, l’Antonini cita Plinio (…) ed il suo cap. 5 del Libro 3 della sua “Naturalis Historia”. Caio Plinio Secondo, conosciuto come “Plinio il Vecchio” (in latino: Gaius Plinius Secundus; Como, 23 – Stabia, 25 agosto o 25 ottobre 79), è stato uno scrittore, naturalista, filosofo naturalista, comandante militare e governatore provinciale romano. Plinio fu un uomo caratterizzato da un’insaziabile curiosità e scrisse molte opere, ma tutta la sua vasta produzione è ad oggi perduta, tranne per pochi frammenti. Tra queste opere si ricordano: il De iaculatione equestri; il De vita Pomponii Secundi, biografia in due libri del poeta tragico Publio Pomponio Secondo, di cui era devoto amico; i Bellorum Germaniae libri XX; gli Studiosi libri III, manuale sulla formazione dell’oratore; i Dubii sermonis libri VIII, su questioni grammaticali; e gli A fine Aufidii Bassi libri XXXI, sulla storia dell’Impero dal periodo in cui si interrompeva la storia di Aufidio Basso. L’unica opera pervenutaci è il suo capolavoro, la Naturalis historia; una vasta enciclopedia in 37 volumi che tratta di geografia, antropologia, zoologia, botanica, medicina, mineralogia, lavorazione dei metalli e storia dell’arte. L’opera enciclopedica è il risultato di un’enorme mole di lavoro di preparazione condotto su oltre 2000 volumi di più di 500 autori. Tale opera, letta e studiata nei secoli successivi, specialmente nel Medioevo e nel Rinascimento, rappresenta oggi un documento fondamentale delle conoscenze scientifiche dell’antichità. La fama di Plinio è anche legata alla sua morte, di cui ci è testimone il nipote-figlio adottivo Plinio il Giovane. Plinio il Vecchio era a capo della flotta romana stanziata a Capo Miseno, quando si verifica una delle più grandi catastrofi della storia, l’eruzione del Vesuvio del 79. Corso in aiuto di una sua amica, Rectina, e degli altri abitanti di Stabia, Plinio non fu più in grado di lasciare il porto della città e morì per le esalazioni del vulcano. La Naturalis historia, come detto, fu pubblicata nell’anno 77; già nel titolo l’opera si presenta come ricerca di carattere enciclopedico sui fenomeni naturali: il termine historia conserva il suo significato greco di indagine, e va notato che la formula ha dato la denominazione alle scienze biologiche, cioè alla storia naturale nel senso moderno della locuzione. Il primo libro fu completato dal nipote Plinio il Giovane dopo la morte dello zio e contiene la dedica a Tito, il sommario dei libri successivi ed un elenco delle fonti per ciascun libro. L’enciclopedia tratta svariati temi, dal generale al particolare: dopo la descrizione dell’universo (II libro), si passa a geografia ed etnografia del Bacino del Mediterraneo (III-VI libro), per poi trattare di antropologia (VII libro) e zoologia (VIII-XI libro). Antonini scriveva che Plinio il Vecchio (….) nel 77 d.C. “…Egli dopo aver descritto Bussento, il fiume Lao colla Città dello stesso nome, passa verso il lido Bruzio, che comincia di là del Lao, parla di Blanda, ch’è Maratea, del Bato, poi del porto Partenio, ch’è il Diamante, e chiude, o finisce il glofo Vibonense, in cui tutti questi luoghi sono: ‘Opdum Buxentum, graece Pyxus, Oppidum Blanda, flumen Batum, Laus amnis,: Fuit & Oppidum eodem nomine. Ab eo Brutium littus, portus Parthenius Phocensium, Sinus Vibonensis’; e con queste parole (ch’è la sua vera esatta lezione) ragiona ‘Plinio’ del seno Vibonense, o sia oggi golfo di Policastro, con altri luoghi, che in esso sono. Indi passato nella Bruzia (diciamola pur ora Calabria) vedete quanto spazio di paese cammina, per arrivare ad ‘Ipponio’, o sia ‘Vibo Valentia’; continua dunque così: ‘Locus Campletiae, Oppidum Tempsa ecc…, la fluvius Acheron. Hippo, quod nunc Vibonem Valentiam appellamus’, e così via via descrive quel tratto di mare, chiaramente mostrandoci qual sia il golfo Vibonense, e dopo sì lungo spazio il Tirreno, o S. Eufemia, in cui Monteleone, o Vibona al mare è posto.”. Dunque, Antonini sulla scorta di Plinio scriveva che egli cita il “Sinus Vibonensis” e, seguendo il ragionamento di Antonini che postilla sulla cronologia dei luoghi citati, egli pone il “Sinus” (il Golfo) “Vibonensis” tra il promontorio di Tortora fino ad arrivare a quello di Palinuro, ovvero ciò che oggi chiamiamo Golfo di Policastro. Scriveva Antonini: “e con queste parole (ch’è la sua vera esatta lezione) ragiona ‘Plinio’ del seno Vibonense, o sia oggi golfo di Policastro, con altri luoghi, che in esso sono. Indi passato nella Bruzia (diciamola pur ora Calabria) vedete quanto spazio di paese cammina, per arrivare ad ‘Ipponio’, o sia ‘Vibo Valentia”. Dunque secondo l’Antonini l’ipotesi che si trattasse di “Vibo Valentia” non è plausibile vista la sua enorme distanza dagli altri luoghi che Plinio pone cronologicamente vicini ed in successione tra loro.

Dopo il III sec. d. C., Sapri nei secoli dell’Impero Romano

Io credo che Policastro non avesse un porto e che dall’epoca dei romani, il porto di Policastro fosse il portum di Sapri. Assume ulteriore importanza la citazione di una città chiamata ‘Cesermae’ citata nell’Itinerario Antonino e nella Tavola Peuntingheriana (….). Nel 1998, in occasione della redazione dell’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, in proposito scrivevo che: Agli inizi del III sec. a. C., Elea (Velia), potente colonia della Magna Grecia (l’odierna Moio della Civitella), stringerà con Roma una proficua e forte alleanza, che, determinerà la scomparsa dei centri fortificati dell’interno come Roccagloriosa e sorgeranno ‘villae’ lungo la costa (39). Sulla costa si vanno infittendo le emergenze monumentali di ‘villae’ più o meno complesse: da quella di Punta Licosa a sud di Velia a quella imponente e monumentale di Sapri.”. Le evidenze monumentali ed epigrafiche provenienti da Sapri, le ampie descrizioni degli studiosi ottocenteschi (40), testimoniano una situazione più complessa ed articolata che non quella di una semplice villa marittima per quanto monumentale che sia.”(41). Al problema, al momento insolubile, della ubicazione a Sapri della statio Caesernia, lungo la via costiera che univa Capua a Reggio (42), si connette la complessità delle emergenze monumentali nonché la presenza di un cippo funerario, pubblicato dall’Antonini e dal Mommsen, che menziona un duovir des (ignatus) che documenta una costituzione duovirale tipica di una colonia (43)”(44).”. Nella mia nota (39) postillavo che: “(39) Frederiksen M.W., The contribution of Archeology to the Agrarian Proble in the Gracam Period, stà in “D.d.A.”, IV-V, 1971, p. 340 s.”. Nella mia nota (40) postillavo che: “(40) Johannowsky W., Sapri, stà in “Atti del XXII Congresso sulla Magna Grecia”, Taranto, 1983, p. 528.”. Nella mia nota (41) postillavo che: “(41) Antonini G., op.cit., vedi anche la Relazione di Magaldi J. presentata alla Soprintendenza alle Antichità e Scavi della Campania, 1928: “Cenno storico archeologico della città di Sapri”, ove vengono descritti minuziosamente i ruderi esistenti a Sapri ed i rinvenimenti avuti nel corso dei lavori per la costruzione della SS.18 nel 1884.”. Nella mia nota (42) postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted U., Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p.22.”. Nella mia nota (43) postillavo che: (43) Mommsen, CIL , X, 461; questo stesso cippo è dato come proveniente da Buxentum da Russi A. in Dizionario Epigrafico De Ruggiero, s.v. Lucania, p. 1897.”. Nella mia nota (44) postillavo che: (44) Greco Giovanna, op. cit., p. 19″. Infatti, pare che all’epoca romana, il diumviro edile che sovrintendeva il porto e le infrastrutture portuali a S. Croce a Sapri, Lucio Sempronio Pomponio Prisco, appartenesse alla famiglia dei Prisco. Un Prisco aveva un ruolo importante proprio a Policastro. Io credo che, il centro demaniale di Policastro o Buxentum romana non avesse un porto o strutture portuali vere e proprie ma che tali strutture fossero state costruite in località S. Croce a Sapri che peraltro ha una baia ampia ed unica che poteva ospitare anche flotte di navi da battaglia che ivi potevano ormeggiare per attendere le armate al loro rientro. Il piccolo porticciolo e la baia naturale di Sapri, ebbero certamente un ruolo, sia pure secondario, rispetto a quello più importante del centro demaniale di Policastro (porto franco), nelle operazioni militari che si svolgeranno via mare. Felice Cesarino (….), nel suo saggio “Contributo ad una ricostruzione di una storia antica di Sapri” in “L’Attività Archeologica nel Golfo di Policastro, n. 2”, a p. 27 in proposito scriveva che: “Il Magaldi, nella sua opera sulla Lucania (6), che costituisce a tutt’oggi il miglior lavoro sull’argomento, fornisce in proposito illuminanti notizie: “…..Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia farebbe pensare il toponimo Caesariana, secondo la spiegazione del Nissen”. Il Cesarino a p. 27, nella sua nota (6) postillava che: “(6) E. Magaldi, La lucania romana, Roma, 1947.”.  Il Cesarino si riferiva a Emilio Magaldi. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I, parte I, a p. 64, in proposito scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, e una iscrizione trovata ad Ostia (1), in cui è ricordato Q. Calpurnio Modesto che, fra le alte cariche, tenne quella di ‘procurator Lucaniae’. Si tratterebbe del ‘procurator Augusti’ per la Lucania, cioè dell’amministratore dei possedimenti imperiali sparsi per la Lucania (2).”. In questo ultimo passaggio, riguardo le ville Imperiali in Lucania, il Magaldi citava il Nissen (….). Il Magaldi scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, ecc…”. Dunque, il Magaldi scriveva che il Nissen, spiegava che il toponimo di “Caesariana”, spiegava e faceva pensare ad antichi possedimenti in Lucania. Il Magaldi, a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted Ulrich, Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p. 22.”. Sempre il Magaldi a p. 282, in proposito alle ville scriveva che: “Dell’esistenza di possedimenti imperiali in Lucania qualche cosa si è detta (p. 64 e seg.), qualche altra cosa si dirà in seguito.”. Il Magaldi, a p. 64, riferendosi alla probabile villa Imperiale di Massimiano Erculio, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. Orosio, VII, 28, 5 riportato in seguito”. Infatti, assume ulteriore importanza la citazione di una città chiamata ‘Cesermae’ citata nell’Anonimo Ravennate (….) che voleva fosse Sapri e, anche la citazione di una “Caesariana” nella  Tavola Peuntingheriana (….), come vedremo in seguito. 

Nel 214 d.C. (III sec. d.C.), Tito Livio e il “SAPRIPORTO” ai tempi della II guerra Punica contro Annibale

Pietro Ebner (…), nel vol. II del suo “Chiesa baroni e popolo nel Cilento”, a pp. 590 e 591 parlando di Sapri e riferendosi al Laudisio, dice che Livio parla di un Sapriporto’ in, XXVI, 39, 1-19. Riguardo la citazione di Tito Livio (…), Pietro Ebner (…), a p. 591 nella sua nota (13) parlando di Sapri e di ‘Scidro’, in proposito postillava che: ” (13)……Innanzi tutto Sapri non ha nulla a che vedere con il Sapriporto di Livio, XXVI, 39, 1-19 che scrive della sconfitta della quadra romana al comando di Decio Quinzio (scortava un convoglio di grano dalla Sicilia al presidio di Taranto) ad opera della squadra tarantina al comando di Democara. “. Pietro Ebner (…), nella sua nota (12) a p. 591 postillava che: “(12) Blanda, stazione XVI nella Tavola Peuntingeriana’ tra Vibona ‘Valentia’ e Salernum’ ha scritto anche M. Lacava, ‘Del sito di Blanda, Lao e Tebe Lucana. Ecc..”. Pietro Ebner (…) dice che Livio parla di un Sapriporto’ in, XXVI, 39, 1-19. Dunque Ebner parlando di Sapri e di ‘Scidro’ citava il “Sapriportico” citato da Tito Livio e scrive che Tito Livio (…) nel libro 26 (XXVI), 39, 1-19 parlava della sconfitta della quadra romana al comando di Decio Quinzio (scortava un convoglio di grano dalla Sicilia al presidio di Taranto) ad opera della squadra tarantina al comando di Democara.”. Tito Livio racconta della sconfitta della quadra romana di Dezio Quinzio mentre scortava un convoglio di grano dalla Sicilia a Taranto. Forse riguardo una citazione del “Sapriporto” di cui parla Livio è in Luca Holstenio citato dal Laudisio. Tito Livio, Ad urbe condita libri, libro XXIV, cap. 20, 5-6. L’Ebner dice che Livio parla di un Sapriporto’ in, XXVI, 39, 1-19. La seconda guerra punica (chiamata anche, fin dall’antichità, guerra annibalica) fu combattuta tra Roma e Cartagine nel III secolo a.C., dal 218 a.C. al 202 a.C., prima in Europa (per sedici anni) e successivamente in Africa. La guerra cominciò per iniziativa dei Cartaginesi, che intendevano recuperare la potenza militare e l’influenza politica perduta dopo la sconfitta subita nella prima guerra punica; è stata considerata anche dagli storici antichi il conflitto armato più importante dell’antichità per il numero delle popolazioni coinvolte, per i suoi costi economici e umani, soprattutto per le decisive conseguenze sul piano storico, politico e quindi sociale dell’intero mondo mediterraneo. Evento decisivo per la guerra in Italia fu la conquista di Taranto (213-212 a.C.). Annibale, con l’aiuto di un traditore, prese la città ma non la rocca che bloccava il porto, che, rimasta in mani romane, poteva essere rifornita dal mare. Così Annibale non poteva usare lo scalo, più capiente di quello di Locri (già in suo possesso) per ricevere i necessari aiuti da Cartagine. Nel 209 a.C. Quinto Fabio Massimo in persona marciò su Taranto e la riconquistò, grazie anche all’aiuto dell’esercito proveniente dalla Sicilia, che era sbarcato a Brundisium, e a un tradimento, prima che il Cartaginese potesse arrivare in suo soccorso; i Romani si comportarono brutalmente e 30.000 abitanti furono venduti come schiavi. Asdrubale condusse con abilità la marcia del suo esercito verso l’Italia; dopo avere attraversato senza grandi difficoltà i Pirenei e le Alpi giunse in Gallia cisalpina agli inizi del 207 a.C. con 20.000 armati, dove poté rafforzare il suo esercito con mercenari galli (per un totale ora di 30.000 armati), ma perse tempo prezioso assediando inutilmente Placentia; la situazione di Roma appariva molto grave, il console Marco Livio Salinatore si diresse a nord per fermare la marcia di Asdrubale, mentre l’altro console Gaio Claudio Nerone cercava di bloccare Annibale nel Bruzio, ma il condottiero cartaginese riuscì a muovere verso l’Apulia, respingendo i Romani nella battaglia di Grumento, e con una marcia laterale raggiunse prima Venosa e poi Canosa, dove si fermò attendendo notizie sui piani del fratello Asdrubale. Scullard aggiunge che con quattro legioni di fronte (Claudio Nerone) e due alle sue spalle a Taranto, Annibale non poteva avanzare oltre Canosa senza correre seri pericoli. Aleardo Dino Fulco (…), nel suo “Blanda sul Paleocastro di Tortora”, pubblicato nel 1976, a p. 16, parlando di Blanda, in proposito a Tito Livio scriveva che: “Ma notizie più interessanti fornisce lo storico Tito Livio (14) (59 a.C. – 17 d.C.) nel rievocare le imprese compiute dal console Quinto Fabio Massimo nella seconda guerra punica (219-201 a.C.): “Fabius………………………………………” “Fabio mosse in territorio sannita a devastare i campi e a piegare con la forza delle armi le città che erano passate dalla parte dei Cartaginesi. Il territorio dei Sanniti di Caudio fu devastato in modo disastroso: i campi furono incendiati per vasto tratto, si fece gran botino di bestiame e d’uomini. Furon conquistate con la forza le città fortificate Compulteria, Telesia (presso i Caudini), quindi Compsa (degli Irpini), Fagifulae e Orbitanium; fra le città lucane fu espugnata Blanda, tra quelle apule Aecae. In queste città furon fatti prigionieri o uccisi 25.000 nemici e ne furono presi 370 che s’eran dati alla fuga. Costoro, mandati a Roma dal console, furono tutti fustigati a sangue alla presenza del popolo e precipitati da una rupe. Queste le imprese compiute da Q. Fabio nello spazio di pochi giorni”. Questo dice il Fulco traducendo Tito Livio. Il Fulco a p. 16 scriveva ancora che: “Dalla testimonianza di Livio – valutata nel contesto di tutto il XXIV libro – si desume: 1) che Blanda era centro lucano di primaria importanza se viene citata tra le città che nella seconda guerra punica si schierarono dalla parte di Annibale; 2) che nel 214 a.C. fu espugnata da unità del Console Quinto Fabio Massimo, lo stesso che aveva conquistato Taranto (15), per essersi alleata con i Cartaginesi al fine di contrastare l’espansione romana nell’Italia meridionale; 3) che anche i Blandani subirono la sorte degli abitanti di altre città lucane, espugnate per non aver rispettato gli accordi sanciti nell’alleanza con Roma stipulata nel 298 a.C. (16). Blanda è inoltre citata da Claudio Tolomeo (179, cosmografo del II sec. d.C., come città lucana nel seguente ordine: Compsa, Potentia, Blanda, Grumentum, ed è considerata città mediterranea della Lucania. Ciò s’accorda con la testimonianza di Livio e non contrasta con quella di Pompeo Mela, che la vuole città rivierasca.”.

Nel 274 d.C. (III sec. d.C.), Scidros passò alla lega di Roma

Carlo Battisti (…), nel suo “Penombre della toponomastica preromana del Cilento”, diceva, tra l’altro che: In latino non esiste questo nome anche se scrittori locali ci dicono che ‘Scidrus’ passò nel 273 alla Lega di Roma. ”. Nella mia Relazione sull’“Analisi dell’evoluzione storico-Urbanistica di Sapri”, del 1998, redatta per il P.R.G. di Sapri, nella mia nota (32) postillavo che: “(32)  Battisti C., Penombre della toponomastica preromana del Cilento, stà in “Studi Etruschi”, vol. XXXII, Firenze, 1964.”.

Nel III sec. d.C., “Cesermae” (Sapri ?) nell’Itinerario Antonino

Assume ulteriore importanza la citazione di una città chiamata ‘Cesermae’ citata nell’Itinerario Antonino e nella Tavola Peuntingheriana (….). Nel 1998, in occasione della redazione dell’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, non ho mai parlato di uno dei monumenti della geo-storia: il cosiddetto “Itinerario Antonino”. L’Itinerario antonini (in latino, Itinerarium provinciarum Antonini Augusti) è un itinerarium, un registro delle stazioni e delle distanze tra le località poste sulle diverse strade dell’Impero romano, con quali direzioni prendere da un insediamento romano all’alto. La redazione che ci è stata tramandata risalirebbe al periodo di Diocleziano (fine del III secolo-inizi del IV), ma la sua versione originale viene solitamente datata agli inizi dello stesso III secolo (probabilmente sotto l’imperatore Caracalla, da cui avrebbe ripreso il nome), sebbene data e autore non siano stati definitivamente accertati. Si ritiene che possa trattarsi di un lavoro basato su fonti ufficiali, forse un’indagine organizzata da Cesare e proseguita da Ottaviano. L’itinerarium si compone di due sezioni indipendenti, che prendono il nome di Itinerarium provinciarum, che descrive un insieme di itinerari terrestri, e di Itinerarium maritimum, che descrive alcune rotte marittime del Mediterraneo. Altri studiosi precedenti prendono in considerazione l’Itinerario Antonino (uno stradario del III secolo in forma di testo) e molte altre rielaborazioni di una carta stradale antica dell’impero romano. Oreste Dito (….), nel suo “Notizie di Storia Antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892, nella ristampa anastatica ed. Brenner, Cosenza, a p. 72 parlando di Caesariana, in proposito scriveva che: Altri collocano ‘Caesariana’ a Casalnuovo, a Rivello, a Montesano, a Buonabitacolo, senza considerare che essa comparisce negli ‘Itinerarii’ come luogo marittimo, a cui faceva capo, sul Tirreno, un intero braccio di strada che, seguendo l’antica via che da Pixus portava a Siri, s’allacciava alla via Popilia, fino a Nerulo, mettendo in comunicazione il Mar Tirreno coll’Ionio (2). (p. 72) La sua fondazione in onore di qualche Cesare, che fece costruire il braccio di via dal vico ‘Mendicoleo’ a ‘Caesariana’, non va oltre quel tempo che passa tra l’Itinerario d’Antonino e la ‘tab. Peuntingeriana o teodosiana’ (sec. IV). in questa essa si trova tra Pesto e Blanda, mentre nel ‘geografo Ravennate’ (sec. VII ?) è collocata con più precisione tra Buxentum e l’Aedes Veneris (ora ‘Capo S. Venere’) innanzi Blanda.”.

Nel III-IV sec. d.C., la ‘Caesariana’ o ‘Ceserma’ nella Tavola Teodosiana o Peuntingheriana

Felice Cesarino (….), nel suo saggio “Contributo ad una ricostruzione di una storia antica di Sapri” in “L’Attività Archeologica nel Golfo di Policastro, n. 2”, a p. 27 in proposito scriveva che: “Il Magaldi, nella sua opera sulla Lucania (6), che costituisce a tutt’oggi il miglior lavoro sull’argomento, fornisce in proposito illuminanti notizie: “…..Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia farebbe pensare il toponimo Caesariana, secondo la spiegazione del Nissen”. Il Cesarino a p. 27, nella sua nota (6) postillava che: “(6) E. Magaldi, La lucania romana, Roma, 1947.”.  Il Cesarino si riferiva a Emilio Magaldi. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I, parte I, a p. 64, in proposito scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, e una iscrizione trovata ad Ostia (1), in cui è ricordato Q. Calpurnio Modesto che, fra le alte cariche, tenne quella di ‘procurator Lucaniae’. Si tratterebbe del ‘procurator Augusti’ per la Lucania, cioè dell’amministratore dei possedimenti imperiali sparsi per la Lucania (2).”. In questo ultimo passaggio, riguardo le ville Imperiali in Lucania, il Magaldi citava il Nissen (….). Il Magaldi scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, ecc…”. Dunque, il Magaldi scriveva che il Nissen, spiegava che il toponimo di “Caesariana” faceva pensare ad antichi possedimenti in Lucania. Il Magaldi, a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted Ulrich, Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p. 22.”. Sempre il Magaldi a p. 282, in proposito alle ville scriveva che: “Dell’esistenza di possedimenti imperiali in Lucania qualche cosa si è detta (p. 64 e seg.), qualche altra cosa si dirà in seguito.”. Il Magaldi, a p. 64, riferendosi alla probabile villa Imperiale di Massimiano Erculio, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. Orosio, VII, 28, 5 riportato in seguito”. Infatti, assume ulteriore importanza la citazione di una città chiamata ‘Cesermae’ citata nell’Anonimo Ravennate (….) che voleva fosse Sapri e, anche la citazione di una “Caesariana” nella  Tavola Peuntingheriana (….). Nel 1998, in occasione della redazione dell’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, in proposito scrivevo che: L’Antonini (35), a proposito di Sapri, riferiva che……“seguitando sorse l’antica carta di Peutingero, dove col medesimo nome vien chiamata.”. Infatti, a sostegno di una possibile localizzazione di ‘Cesernia’ in Sapri, è la mappa Teodosiana, detta anche ‘Tavola Peuntingheriana’, ovvero la più antica carta topografica che conosciamo, (fig.5)(36), che tra le località costiere della nostra zona, figura ‘Cesernia’. Il Racioppi (37), sosteneva che “l’antica città di Cesariana, non ancora di sicuro allogata, è da ricercarsi a Rivello, Sapri o Acquafredda.”. Il Battisti (38), che distingueva ‘Cesernia’ da ‘Cesariana’, ne propendeva per la localizzazione in Sapri.”. A sostegno di una possibile localizzazione di ‘Cesernia‘ in Sapri, è la mappa Teodosiana, detta anche ‘Tavola Peuntingheriana‘, ovvero la più antica carta topografica che conosciamo (…), che tra le località costiere della nostra zona, figura ‘Cesernia‘. Il barone Giuseppe Antonini (…), nella sua ‘Lucania – Discorsi’, per i tipi di Gessari (….)(1745), a p. 430 riferisce in proposito che: “…e nell’Anonimo di Ravenna chiamasi Ceserma (1), seguitando forse l’antica carta di Peutingero, dove con il medesimo nome vien chiamato”. L’Antonini, nella sua nota (1) aggiunge: “(1). L’accuratissimo Olstenio (….), vorrebbe che quel Ceserma si leggesse Cesae Caesaris, e che fosse la Cesariana, ubi nume Casalnuovo, ma non badò che l’Anonimo di Ravenna scrivendo nel libro 4 e 5 così: Laminium, Blandas, Cesermia, Buxentum, ragiona de’ luoghi posti sul mare, onde non si può saltare a Casalnuovo, paese de’ più mediterranei della regione.“.  L’Antonini (….), a proposito di Sapri, riferiva che l’Anonimo di Ravenna (….), ragionando dei luoghi posti sul mare, voleva che Sapri fosse l’antica città romana di “Ceserma“, “seguitando sorse l’antica carta di Peutingero, dove col medesimo nome vien chiamata.”. Infatti, nella Tabula Peuntingheriana (….) o carta Teodosiana, di cui qui ho pubblicato lo stralcio che a noi interessa, è citata la stazione di “Ceserma”.

Tabula Peuntingheriana

(Fig…..) Tavola Peuntingheriana o carta Teodosiana – particolare della Calabria, dove si legge ‘Ceserma e Blanda’

Nella mia nota (36) postillavo che: “(36) La “Tabula peuntingheriana, “Itineraria militare”, riproduzione fattane da Stefano Bellinio è tratta dal testo di Sacco E., op. cit.”. L’immagine stralcio della lunga Tabula Peuntingheriana che ivi ho pubblicato non è la riproduzione di Stefano Bellinio (…) pubblicata dal Sacco (…), ma è l’immagine che rappresenta la vera carta di Peuntingherio che troviamo pubblicata su Wikipedia, ovvero l’immagine tratta dal Codice Vidobonensis (…), conservato alla Biblioteca  Hofbibliotechek di Vienna. Da Wikipedia leggiamo che il testo, basato su una prima compilazione del IV sec., venne più volte aggiornato nel corso dei secoli; numerosi sono i punti in comune con la Tavola Peutingeriana o Peuntingheriana. La ‘Tabula peuntingheriana, Itineraria militare’, riproduzione fattane da Stefano Bellinio è tratta dal testo di Sacco E., op. cit. La Tavola Peutingeriana o Tabula Peutingeriana è una copia del XII-XIII secolo di un’antica carta romana che mostra le vie militari dell’Impero romano. È attualmente conservata presso la Hofbibliotechek di Vienna, in Austria, e per ciò è detta Codex Vindobonensis’. Ne esiste anche una copia in bianco e nero negli archivi della cartothèque de l’IGN, a Parigi; ed un’altra riproduzione è conservata presso il museo sotterraneo dell’Arena di Pola in Istria. La sua datazione è problematica, così come la sua provenienza. La Tabula fu infine stampata nel 1591 ad Anversa con il nome di Fragmenta tabulæ antiquæ dal famoso editore Johannes Moretus. Il manoscritto è generalmente datato al XIII secolo. Sarebbe opera di un anonimo monaco copista di Colmar, che avrebbe riprodotto verso il 1265 un documento più antico. Per quanto attiene a talune specifiche indicazioni, l’originale deve essere posteriore al 328, perché mostra la città di Costantinopoli, che fu fondata in quell’anno; mentre per altre (come ad esempio nella Pars IV – Liguria di Levante) potrebbe essere antecedente al 109 a.C. data di costruzione della via Emilia Scauri, che non vi è indicata. Porta il nome dell’umanista e antichista Konrad Peutinger che la ereditò dal suo amico Konrad Celtes, bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I; Peutinger avrebbe voluto pubblicare la carta, ma morì prima di riuscirci. La Tabula è probabilmente basata sulla carta del mondo preparata da Marco Vipsanio Agrippa (64 a.C.- 12 a. C.), amico e genero dell’imperatore Augusto e, tra l’altro, costruttore del primo Pantheon , in seguito ricostruito totalmente da Adriano nel 123. Si pensa che la sua redazione fosse finalizzata ad illustrare il cursus pubblicus (cioè la rete viaria pubblica sulla quale si svolgeva il traffico dell’impero, dotata di stazioni di posta e servizi a distanze regolari, che era stata appunto riordinata da Augusto). Dopo la morte dell’imperatore, la carta fu incisa nel marmo e posta sotto il Porticus Vipsaniæ, non lontano dall’Ara Pacis, lungo la Via Flaminia. Un altra carta che si può definire tematica è la cosiddetta Tabula Peutingeriana. Disegnata probabilmente a metà del IV secolo, copiata dettagliatamente nel pieno Medioevo e riscoperta nel 1508 da quel K. Peutinger da cui ha tratto il nome, la Tabula è una striscia di pergamena lunga quasi 7 metri ma alta soltanto 35 centimetri, che rappresenta tutto il mondo allora conosciuto. ll presunto originale della carta stradale della seconda metà del IV secolo (ca. 375 d.C.) contiene una rappresentazione grafica del mondo conosciuto allora, nella quale le strade erano rappresentate come linee di collegamento fra le singole tappe dei percorsi. L’originale tardo antico può essere ricondotto a diversi possibili carte precedenti, tra i quali una carta del mondo preparata da Marco Vipsanio Agrippa (64 a.C. – 12 a.C.). Si pensa che la sua redazione fosse finalizzata ad illustrare il cursus publicus (cioè la rete viaria pubblica sulla quale si svolgeva il traffico dell’impero, dotata di stazioni di posta e servizi a distanze regolari, che era stata appunto riordinata da Augusto). Dopo la morte dell’imperatore, la carta fu incisa nella sua lapide di marmo e posta sotto il Porticus Vipsaniæ, non lontano dall’Ara Pacis, lungo la Via Flaminia a Roma. Riguardo la stazione romana di ‘Ceserma’ vorrei qui ricordare la studiosa e archeologa Giovanna Greco (….), in un suo studio, a p. 19, in proposito scriveva che:  “..è piuttosto sulla costa che si vanno infittendo le emergenze monumentali di ‘ville’ più o meno complesse: da quella di Punta Licosa a Nord di Velia a quella imponente e monumentale di Sapri a Sud. Le evidenze monumentali ed epigrafiche provenienti da Sapri, le ampie descrizioni degli studiosi ottocenteschi (28) testimoniano una situazione più complessa ed articolata che non quella di una semplice villa marittima per quanto monumentale essa sia (29). Al problema, al momento insolubile, della ubicazione a Sapri della statio Caesernia, lungo la via costiera che univa Capua a Reggio (30), si connette la complessità delle emergenze monumentali nonché la presenza di un cippo funerario, pubblicato dall’Antonini e dal Mommsen, che menziona un ‘duovir des’ (ignatus) che documenta una costituzione duovirale tipica di una colonia (31).” (….)(….). Si veda Giovanna Greco (….) ed il suo saggio, Dall’Alento al Mingardo, stà in “A Sud di Velia-I-ricognizioni e ricerche 1982- -1988“, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia,Taranto, 1990, p. 17; Si veda pure Greco G., 1990 b, p. 18; Fiammenghi-Maffettone 1990, p. 32. L’Archeologa Giovanna Greco (…), a p. 19, nella sua nota (28) postillava che: “(28) W. Johannowsky, Sapri, in Atti XXIII, CSMG, Taranto, 1983, p. 528.”. La Greco, a p. 19, nella sua nota (29) postillava che: “(29) G. Antonini, Lucania, Napoli, 1745, p. 429 e p. 431; relazione Magaldi alla Soprintendenza di Napoli del 1938: descrive minuziosamente un complesso sistema idrico ed ambienti mosaicati venuti alla luce durante la costruzione di alcune palazzine.”. Sulla relazione di Josè Magaldi ho scritto quando parlo più in generale della villa marittima e monumentale in località S. Croce a Sapri. L’archeologa Giovanna Greco, a p. 19, nella sua nota (30) postillava che: “(30) Nissen, Italische Landeskunde, vol. II, p. 899, n. 8; Karhsted, op. cit., p. 22.”. La Greco, a p. 19, nella sua nota (31) postillava che: “(31) CIL, X, 461; questo stesso cippo è dato come proveniente da Buxentum da A. Russi in Dizionario Epigrafico De Ruggiero, s.v. ‘Lucania, p. 1897.”. Oreste Dito (….), nel suo “Notizie di Storia Antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892, nella ristampa anastatica ed. Brenner, Cosenza, a pp. 69-71-72 parlando di Buxentum, in proposito scriveva che: “Però la nuova colonia non ebbe quell’importanza che i Romani ne speravano; essa rimase fuori dal movimento stradale acquistando invece maggiore importanza il luogo dove in prosieguo sorse ‘Caesariana’ (Sapri).”. Il Dito, a p. 71, in proposito scriveva che: “Dopo Buxentum, in fondo la porto naturale di Sapri si trovava la stazione navale di ‘Caesariana’, (1) ch’era anche stazione di intreccio della via che da ‘Nerulo’ per ‘Caesariana’ costeggiava il litorale tirreno fino alla ‘Colonna reggina’. Molti scrittori, dietro la lezione sbagliata d’un testo d’Erodoto, vollero porre a Sapri la ‘Scidro’ d’Erodoto (la lez. era ‘Sipron’); ma la stessa situazione e i pochi vestigi antichi (‘le Camerelle’) che non vanno oltre l’epoca imperiale attestano della sua importanza come stazione navale a cui faceva capo il commercio per l’interno. Altri collocano ‘Caesariana’ a Casalnuovo, a Rivello, a Montesano, a Buonabitacolo, senza considerare che essa comparisce negli ‘Itinerarii’ come luogo marittimo, a cui faceva capo, sul Tirreno, un intero braccio di strada che, seguendo l’antica via che da Pixus portava a Siri, s’allacciava alla via Popilia, fino a Nerulo, mettendo in comunicazione il Mar Tirreno coll’Ionio (2). (p. 72) La sua fondazione in onore di qualche Cesare, che fece costruire il braccio di via dal vico ‘Mendicoleo’ a ‘Caesariana’, non va oltre quel tempo che passa tra l’Itinerario d’Antonino e la ‘tab. Peuntingeriana o teodosiana’ (sec. IV). in questa essa si trova tra Pesto e Blanda, mentre nel ‘geografo Ravennate’ (sec. VII ?) è collocata con più precisione tra Buxentum e l’Aedes Veneris (ora ‘Capo S. Venere’) innanzi Blanda.”. Dunque, Oreste Dito (….) scriveva che la fondazione della stazione marittima di Caesariana (così viene indicata sulla tavola Peuntingeriana), in onore di qualche Imperatore (“Cesare”) romano, “non va oltre quel tempo che passa tra l’Itinerario Antonino e la tavola Peuntingeriana o teodosiana (sec. IV)“. Nella mia Relazione del 1998, in occasione della redazione dell’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, quando scrivevo che:  “Il Racioppi (37), sosteneva che “l’antica città di Cesariana, non ancora di sicuro allogata, è da ricercarsi a Rivello, Sapri o Acquafredda.”.. Nella mia nota (37) postillavo che: “(37) Racioppi G., Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Roma, 1902.”. Nella mia Relazione del 1998, in occasione della redazione dell’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, quando scrivevo che:  Il Battisti (38), che distingueva ‘Cesernia’ da ‘Cesariana’, ne propendeva per la localizzazione in Sapri.”. Nella mia nota (38) postillavo che: “(38) Battisti Carlo, op. cit.”. Il Battisti (….), che distingueva ‘Cesernia‘ da ‘Cesariana‘, ne propendeva per la localizzazione in Sapri. Battisti Carlo, Penombre della toponomastica preromana del Cilento, stà in “Studi Etruschi “, vol. XXXII, Firenze, 1964. Nel 1815, Domenico Romanelli (….), nel suo “Antica topografia istorica del Regno di Napoli”, nel suo vol. I (vedi ristampa a cura di Ferdinando La Greca, dal titolo “Il Cilento, Paestum, e il Picentino”, p. 116), dopo aver detto di “7 – Mendicolco Vicus” ci parla di “8 – Caesariana”. Il Romanelli, fa il punto della sitauzione topografica e dei toponimi presenti in alcuni antichi autori come il Cluverio (…) e l’Olstenio (Holstein), e delle sue “Note all’Italia Antiqua al Cluverio”, ma soprattutto partendo dalle stazioni romane citate nell’Itinerario Antoninino, nell’Anonimo di Ravenna e nella Tabula Peuntingheriana. Il Romanelli a p. 116, in proposito scriveva che: “I soli itinerarj, e le tavole topografiche ci guidano finora nelle ricerche delle città Lucane. Camminiam perciò sull’incertezza, e tra dubbio lume, senza guida di alcuno scrittore, che ce ne insegni i veri nomi, e ci dia, conto di loro esistenza politica. Una di esse fu ‘Caesariana’, che nell’itinerario Antonino da Capua alla Colonna è segnata tra Marcelliana, e Nerulo a miglia 21 dalla prima, che noi abbiam rettificato in 14, perchè oggi se ne contano 12, ed a 33 da Nerulo, perchè oggi se ne contano 28: AD CALOREM IN MARCELLIANA…….M.P. XXV; CAESARIANA……M.P. XXI, leg. XIV; NERULO…..M.P. XXXIII ecc….Questa medesima città nella tavola peuntingeriana è descritta erroneamente col nome di ‘Caserma’ a miglia sette da Blanda, ma l’Olstenio (1) ha fatto ben osservare, che invece di ‘Caserma’ legger si debba ‘Caesariana’: Caserma. Hoc est divertigium viae Appiae sive Aquiliae ad Casas Caesarianas, pro quibus hic corrupte Caserma legitur versus mare inferum. Unde colligo Blandam fuisse, ubi nunc Maratea, nam inde XVI sunt mill. pass. ad Lainum fluvium. Eccone l’ordine topografico: CASERMA (leg. Caesariana); BLANDA……M.P. VII; LAVINIUM (leg. Laus)….M.P. XVI; CERILIS ecc….Riponendosi però Blanda a Maratea, se conviene la distanza di miglia 16 sino al fiume Lao, non conviene l’altra di sette sino a Cesariana, e perciò noi abbiamo stimato di aggiungere la cifra X, che forse fu tralasciata, e completare miglia 17, ch’esattamente vi corrispondono, fissandosi Cesariana a Casalnuovo, come saremo per dire. Questa topografia di Cesariana a Casalnuovo poco lontano da Sanza, devesi allo stesso Olstenio (2), da cui si aggiunge in altro luogo: “Caesariana, sive Casae Caesariannae ponendae videntur, ubi nunc” Casalnuovo. Corrispondendo adunque tutte le segnate distanze da Nerulo, da Blanda, e da altri luoghi al sito di Casalnuovo, noi abbiamo tutta la ragione di credere, che qui fosse Cesariana, che dalla via Aquilia veniva attraversata.”. Il Romanelli, a p. 117, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Holsten. in Cluver. pag. 288.”. Il Romanelli, a p. 117, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Id. pag. 293.”. Il Romanelli, parlando dell’Olstenio si riferiva al testo di Luca Holstenio (…) e del suo ‘Annotationes in geographiam sacram Caroli à S. Paulo Italiam Antiquam Cluverii et Thesaurum aurum geographicum Ortelii’, Roma, pubblicato nel 1666. Dunque, il Romanelli voleva che l’antica stazione Romana di “Ceserma”, segnata nella Tavola di Peuntingherio, fosse da identificarsi con l’odierno Casalnuovo nel Vallo di Diano e vicino a Sanza (SA). E’ vero che nella Tabula Peuntingheriana la stazione romana di Ceserma è segnata vicino al fiume Silaro che dal golfo di Policastro risale verso il Vallo di Diano ma è anche vero che la stazione di Ceserma è segnata abbastanza prossima al mare e proprio in prossimità della baia naturale di Sapri, che anche nella carta è facilmente distinguibile. Sulla Tabula Peuntingheriana, la stazione romana di “Ceserma” è segnata come toponimo “Ceserma VII”. Il Romanelli, citava l’Holsteino (…), a p. 288 e a p. 293. Vediamo l’Olstenio (…), nelle sue “Note all’Italia Antiqua del Cluverio”, ovvero al testo del 1666 ‘Annotationes in geographiam sacram Caroli à S. Paulo Italiam Antiquam Cluverii et Thesaurum aurum geographicum Ortelii’, un testo di Geografia storica che rivede l’altro testo di Cluverio: “Italia Antiqua”. Infatti, l’Olstenio, a p. 288, in proposito scriveva che: “Lin. 42. ‘Ceserma, &.) Hoc est divertigium viae Appiae sive Aquilliae ad Casas Caesarianas, pro quibus hic corrupte Ceserma legitur versus mare inferum. Unde colligo Blandam suisse, ubi nunc Marathea, nam inde XVI. sunt m.p. ad Lainum fl.”

Holstenio, p. 288

Holstenio, su Cesariana, p. 293

Nel VI-VII ? sec. d.C., l’antica “Ceserma” nell’Anonimo Ravennate

Assume ulteriore importanza la citazione di una città chiamata ‘Cesermae’ citata nell’Anonimo Ravennate (….) che voleva fosse Sapri. Nel 1998, in occasione della redazione dell’“Analisi: Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, studio redatto per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, in proposito scrivevo che: L’Antonini (35), a proposito di Sapri, riferiva che l’Anonimo di Ravenna (lib. 4 e 5), ragionando dei luoghi posti sul mare, voleva che Sapri fosse l’antica città romana di “Ceserma”, ecc…”. Nella mia nota (35) postillavo che: “(35) Antonini G., La Lucania, parte II, Napoli, 1745, discorso XI, nota 1, p. 430.”. Il barone Giuseppe Antonini (…), nella sua ‘Lucania – Discorsi’, per i tipi di Gessari (….)(1745), a p. 430 riferisce in proposito che: “…e nell’Anonimo di Ravenna chiamasi Ceserma (1), seguitando forse l’antica carta di Peutingero, dove con il medesimo nome vien chiamato”. L’Antonini, nella sua nota (1) aggiunge: L’accuratissimo Olstenio (….), vorrebbe che quel Ceserma si leggesse Cesae Caesaris, e che fosse la Cesariana, ubi nume Casalnuovo, ma non badò che l’Anonimo di Ravenna scrivendo nel libro 4 e 5 così: Laminium, Blandas, Cesermia, Buxentum, ragiona de’ luoghi posti sul mare, onde non si può saltare a Casalnuovo, paese de’ più mediterranei della regione.“.  L’Antonini (….), a proposito di Sapri, riferiva che l’Anonimo di Ravenna (….), ragionando dei luoghi posti sul mare, voleva che Sapri fosse l’antica città romana di “Ceserma“. Dunque, secondo l’Antonini l’Anonimo di Ravenna o Ravennate nei suoi Libri 4 e 5 della sua “Cosmografia Ravennate” “ragionando dei luoghi posti sul mare”, chedeva che “voleva che Sapri fosse l’antica città romana di “Ceserma”. L’Anonimo di Ravenna, detto anche Geografo di Ravenna, fu autore di un elenco di dati geografici riuniti in cinque libri nel VII o nell’VIII sec. sotto il titolo di “Cosmografia ravennate”. L’Anonimo di Ravenna (…), detto anche Geografo di Ravenna, fu autore di un elenco di dati geografici riuniti in cinque libri nel VII o nell’VIII sec. sotto il titolo di “Cosmografia ravennate”. Il Porcheron (…), nella trascrizione del testo dell’Anonimo di Ravenna (…), a p. 253, in proposito scriveva che: “II. Itinerum civitas Columpna Regia, Arciades, Tauriana, Vibona Valentia, Tenna, Tempsa, Clampetia (c) Ercules, Cerillis, Lanimunium, Blandas, Cesernia, (d) Veneris, (e) Boxonia, ecc…”. Il Porcheron, a p. 253 nella sua nota (d) postillava: “(d. Sive lucus, sive templum aut quid aliut fuerit, nemo nos docet, hunc enim locum ceteri omnes neghexere.” e, nella nota (e) postillava che si trattava di Buxentum. 

Pocheron, p. 253

Oreste Dito (….), nel suo “Notizie di Storia Antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892, nella ristampa anastatica ed. Brenner, Cosenza, a p. 72 parlando di Caesariana, in proposito scriveva che: (p. 72) La sua fondazione in onore di qualche Cesare, che fece costruire il braccio di via dal vico ‘Mendicoleo’ a ‘Caesariana’, non va oltre quel tempo che passa tra l’Itinerario d’Antonino e la ‘tab. Peuntingeriana o teodosiana’ (sec. IV). in questa essa si trova tra Pesto e Blanda, mentre nel ‘geografo Ravennate’ (sec. VII ?) è collocata con più precisione tra Buxentum e l’Aedes Veneris (ora ‘Capo S. Venere’) innanzi Blanda.”. Dunque, Oreste Dito cita l’Anonimo di Ravenna (…), in cui viene citata “Cesernia”. Oreste Dito scriveva che: “nel ‘geografo Ravennate’ (sec. VII ?) è collocata con più precisione tra Buxentum e l’Aedes Veneris (ora ‘Capo S. Venere’) innanzi Blanda.”. Il geografo di Ravenna. Da Wikipedia leggiamo che il testo, basato su una prima compilazione del IV sec., venne più volte aggiornato nel corso dei sec.; numerosi sono i punti in comune con la Tavola Peutingeriana o Peuntingheriana. La Cosmografia ravennate è una lista di luoghi e città del VII secolo d.C., che presenta il mondo allora conosciuto. Prende il suo nome dalla città italiana di Ravenna, dove il testo fu realizzato da un autore anonimo. Consiste in una sequenza di toponimi che vanno dall’India fino all’Irlanda. Il testo lascia supporre che probabilmente l’autore ha frequentemente usato delle mappe come fonti. Sebbene graficamente si presenti come una mappa, è in realtà una metodica elencazione di località, tratte dalla mappa. Le tre copie manoscritte distano dall’originale tre o quattro generazioni. Di conseguenza le copie sono affette da errori di ortografia, divisioni di parole ed errori di trascrizione che sembrano provenire da una cattiva interpretazione di una dettatura. Le variazioni tra i testi non sono limitate ai nomi delle località, ma ci sono variazioni significative nei commenti. Da questo si può dedurre che gran parte degli errori sono attribuibili ai copisti. I cinque libri che compongono l’opera sono stati pubblicati per la prima volta a Parigi da dom Porcheron con il titolo: “Anonymi Ravennatis de geographia libri V” nel 1688. Sono stati pubblicati di nuovo a Parigi con notevoli miglioramenti da A. Jacobs nel 1858 e a Berlino da Parthey nel 1860. L’edizione critica più recente dei tre manoscritti è quella di Joseph Schnetz, Itineraria Romana, vol. II: Ravennatis Anonymi Cosmographia et Guidonis Geographica, 1942 (ristampa 1990), B. G. Teubner, Stuttgart. Tradizione del testo: Fra i tre manoscritti che formano la tradizione diretta della Cosmographia dell”Anonimo Ravennate, il ms. Città del Vat., Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 961 e il ms. Basel, Universitätsbibliothek, F V 6 danno luogo a un ramo, il ms. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 4794 a un altro; il testo si fonderà sul Vaticano e sul Parigino, dal momento che il Basiliense, restituendo usi tradizionali del latino estranei all”epoca dell”autore (sec. VIIIin ), non è affidabile. È necessaria l”integrazione con i geografi che si sono serviti della Cosmographia, particolarmente Guidone Pisano, il quale nelle Historiae variae si serve di un codice perduto della Cosmographia che conteneva una redazione più completa e corretta (sei i mss. di Guidone, più due testimoni secondari); poi Riccobaldo da Ferrara (De locis orbis) e l”anonimo pisano autore del Liber de existencia riveriarium et forma maris nostri Mediterranei. I problemi critici principali sono la corretta ortografia e identificazione degli oltre cinquemila toponimi della Cosmographia. (da Te.Tra. I, scheda a cura di Annapaola Mosca). Bibliografia filologica: Anonymi Cosmographia et Guidonis Geographica, ed. J. Schnetz, Stutgardiae 19902 (prima ed., Lipsiae 1940), pp. 1-110 (Itineraria Romana, II); Ravennatis anonymi cosmographia et Guidonis geographica, edd. M. Pinder – G. Parthey, Berolini 1860 (rist. Aalen 1962); J. SCHNETZ, Untersuchungen über die Quellen der Kosmographie des anonymen Geographen von Ravenna, München 1942 (Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-hist. Abt., 1942, n. 6). Dunque, come ho già scritto, nel 1688, i cinque libri che compongono l’opera sono stati pubblicati per la prima volta a Parigi da dom Porcheron con il titolo: “Anonymi Ravennatis de geographia libri V”.

Nel IV sec. d.C., la villa in Lucania (a Molpa o a Bussento ?) dove si ritirarono gli Imperatori Massimiano Erculeo o Erculio e Massenzio

In alcuni scrittori locali leggo che le strutture murarie d’epoca romana che oggi ancora si possono ammirare in località S. Croce a Sapri dovevano essere una grande villa appartenuta all’Imperatore Massimiano Erculeo. Felice Cesarino (…), nel suo saggio “La residenza di un personaggio eccellente – La villa romana di Sapri”, apparso sulla rivista “I Corsivi”, n. 1, anno 2010, a p. 10 in proposito scriveva che: “Alcuni storici (Eutropio, Zosimo e Orosio) riferiscono che l’Imperatore Massimiano Erculeo, collega di Diocleziano, dopo aver abdicato nel 305 d.C. si era ritirato in Lucania, in una località imprecisata. Emilio Magaldi, in “Lucania Romana”, sostiene che il toponimo ‘Caesariana’ (da taluni identificata con Sapri) farebbe appunto pensare ad un possedimento imperiale in questa regione. Ecc..”. Felice Cesarino (….), nel suo saggio “Contributo ad una ricostruzione di una storia antica di Sapri” in “L’Attività Archeologica nel Golfo di Policastro, n. 2”, a p. 27 in proposito scriveva che: “Il Magaldi, nella sua opera sulla Lucania (6), che costituisce a tutt’oggi il miglior lavoro sull’argomento, fornisce in proposito illuminanti notizie: “L’Imperatore Massimiano Erculio, il collega di Diocleziano, possedeva in Lucania una villa, dove si ritirò dopo aver abdicato. E in questa villa appunto si trovava suo figlio Massenzio, l’avversario di Costantino, quando fu acclamato imperatore (cfr. Orosio). La villa in parola secondo uno degli autori antichi (Lattanzio) si direbbe trovata in Campania, secondo altri (Zosimo, Zonara, Eutropio) in Lucania, e questa indecisione ha fatto pensare che si trovasse al confine delle due regioni (Honingman). La notizia contenuta in una cronaca e ripetuta da qualche scrittore regionale (Corcia), che la villa imperiale si trovava a Molpa non ha il sostegno di alcuna citazione classica. Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia farebbe pensare il toponimo Caesariana, secondo la spiegazione del Nissen”. Il Cesarino a p. 27, nella sua nota (6) postillava che: “(6) E. Magaldi, La lucania romana, Roma, 1947.”.  Il Cesarino si riferiva a Emilio Magaldi.  Infatti, nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I, parte I, a pp. 281-282, in proposito scriveva che: “Prima di chiudere la rassegna dobbiamo ricordare Massimiano Erculio, il collega di Diocleziano, che, abdicato con lui nel 305, si ritirò in Lucania, dove possedeva una villa (p. 64). E da questa villa egli scappò a Roma, all’annunzio che suo figlio Massenzio era stato gridato imperatore dai pretoriani (27 o 28 ottobre del 306)(9).”. Il Magaldi, a p. 281, nella sua nota (9) postillava che: “(9) Cfr. Eutropio, IX, 27, 2: ‘Tanem uterque uno die privato habitu imperii insigne mutavit, Nicomediae Diocletianus, Herculius Mediolani……Concesserunt tamen Salonas unus, alter in Lucaniam; Zonara, XII, 32: …………………….Suida (Adler), s.v. ……………: “………………..”; Eutropio, X. 2.3: “Romae interea praetoriani excito tumultu Maxentium etc….”; Orosio, VII, 28, 5: ‘praetoriani milites etc….’; Zosimo, II, 10:…..’………..’, Cfr. SEECK, op. cit. di qui a poco, I^, p. 84.”. Il Magaldi, a p. 281, citava p. 64. Infatti il Magaldi a p. 64, in proposito scriveva che: “Anche l’imperatore Massimiano Erculio, il collega di Diocleziano, possedeva in Lucania una villa, dove si ritirò dopo aver abdicato. E in questa villa appunto si trovava suo figlio Massenzio, l’avversario di Costantino, quando fu acclamato imperatore (3). La villa in parola secondo uno degli autori antichi si sarebbe trovata in Campania (4), secondo i più di essi in Lucania, e questa indecisione ha fatto pensare che si trovasse al confine delle due regioni (5). Fra la Campania e la Lucania le maggiori probabilità sono per la Lucania perchè, come osserva il SEECK, se la Campania, celebre per le sue ville, potè facilmente sostituirsi nella tradizione alla Lucania, il contrario non è ammissibile (6). La notizia contenuta in una cronaca e ripetuta da qualche scrittore regionale, che la villa imperiale si trovava a Molpa (p. 31)(7) non ha il sostegno di alcuna citazione classica. Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, e una iscrizione trovata ad Ostia (1), in cui è ricordato Q. Calpurnio Modesto che, fra le alte cariche, tenne quella di ‘procurator Lucaniae’. Si tratterebbe del ‘procurator Augusti’ per la Lucania, cioè dell’amministratore dei possedimenti imperiali sparsi per la Lucania (2).”. In questo ultimo passaggio, riguardo le ville Imperiali in Lucania, il Magaldi citava il Nissen (….). Il Magaldi scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, ecc…”. Dunque, il Magaldi scriveva che il Nissen, spiegava che il toponimo di “Caesariana”, spiegava e faceva pensare ad antichipossedimenti in Lucania. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I (parte I), a pp. 36-37, in proposito scriveva che: “A 9 km. oltre il fiume Bussento, nel posto dove oggi è Sapri, si vuole da alcuni allogare ‘Scidrus’, che da altri si colloca a Papasidero, oppure la stazione ‘Cesernia’ della strada litorale ionica (1). Continuando a scendere lungo la costa, si oltrepassa Maratea e si raggiunge la foce del Noce che, prima di sboccare, lasciava a sinistra ‘Blanda’. Poco dopo l’isoletta Dino, ricca di grotte, fronteggia da vicino la costiera. Proseguendo si incontra, poco dopo, Scalea, che sembra fosse il porto di Lao (2). Ecc..”. Il Magaldi, a p. 37, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Di queste identificazioni topografiche si riparlerà nel c. VIII.”. Dunque, il Magaldi ci parla di Sapri cap. VII che si trova nel suo vol. II della sua “Lucania Romana”. Il Magaldi, a p. 37, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Cfr. Nissen, o. c., II, p. 898.”. Riguardo l’opera del Nisse citato dal Magaldi si tratta di Heinrich. Nissen (…).  Il Magaldi, a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted U., Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p.22.”. Mario Napoli (…), riguardo il Nissen ripete la stessa postilla e nota. Sempre il Magaldi a p. 282, in proposito alle ville scriveva che: “Dell’esistenza di possedimenti imperiali in Lucania qualche cosa si è detta (p. 64 e seg.), qualche altra cosa si dirà in seguito.”. Il Magaldi, a p. 64, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. Orosio, VII, 28, 5 riportato in seguito”. Il Magaldi, a p. 64, nella sua nota (4) postillava che: “(4) La villa è collocata in Campania da LATTANZIO, de mort. persecut., 26, 7. La collocano invece in Lucania Zosimo, II, 10, ZONARA, XII, 32, EUTROPIO, IX, 27, 2, e X, 2, 3 (riportati in seguito).”. Il Magaldi, a p. 64, nella sua nota (5) postillava che: “(5) Cfr. HONINGMANN, cit., col. 1559. Così pure il commendatore Lattanzio, l. c., nell’edizione del Migne”. Il Magaldi, riguardo la postilla del Lattanzio (…) si riferiva all’opera “De mortibus percecutorum”. De mortibus persecutorum (dal latino, «Le morti dei persecutori») è un trattato in lingua latina attribuito allo scrittore cristiano Lattanzio (….). Composto negli anni immediatamente seguenti all’Editto di Milano, il trattato aveva lo scopo morale di istruire i cristiani su quale fosse la sorte che spettava ai nemici di Dio. Esso narra, con uno stile scorrevole e a tratti molto crudo e vivace, la vita, le sofferenze e la fine tragica di tutti i persecutori del cristianesimo, da Nerone fino a Massimino Daia. L’opera si articola in oltre cinquanta capitoli, i più ricchi dei quali sono quelli dedicati ai tetrarchi e ai loro successori. L’attribuzione del De mortibus persecutorum è stata anche oggetto di dibattito: lo scritto infatti, per il gusto del macabro di molte scene e lo stile ardente e diretto si differenzia dalle altre opere di Lattanzio in cui prevale invece un’eloquenza molto più pacata. Secondo Arnaldo Momigliano l’autore del De mortibus persecutorum è forse l’unico scrittore cristiano dell’epoca che si diffonda su eventi sociali e politici e lo fa con uno spirito conservatore e senatoriale che deve risultare imbarazzante per coloro che identificano i cristiani con l’amore per gli strati sociali più poveri e deboli. Il Migne (….) pubblicò il testo attribuito al Lattanzio. Il Magaldi, a p. 64, nella sua nota (6) postillava che: “(6) Cfr. O. SEECK, Geshichte des Untergangs der antiken Welt, vol. I^, p. 84 e Anhang^4, p. 485”. Il Magaldi, a p. 64, nella sua nota (7) postillava che: “(7) Cfr. CORCIA, o. c., III, p. 58 seg.”. Il Magaldi, a p. 64, nella sua nota (6) postillava che: “(6) Cfr. O. SEECK, Geshichte des Untergangs der antiken Welt, vol. I^, p. 84 e Anhang^4, p. 485”. Il Magaldi, a p. 64, nella sua nota (7) postillava che: “(7) Cfr. CORCIA, o. c., III, p. 58 seg.”. Riguardo la postilla del Corcia (…), si tratta di Nicola Corcia (….). Già Nicola Corcia (…), a p. 59 del suo vol. III del suo “Storia delle Due Sicilie dall’Antichità più remota al 1789” dissertando sull’origine Pelasgica della Molpa, citava Eutropio (come dice il Cammarano) ed in proposito scriveva che: “Da così nota antichità la città si mantenne insino ai tempi Romani. E’ noto, in fatti, da Eutropio che Massimiliano Erculeo, collega di Diocleziano, abdicato l’impero, ritiravasi nella ‘Lucania’ (6), ed il citato Cronista riferisce che ritiravasi nella città di Molpa. Nato in questa stessa città si pretende Libio Severo, il quale per opera di Ricimero succedeva nell’impero a Majorano nel 460; ed il citato cronista dice che mostravasene la casa in rovina à suoi giorni (1).”. Nicola Corcia (…), a p. 58 del suo vol. III del suo “Storia delle Due Sicilie dall’Antichità più remota al 1789”, nella sua nota (6) postillava che: “(6) Eutropio, IX, 27”. Il Corcia, a p. 59, del suo vol. III, nella sua nota (1), riguardo la ‘Cronaca di S. Mercurio‘, postillava che: “(1) Chronic. S. Mercur., ap. Antonini, op. cit., t. I, p. 378.”. Riguardo la citazione di Eutropio, il Corcia che lo cita e postillava del passo 27 del libro IX. Su Eutropio leggiamo da Wikipedia che egli era probabilmente di origine italica (così è citato nella Suda). Ricoprì in due riprese importanti cariche pubbliche sotto vari imperatori. Professava il paganesimo. Prese parte alla campagna sasanide dell’imperatore Giuliano nel 363. Successivamente ricoprì incarichi di estrema importanza a Costantinopoli, al servizio dell’imperatore Valente (364–378), di cui fu segretario e storico (magister memoriae) e su richiesta del quale scrisse il Breviarium ab Urbe condita (“Breviario dalla fondazione di Roma”). Nel 371/372 fu proconsole (governatore) della provincia d’Asia; restaurò alcune costruzioni di Magnesia al Meandro, e fu accusato di tradimento dal suo successore Festo, ma assolto. Sotto Teodosio I fu prefetto del pretorio dell’Illirico nel 380-381, e nel 387 fu console posterior. Un altro storico, Giorgio Codino, nel suo De originibus Constantinopolitanis (“Sulle origini di Costantinopoli”), afferma che Eutropio fu segretario di Costantino I, ma non è chiaro se si tratta della stessa persona. Morì dopo il 387. Il Breviarium ab urbe condita, in dieci libri, è un compendio (breviarium in latino indica una stesura di sintesi) della storia romana, dalla fondazione della città fino alla morte di Gioviano, avvenuta nel 364. L’attenzione dell’autore è concentrata più agli avvenimenti di politica estera, alle campagne e alle guerre di conquista, che alla politica interna. Gli ultimi quattro libri, dedicati alle vicende imperiali, offrono, però, interessanti ritratti dei sovrani. Le fonti utilizzate da Eutropio sono varie: da Tito Livio e Svetonio, fino a cronache a noi non pervenute, come ad esempio la famigerata e dibattuta Enmannsche Kaisergeschichte e ai ricordi personali dell’autore. Nicola Corcia, riguardo le notizie storiche sulla città della Molpa citava lo scrittore antico Eutropio le cui notizie probabilmente si era ispirato un chronicon medioevale detto “Cronaca di S. Mercurio” che veniva citato più volte dall’Antonini.  Il Corcia, a p. 59, del suo vol. III, nella sua nota (1), riguardo la ‘Cronaca di S. Mercurio‘, postillava che: “(1) Chronic. S. Mercur., ap. Antonini, op. cit., t. I, p. 378.”. Infatti, l’Antonini (…), parlando sempre della Molpa, a p. 378, parte II, ci dice ancora della ‘Cronaca di S. Mercurio’, scrivendo che: “La monca citata ‘Cronaca di S. Mercurio’, ecc…”. Della cronaca medioevale, il chronicon (cronaca medioevale) scritto nel XI secolo da un monaco di un monastero del Cilento ho parlato nel mio saggio ivi “Il Chronicon del monaco di S. Mercurio”. Nel 1995, in occasione della stesura del nuovo Piano Regolatore Generale del Territorio di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte, fui incaricato dal Comune di Sapri di redigere uno studio di Analisi e Storia, a mia firma la Relazione sull’“Analisi sull’Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a p. 9 parlando dell’area archeologica di S. Croce a Sapri in proposito scrivevo che: Intorno al IV sec. d.C. la zona era ancora frequentata, infatti, recentemente, è stata rinvenuta in località S. Croce una moneta coniata tra il 293 e il 297 d.C., dell’Imperatore romano Massimiano Erculio. Orosio, riferisce che l’imperatore dopo aver abdicato nel 305, si ritirò nella sua villa in Lucania, ove un anno dopo, il figlio Massenzio ricevè la notizia della sua acclamazione ad imperatore. L’Honingman, collocava la villa imperiale tra le due regioni. Sapri è l’unica testimonianza in Campania e Basilicata di villa di lusso costiera del tardo impero.”. Dunque, nel mio studio citavo lo scrittore antico Orosio e Honingman. Riprendendo la postilla di Nicola Corcia (…), sull’Antonini e la Molpa, il barone Giuseppe Antonini (…), a pp. 377-378-379 riferendosi alla città di Molpa, in proposito scriveva che: “Ebbe questa picciola Città l’onore di essere stata scelta dall’Imperador Massimiano Erculeo, padre di Massenzio per luogo di riposo, di quiete e di ozio, dopo che rinunziato l’Impero, doveva (2) vivere a se stesso: E quì stavasene, allora che i soldati Pretoriani elessero Imperadore suo figlio: “Costantino in Galliis strenuissime Remp. procurante, Praetoriani milites Romae Maxentium filium Erculii, qui privatus in Lucania morabatur, Augustum nuncupaverunt”, dice Orosio nel lib. 7 ed Eutropio avealo più distintamente scritto nel cap. 2. del lib. 10: “Romae interea Praetoriani, excitato tumultu, Maxentium Herculii filium, qui haud procul ab Urbe in villa publica morabatur, Augustum nuncupaverunt. Quo nuntio Maximianus Herculius ad spem erectus resumendi fastigii, quod invitus amiserat, Romam advolavit e Lucania, quam sedem privatus elegerat, in agris amoenissimis consenescens.”. Dunque, l’Antonini scriveva che Orosio nel suo Libro 7 ed Eutropio nel cap. 2 del Libro 10 scrivevano che: “Nel frattempo a Roma i Pretoriani, avendo fatto tumulto, chiamarono Augusto, figlio di Massenzio, figlio di Ercole, che abitava non lontano dalla città in una villa pubblica. Per mezzo di questo messaggero Massimiano Erculio, eretto nella speranza di riconquistare l’alta posizione, che a malincuore aveva perduto, volò a Roma dalla Lucania, che aveva scelto come residenza privata;”. Antonini continuando il suo racconto scriveva ancora che: “Zosimo nel lib. 2 quasi con le parole stesse il fatto ci narra: “His intellectis (tradotto) Maximinianus Erculius pro filio Maxentio, non abs re follecitus, Lucania relicta, in qua morabatur, Ravennam (in questo solo discorda) contendit.”. La monca citata ‘Cronaca di S. Mercurio chiaramente ci dice, che quì anche Massenzio con suo padre ritirato si fosse, poichè parlando di un fatto occorso in Bussento, ecco come scrive: “Hic (cioè in Bussento) usque ad praesentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natos est, Imperator Severus Libius, & ejus avus, fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad abitaculum elegerat postquam renunciavit Imperium.”. Ecc..”. Il barone Giuseppe Antonini (…), citato da Nicola Corcia, a pp. 377-378-379 riferendosi alla città di Molpa, dopo aver detto degli Imperatori Massimiliano Erculeo e di suo figlio Massenzio alla Molpa, citava un brano tratto dalla “Cronaca di S. Mercurio” dove si parlava dell’Imperatore Libio Severo a Bussento e scriveva che: La monca citata ‘Cronaca di S. Mercurio chiaramente ci dice, che quì anche Massenzio con suo padre ritirato si fosse, poichè parlando di un fatto occorso in Bussento, ecco come scrive: “Hic (cioè in Bussento) usque ad praesentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natos est, Imperator Severus Libius, & ejus avus, fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad abitaculum elegerat postquam renunciavit Imperium.”. ecc..”. Dunque, l’Antonini segnalava che il monaco di S. Mercurio nella sua “Chronica”, in proposito scriveva della villa dell’Imperatore Libio Severo in Bussento che: “Hic (cioè in Bussento) usque ad praesentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natos est, Imperator Severus Libius, & ejus avus, fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad abitaculum elegerat postquam renunciavit Imperium.”, ovvero che: “Qui ancora oggi è esposta una casa fatiscente, dove nacquero i figli, l’imperatore Severo Libio, e suo nonno, amico intimo dell’imperatore Ercole, che aveva scelto Melpa come dimora dopo aver rinunciato all’impero.”. Dunque, secondo il monaco cronista della ‘Cronaca di S. Mercurio’ è a Bussento che nacquero i figli dell’Imperatore Massenzio, l’imperatore Severo Libio, e suo nonno, amico intimo dell’imperatore Ercole, che aveva scelto Melpa come dimora dopo aver rinunciato all’impero. Nel 1882, il sacerdote Rocco Gaetani (…), consegnava alle stampe il suo primo studio, dal titolo:  “L’antica bussento, oggi Policastro-Bussentino, la sua prima sede episcopale, studio storico-critico del sacedote Rocco Gaetani” (…), a p. 15, in cui ci parla dell’antica Bussento (Buxentum), citando un passo della ‘Cronaca di S. Mercurio” ed in proposito, riferendosi all’Antonini che voleva la Molpa fosse l’antica Buxentum scriveva che: “Allega poi, ma forse ci sta a pigione, un frammento della Cronaca di san Mercurio: “Hic (parlando del Bussento) usque ad praesentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natos est, Imperator Severus Libius, & ejus avus, fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad abitaculum elegerat postquam renunciavit Imperium. (12)”. Ma il cronista, riferendo l’hic al Bussento, par che distingua piuttosto due luoghi, dicendo che nell’uno (al Bussento) vedeansi i ruderi della casa in cui nacque l’Imperatore Libio Severo, e nell’altro (alla Molpa) erasi ritirato l’imperatore Massimiano. Ecc..”. Ecco ciò che scriveva il Gaetani sul passo del Cronicon di S. Mercurio e sulle tesi dell’Antonini. Sul chronicon del “monaco di S. Mercurio”, citato dall’Antonini (…) e nel chronicon di Luca Mannelli (…), ha scritto anche il parroco di Centola Giovanni Cammarano (…). Il Cammarano (…), a p. 15, traendo alcune notizie dalla “Cronica” manoscritta e dei suoi frammenti rimasti dell’abate Mercurio 1° e, riferendosi a colui che chiama “Venceslao 1°”, Abate dell’Abbazia di S. Maria di Centola scriveva  che: E’ lui infine ad informarci nelle sue cronache che alla Molpa nacquero due Imperatori romani, Massimiliano e suo figlio Massenzio. Ecc…”. Dunque, secondo il Cammarano, a Molpa nacquero due Imperatori romani, Massimiliano Erculeo e suo figlio Massenzio. Secondo Orosio, l’Imperatore romano Massimiano Erculeo, dopo aver abdicato, nell’anno 305 d.C. (IV sec. d.C.) si ritirò nella sua villa in Lucania e, un anno dopo, nel 306 d.C., suo figlio Massenzio ricevette la notizia della sua acclamazione ad Imperatore dell’Impero. Marco Aurelio Valerio Massenzio (in latino: Marcus Aurelius Valerius Maxentius; 278 – Roma, 28 ottobre 312) è stato un imperatore romano autoproclamato, che governò l’Italia e l’Africa tra il 306 e il 312; ebbe il riconoscimento del Senato romano ma non quello degli augusti Galerio e Severo (da lui fatto uccidere), che riconosceranno Costantino mentre Massenzio l’otterrà anche tramite la forza militare, per cui è considerato da molti un usurpatore. Figlio dell’imperatore Massimiano, coregnante di Diocleziano, e di Eutropia. Marco Aurelio Valerio Massimiano Erculeo, padre dell’Imperatore Massenzio è noto più semplicemente come Massimiano (in latino: Marcus Aurelius Valerius Maximianus Herculius; Sirmio, 250 circa – Massilia, luglio 310), è stato cesare privo di tribunicia potestas (dal luglio 285) e poi augusto (dal 1º aprile 286 al 1º maggio 305) dell’Impero romano. Condivise quest’ultimo titolo con il suo amico, co-imperatore e superiore Diocleziano, le cui arti politiche erano complementari alle capacità militari di Massimiano. Stabilì la propria capitale a Milano, ma passò gran parte del proprio tempo impegnato in campagne militari. Riguardo il suo ritiro su wikipedia leggiamo che: Il 1º maggio 305, in cerimonie separate a Mediolanum e Nicomedia, Diocleziano e Massimiano lasciarono il potere contemporaneamente; la successione, però, non andò esattamente come Massimiano aveva sperato, in quanto, forse per l’influenza di Galerio, i nuovi cesari furono Severo e Massimino, con l’esclusione dunque di Massenzio. Entrambi i nuovi cesari avevano delle lunghe carriere militari ed erano vicini a Galerio: Massimino era suo nipote e Severo un suo vecchio collega nell’esercito. Massimiano rimase subito contrariato dalla nuova tetrarchia, che vide Galerio assumere la posizione dominante già ricoperta da Diocleziano; sebbene Massimiano avesse diretto la cerimonia che aveva proclamato cesare Severo, in due anni l’augusto ritirato era divenuto talmente insoddisfatto da sostenere la ribellione del figlio Massenzio contro il nuovo regime. Diocleziano si ritirò nel suo nuovo palazzo costruito vicino a Salona, nella sua terra natale, la Dalmazia; Massimiano scelse invece delle ville in Campania o Lucania, dove visse una vita di agi e lussi (125). Sebbene lontani dai centri politici dell’impero, Diocleziano e Massimiano rimasero in contatto regolare tra loro. Nella nota (125) si postillava che: Barnes, Constantine and Eusebius, p. 27; Southern, p. 152.”. Alcune notizie storiche che riguardano i due Imperatori Romani, Massimiano Erculeo e suo figlio Massenzio rientrano nelle notizie storiche che riguardano l’antica città scomparsa della “Molpa”, città di fondazione greca e poi Romana. Angelo Di Mauro (…), nel suo ‘I sette sentieri della memoria , luoghi e leggende ecc..’, rifacendosi quasi in tutto al Cammarano (…), a pp. 574-575, parlando di Centola, ci dice della Molpa che: “Molpa o Melpi o Malfa o Melfa o Melopa o Molfa, detta La Molpa seu Valla,……….Nel borgo nacque l’Imperatore Massimiliano e suo figlio Massenzio; Livio Severo (461-465) vi possedeva una villa; ecc…”. Molpa viene rifondata in epoca romana per ragioni difensive: viene munita difatti di stazioni di osservazioni per l’avvistamento di navi cartaginesi. Successivamente la zona fu anche scelta come residenza estiva da diverse famiglie patrizie e, secondo la leggenda, fu anche dimora dell’imperatore Massimiano, che dopo la rinuncia all’impero avvenuta nel 305 d.C. scelse di abitare in questa terra per la bellezza dei luoghi e la bontà dei vini prodotti nella zona. Rifacendosi agli antichi scritti di Eutropio ed Orosio, lo storico settecentesco barone Giuseppe Antonini aveva erroneamente ipotizzato che le ossa rinvenute nella grotta potessero appartenere alle vittime di due terribili naufragi di flotte romane avvenuti nei paraggi di Capo Palinuro:

  • il primo naufragio avvenuto nel 253 a.C. durante la prima guerra punica, in cui colarono a picco ben 150 delle 250 navi agli ordini dei consoli Gneo Servilio Cepione e Gaio Sempronio Bleso;
  • il secondo naufragio avvenuto nel 36 a.C., quando la flotta di Ottaviano, diretta in Sicilia, fu sorpresa in questo braccio di mare e perse alcune navi.

Il barone Giuseppe Antonini (….), nella sua “La Lucania – Discorsi” riguardo la notizia della Molpa, cita anche il Chronicon dell’‘Anonimo Salernitano‘, ovvero il cosiddetto “Chronicon Salernitanum”. L’Antonini (…), continuando il suo racconto sulla Molpa, a p. 368, scriveva che: “Se in parte creder si deve all”Anonimo Salernitano’, per quanto nella sua ‘Cronaca’ scrive, diede questa Città colla stessa diversità dè nomi il suo, anzi il principio, e la fondazione ad Amalfi, Città da se chiarissima. Dice il ‘Cronista’, che partite da Roma alcune ragguardevoli famiglie per andare ad abitare nella frescamente ristorata Costantinopoli, furono colle navi da tempesta in Ragusa portate: ed indi dopo alcun tempo obbligate colle navi stesse a fuggire: ‘Ac ubi (continua a dire) Italiam adierunt, veneruntque in locum, qui Melfis dicitur. (In altri manoscritti si legge Melpii) Ibi multo tempore postea sunt demorati, & inde sunt Melfitani vocati; locus enim dedit nomen illis.”. L’Antonini (…), a p. 370, cita l’‘Anonimo Salernitano’ che nel suo manoscritta ‘Chronicon‘, voleva che gli abitanti di Molpa, avessero fondato Amalfi e Ravello. L’episodio raccontato dall’‘Anonimo Salernitano’ (…), viene citato anche da Pietro Ebner (…) che, nel suo vol. II, del suo ‘Chiesa, baroni e popoli del Cilento’, e a pp. 171-172, parlando della Molpa, in proposito scriveva che: “Il ‘Chronicon Salernitanum’ (11) dice di alcune famiglie romane in viaggio per l’Oriente sbattute dalla tempesta a Ragusa e poi giunte a Molpa, da dove sarebbero ripartite per fondare Amalfi.”. Ebner, a p. 171, nella sua nota (11), postillava che: “(11) Il ‘Chronicon salernitanum’ dice di alcune famiglie romane in viaggio per Costantinopoli e sbattuti dalla tempesta a Ragusa da dove furono costretti a fuggire. ‘Ac ubi Italiam adierunt veneruntque in locum qui Melfis (ma anche Melpii) dicitur. Ibi multo tempore postea sunt demoratii, et inde sunt Malfitani vocati. Locus enim dedit nomen illis. F. Ughelli (cit., IX, p. 235), da una croce …..”. Dunque, l’Antonini cita anche Ferdinando Ughelli (…) e la sua “Italia Sacra”, tomo IX, p. 235. L’Antonini (…), cita l’“Anonimo Salernitano”, una ‘Chronaca’ spuria manoscritta e, a p. 370, in proposito scriveva che: “….le frequentissime incursioni dè Goti, e d’altri nuovi barbari, e le desolazioni, che verso Toscana, e del Lazio quelli facevano, fossero andati a ricoverarsi a Molpa, luogo allora meno à pericoli esposto, e che di là nuovamente cacciati, per trovare più sicuro ricetto, venuti fossero a fondare Amalfi, Ravello, e Scala: o pure che avendo Belisario ruinata questa Città, parte dè Molpitani fuggiti dalla desolazione di lor patria, fossero venuti ad edificare Amalfi. Ha forse questo una miglior aria di vero, senza che pretenda esser creduto; e che comunque sia, o prima, o dopo, tutti hanno indubitato, che dalla Molpa, detta ‘Melpes Palinuri’ nella ‘Cronaca’, i fondatori d’Amalfi siano venuti.”. L’Antonini non scrive solo della fondazione dell’antica città scomparsa di “Amalphi” ma aggiunge anche le notizie sulle frequentissime incursioni dei Goti. Ma non è questo il passo dell’Antonini che ci parla dei due Imperatori romani. Lo storico Matteo Camera, nel suo ‘Istoria della città e costiera di Amalfi’, pubblicato a Napoli nel 1836 a p. 10, parlando delle origini della città di Amalfi, citavo interessanti notizie sulla Molpa e su un’antico casale di Amalfi li vicino sorto ed in proposito scriveva che: Questa città di Molpa o Melfi nel seno di Palinuro fu totalmente dà barbari distrutta. Al presente però è osservabile colà nelle rupe meridionale una grotta appellata ‘la grotta delle ossa’, dove si vede un cumulo di ossa umane pietrificate e riunite insieme da una materia gessosa stillata dalle viscere del monte superiore. Il dottore Antonini (2) opina che le ossa ammonticchiate in quella grotta furono quelle dè naufraghi Romani di ritorno dall’Africa con 150 navi sotto il Console di S. Servinio Servilio Cepione, e di C. Sempronio Bleso (Orosio lib. 4 cap. 9.) che per ordine di Ottaviano furono ivi riposte. Ecc…”. Dunque, Matteo Camera, sulla fondazione dell’antica città di Amalfi citava l’Antonini che a sua volta citava il libro IV, capitolo IX di Orosio (….). In verità devo precisare che l’Antonini cita Orosio ma quando parlando di Molpa ci parla di alcuni naufragi di alcune flotte Romane. Pietro Cantalupo (…), nel suo “Acropolis”, nel vol. I, nel suo “Medioevo – I Le ivasioni barbariche”, a p. 57, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Molpe, da identificarsi con le rovine di un centro abitato, non molto esteso, sito tra i fiumi Lambro (antico ‘Melpie’) e Mingardo,……Secondo EUTROPIO (IX, 27) nel 305 d.C. vi si ritirò Massimiano Erculeo, collega di Diocleziano, quando abdicò all’Impero. Ecc..”. Dunque, secondo il Cantalupo (…), fu Eutropio nel libro IX, cap. 27 che nell’anno 305 d.C. a Molpa si fosse ritirato l’Imperatore Massimiano Erculeo, dopo aver abdicato al collega Diocleziano. Il viaggiatore scozzese Craufurd Tait Ramage (….), nel suo ‘Viaggio nel Regno delle Due Sicilie, Roma, De Luca, 1966, pp. 104-109. Nell’edizione dell’Ippogrifo a cura di Raffaele Riccio ma posso segnalare anche la ristampa pubblicata per i tipi di Galzerano. Nella mia edizione, a pp. 129, Craufurd scriveva che: E’ ancora curioso notare che, quattrocento anni dopo la loro collocazione, Buxentum abbia dato i natali ad un altro imperatore, Severo Libio, il quale regnò dal 461 al 465 d.C. Un antico cronista del IX secolo narra: “In Buxentum, usque ad presentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natus est imperator Severus Libius, et eius avus fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad habitaculum elegerat postquam renunciavi imperium”. (7). Possiamo tradurre le sue parole nel modo seguente: “Nella città di Buxentum si vedono ancora oggi le rovine della casa in cui nacque l’imperatore Severo Libio; l’avo di questi era amico dell’imperatore Ercole Massimiano, che decise di risiedere a Molpa dopo aver abdicato”.”. Il Ramage si riferiva al passo del Chronicon del monaco di S. Mercurio di cui l’Antonini pubblicò alcuni passi parlando della Molpa. Il Ramage a p. 130, nella sua nota (7) postillava che: “(7) L’imperatore Massimiano era soprannominato Ercole, dopo l’abdicazione fu alleato e collega di Massenzio. Si suicidò nella città di Marsiglia ecc..”.

Nel IV sec. d.C., Macrobio nei suoi “Saturnali” cita lo scrittore antico “Pestano” cittadino di Vibone

Il barone Giuseppe Antonini (….), nella sua ‘Lucaniadiscorsi’, ed. Tomberli, Napoli, 1795, Parte II, disc. XI, p. 428, del Discorso XI, nella sua prima edizione del 1745 (ed. Gessari) parlando di ‘Vibone’ scriveva che: Fu cittadino di ‘Vibone’, Pestano, antico scrittore, di cui ‘Macrobio’ nè ‘Saturnali’ al lib. 6 fa menzione. Verisimilmente il porto dè Vibonesi doveva esser quello di ‘Sapri’, lontano dalla terra circa un miglio, e mezzo, ed i grandi ed antichissimi avanzi di fabbriche, che in esso sono, mostrano, ecc…”. Dunque, l’Antonini scriveva che Macrobio (…), nella sua opera “Saturnali” (libro 6) citava lo scrittore antico “Pestano” che fu cittadino di Vibone. Antonini non dice nulla di più. E’ una notizia interessante che dobbiamo ulteriormente indagare. Su questo cittadino di “Vibone” detto “Pestano” e citato dall’Antonini ha scritto Lorenzo Giustiniani, nel suo “Dizionario geografico ecc…”, alla voce “BONATI, o Libonati”, a pp. 313-314-315, vol II, in proposito scriveva che: “Ne’ Quinternioni ella è detta ‘Bonati’, seu ‘Bonatorum’, e li ‘Bonati’, o Libonati’, come nelle situazioni del 1648 e 1669, e mai ‘Vibonati’ secondo si vuole appellare da ‘Giuseppe Antonini’, e che in latino detta si fosse nell’antichità ‘Vibo ad Sicam’, o ‘Siccam’, da un’unisoletta, che le sta all’incontro poche miglia all’oriente di ‘Maratea’, anche addì nostri chiamata ‘Sicca’ a differenza di ‘Vibo Valentia’, ch’è ‘Monteleone’, detto già ‘Ipponium’, o ‘Hypponium’ (1). ‘Pasquale Magnoni’ (2), e l’eruditissimo ab. D. Francescantonio Soria’ (3) rilevarono però questa svista dell’Antonini, poichè siccome per passo di ‘Cicerone’ (4), che prima della correzione ‘Granoviana’ corrottamente leggeasi in ‘Macrobio’ (5), il dotto ‘Barrio’ (6) dè golfi ‘Pestano’, e ‘Vibonese’ coniò uno scrittore col nome di ‘Pestanus Vibonensis’, che poi fu seguito da tutti gli altri scrittori ‘Calabresi’, a segno, che il P. Amato (7) avvisò che questo personificato golfo fosse stato poeta, oratore, ed anche filosofo per aver scritto un trattato ‘de ventis’ (8), per cui con molta lepidezza il suddivisato ‘Soria’ gli dice che ecc..ecc…”. Insomma, il Soria dà torto all’Antonini. Il Giustiniani a p. 313, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Magnoni, letera critica al Barone Antonini, p. 22”. Il Giustiniani a p. 313, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Soria, Lettera intorno alle sviste di alcuni autori, nel vol. LXXV, del Giornale Letterati di Napoli “. Il Giustiniani a p. 313, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Ciceron. Ad Atticum, l. 16, epist. 6”. Il Giustiniani a p. 313, nella sua nota (5) postillava che: “(5) Macrobio, Saturnali, lib. 6, cap. 4 “.  Il Giustiniani a p. 313, nella sua nota (6) postillava che: “(6) Barrio, De antiquit. de situ Calabrie, lib. 2, cap. 12 “. Il Giustiniani a p. 313, nella sua nota (7) postillava che: “(7) Amato nella sua ‘Pantopologia Calabra’ “. Il Giustiniani a p. 313, nella sua nota (8) postillava che: “(8) Si legga la lettera del mio dotto amico D. Michelangelo Macrì nel vol. LIX, del citato Giornale dei Letterati di Napoli “

giustiniani, p. 313

giustiniani, su vibonati, 314

(Figg…) Lorenzo Giustiniani (…), su ‘Bonati’, vol. II, pp. 313-314-315

Macrobio visse nel IV secolo d.C.., ma, lo scrittore antico che l’Antonini chiama “Pestano” non si è capito chi fosse. Vediamo ora il Libro 6 dei ‘Saturnali’ dove l’Antonini scrive che Macrobio lo cita. Ambrogio Teodosio Macrobio (in latino: Ambrosius Theodosius Macrobius; 385 circa – 430 circa) è stato uno scrittore, grammatico e funzionario romano del V secolo. Studioso anche di astronomia, sostenne la teoria geocentrica. I Saturnalia, la sua opera principale, sono un dialogo erudito che si svolge in tre giornate, raccontate in sette libri, in occasione delle feste in onore del dio Saturno. L’opera ha un carattere enciclopedico ed è centrata principalmente sulla figura di Virgilio, anche se i suoi contenuti spaziano dalla religione alla letteratura e alla storia fino alle scienze naturali. Macrobio contribuì significativamente all’esegesi dell’Eneide e dell’opera di Virgilio più in generale; inoltre è grazie a lui se ci sono pervenuti frammenti di vari autori famosi, tra i quali spiccano Ennio e Sallustio, e se si è mantenuto il ricordo di poeti meno conosciuti come Egnazio e Sueio. Gli argomenti sono molto vari: dal nome e dall’origine dei Saturnali si passa a discutere degli antichissimi culti italici (libro I), poi di motti e sentenze celebri (libro II), uno dei quali sposterà la conversazione su Publio Virgilio Marone. È questa la parte più ampia e la più sentita (libro III-VI). Si discorre di passi difficili e controversi, della superiorità rispetto ad Omero dei rapporti fra Eneide e poesia latina arcaica ecc. e si conclude con discussioni sugli insulti e su risposte a vari quesiti quale il famoso: è nato prima l’uovo o la gallina? (Ovumne prius fuerit an gallina?) (libro VII però incompleto). Assai raramente Macrobio accenna alle proprie fonti immediate, tra le quali furono senza dubbio Aulo Gellio e Plutarco, forse Varrone. Riguardo ai ‘Saturnalia‘ di Macrobio vorrei citare una citazione del sacerdote Luigi Tancredi (….), che nel 1978, nel suo “Le città sepolte nel Golfo di Policastro”, a p. 47 parlando dei passi di Diodoro Siculo (nel Libro XI, pp. 471-72) che parlava di Micito, signore di Reggio e di Zancle che si dice avesse fondato la città di Pixunte (Pyxous), il Tancredi scriveva che: “Conferma la proibità di Micito la Macrobio in “Saturnal. 11: “Anaxilas Messenus, qui Messanam in Sicilia condidit, fuit Reginorum tyrannus. Is quum parvulos relinqueret liberos, Micytho servo suo commendasse contentus est ecc.. Anassilao messeno, che fondò Messina di Sicilia, fu tirannodi Reggio. Egli, allorchè lasiò i figliuoli piccoli, chiese istantaneamente che fossero affidati al suo servo Micito. Questi ne curò coscienziosamente la tutela: e con tanta clemenza ottenne il governo, che i Regini non disdegnavano (di essere comandati) da un servo del Re. Quando i fanciulli ebbero raggiunta l’età, affidò loro il supremo comando e i beni; ed egli raccolse le poche cose occorrenti per il viaggio, partì e con somma tranquillità invecchiò in Olimpia.”. Il passo di Macrobio citato da Tancredi è interessante ma a me pare strano che egli abbia scritto “Saturnal. 11”, in quanto i libri contenuti nei Saturnalia di Macrobio sono 7 e non 11. Tuttavia, se la notizia e la citazione del Tancredi è veritiera è la riprova che nei ‘Saturnalia’ Macrobio raccontava anche dell’antichissima città di “Pixunte” che gli storici dicono essere fondata da Micito di Reggio e, quindi la citazione dell’Antonini può essere corretta.

SAPRI NEI SECOLI BUI DEL MEDIOEVO

Dal ‘440 al ‘460 d.C. (V sec. d.C.), i  Vandali d’Africa di Genserico

Con la progressiva e definitiva dissoluzione dell’Impero romano e, la caduta degli ultimi Imperatori romani, tutta l’Italia fu interessata da continue guerre ed invasioni di popolazioni ‘barbariche’. Le invasioni degli Unni, Ostrogoti, Visigoti, i Vandali di Genserico e, gli Arabi, produssero sulle popolazioni già stremate, devastazione, pestilenze e, carestie. In questi secoli, anni bui del medioevo, i pochi centri costieri del ‘Cilento’ si desertificarono, restando dei piccoli villaggi di pescatori e ove talvolta, come è il caso di Sapri e Policastro, avevano un porto. E’ dubbia la notizia secondo cui i Vandali stabilitisi nell’Africa settentrionale nel 429 con Genserico dopo avere occupato Lilibeo in Sicilia, invasero i nostri mari e nel 440 sbarcarono a Policastro e la saccheggiarono. Le invasioni barbariche, tra cui quelle dei Vandali con Genserico nel 440 d.C., ne distrussero le memorie (….). Genserico (o Gaiserico o Gianserico; Saline, circa 390 – Cartagine, 25 gennaio 477) è stato re dei Vandali e degli Alani (428 – 477), prima nella penisola iberica e poi in Africa. Fu una delle figure chiave dell’ultimo e tumultuoso periodo di vita dell’Impero romano d’Occidente (V secolo). Condusse i Vandali, gli Alani e una parte di Visigoti sbandati dalla penisola iberica al Nordafrica, fondando un regno che in pochi anni trasformò un “insignificante” popolo germanico in una delle maggiori potenze mediterranee; nel 455 guidò i Vandali nel Sacco di Roma. Genserico rimase signore incontrastato del Mediterraneo occidentale fino alla sua morte, regnando dallo stretto di Gibilterra alla Tripolitania. Morì il 25 gennaio del 477, all’età di 87 anni (77 secondo alcune fonti), a Cartagine. Pietro Cantalupo (…), nel suo “Acropolis”, nel vol. I, nel suo “Medioevo – I Le ivasioni barbariche”, a pp. 49 e ssg, in proposito scriveva che: “Danni ben peggiori subirono invece le coste dell’Italia meridionale ad opera dei Vandali di Genserico: impadrotisi di Cartagine e saldamente piantati sulle coste africane dall’Atlantico alla Cirenaica, spedirono, a partire dal 439, numerose ed agguerrite flotte contro le isole ed i litorali italiani, prendendo particolarmente di mira la Sicilia, il Bruzio, la Lucania e la Campania. Un pericoloso assalto portato proprio alle coste della Campania nel 457 fu respinto dall’imperatore Maggiorano, che nel 460 riuscì anche a comporre una pace con Genserico. Ecc..”. Amedeo La Greca (….), nel suo “Storia del Cilento”, nel cap. VIII – I Barbari, a p. 122 e ssg, in proposito scriveva che: “Se il Cilento allora risultò salvo da quei saccheggi, fu invece investito alcuni decenni più tardi dalle scorrerie dei Vandali di Genserico che si erano stanziati sulle coste dell’Africa. Da qui, via mare, a partire dal 439, essi assalirono le coste della Sicilia, della Calabria e della Lucania, provocando la quasi totale scomparsa dei piccoli insediamenti costieri e la dispersione di gran parte degli abitanti, molti dei quali, catturati fiirono venduti come schiavi. Licosa, Erculam, Sapri, Velia, Bussento furono saccheggiate tra il 440 e il 460; le prime non si ripresero più, mentre i sopravvissuti di Velia e Bussento, stretti attorno all’unica autorità capace di coordinare la vita sociale, il vescovo cristiano, continuarono la loro esistenza ai margini della sopravvivenza.”. Il sacerdote Luigi Tancredi (….), nel suo “Le città sepolte del golfo di Policastro”, nel 1978, nel suo cap. “5. Invasioni barbariche e distruzioni: Vandali, Visigoti, Longobardi”, a p. 17 in proposito scriveva che: “Nel 440 ‘Genserico’, re dei Vandali, avrebbe di nuovo distrutto Buxentum. Questa volta la notizia non può venire accettata. Genserico prese nel 439 la città di Cartagine, poi s’imbarcò verso Lilibeo (l’odierna Marsala) e quella volta non mise più piede nell’Isola Meridionale, fino al 455. Se in base alle date di nostra conoscenza possiamo escludere la distruzione di Buxentum dai Vandali nel 440 (29) e riteniamo poco probabile la distruzione da parte dei Visigoti di Alarico, non possiamo con altrettanta sicurezza ragionare sulla presunta distruzione da parte dei ‘Longobardi di Alboino’ fra il 40 e il 650 . La data non coincide affatto, perchè Alboino morì verso il 572. Il re in questione potrebb’essere ‘Rotari’, ma poco importa perchè nessuno dei re Longobardi esercitava un reale potere nel beneventano.”. Il Tancredi, a p. 17, nella sua nota (29) postillava che: “(29) Ghisleri Arcangelo, op. cit., Tav. III, p. 14.”. Il Tancredi si riferiva all’opera di Arcangelo Ghisleri (…), Testo-Atlante di Geografia Storica, Medio Evo, Arti Grafiche Bergamo, 1952, tav. III, p. 14.  Piero Cantalupo (…), nel suo “Acropolis”, nel vol. I, nel suo “Medioevo – I Le ivasioni barbariche”, a pp. 49 e ssg, riferendosi alla pace stipulata con Genserico dall’Imperatore Maggiorano, in proposito scriveva che: “Questa però non andò oltre l’anno successivo; mentre Recimero faceva uccidere lo stesso Maggiorano ed elevava al soglio imperiale Libio Severo ‘lucano’ (nov. 461 – sett. 465), che, stando ad una tarda testimonianza, era di Bussento (1), si rinnovarono lungo i litorali tirrenici gli assalti dei Vandali. “Ogni anno – scriveva il contemporaneo Sidonio Apollinare – i furori del Caucaso si scatenarono sull’Italia dalle cocenti spiagge della Libia” (2). L’antica città etrusca di Marcina, presso Salerno, fu distrutta (3), il tratto costiero fra il Sele ed il Golfo di Policastro subì frequenti sbarchi, che provocarono, oltre alla scomparsa di numerosi centri abitati minori, la disperazione di gran numero degli abitanti, che in parte si rifugiarono all’interno del territorio, in parte subirono il destino di essere venduti come schiavi di Africa. Stante la scarsità delle fonti non è possibile determinare con esattezza i danni prodotti dalle incursioni vandaliche sulle nostre aree litoranee; sembra però che gli insediamenti urbani protetti da validi circuiti di mura abbiano allora evitato la distruzione, per cui, al pari di Salerno, anche Velia, Molpe (4) e Bussento uscirono pressocchè indenni da quella generale rovina ecc….”. Il Cantalupo, a p. 50, nella sua nota (2) postillava che: “(2) ROMANO / SOLMI, Le dominazioni barbariche etc…, cit. p. 90.”. Il Cantalupo citava il testo di Romano G. e Solmi A. (….), Le dominazioni barbariche in Italia (395 = 888), ed. Vallardi, Milano, 1940. I due studiosi Romano G. e Solmi A., nel loro Le dominazioni barbariche in Italia (395 = 888), nel 1940, riferendosi agli anni successivi al 442 così scrivevano a p. 90: “Padroni di Cartagine, dominarono sulle coste dell’Africa dall’Atlantico alla Cirenaica, ed allestirono flotte numerose ed agguerrite, con cui sparsero il terrore del loro nome per tutto il Mediterraneo e ne assoggettarono le isole. E l’Italia, come era da aspettarsi, fu il paese che più ebbe a sofrirne. Gli assalti contro la Sicilia, l’assedio di Palermo, i frequenti sbarchi sulla Lucania, che avvennero negli anni successivi, furono gli effetti immediati della nuova potenza sorta sulla costa africana.”. Il Cantalupo, a p. 50, nella sua nota (3) postillava che: “(3) MARCINA è da identificarsi con Vietri sul Mare, piuttosto che con l’abitato etrusco-campano messo in luce dagli scavi archeologici presso Fratte di Salerno, nel quale va riconosciuta IRNA (in evidente relazione con il fiume Irno che ivi scorre), a cui sono da iferirsi le monete con l’iscrizione YRINA, comunemente attribuite a Nola (v. V. Panebianco, in la Parola del Passato, CVIII-CX (1966), pp. 245 sgg). Sulla distruzione di Marcina vedi CASSIODORO, Chronica, II, 156”. Il Cantalupo, a p. 50, nella sua nota (4) postillava che: “(4) Su Molpe v. n. 2, p. 57. Dunque, riguardo quel periodo storico e le incursioni dei Vandali di Genserico che funestarono le nostre coste l’antica, il Cantalupo, riferendosi alla città scomparsa di Molpa scriveva che: “Stante la scarsità delle fonti non è possibile determinare con esattezza i danni prodotti dalle incursioni vandaliche sulle nostre aree litoranee; sembra però che gli insediamenti urbani protetti da validi circuiti di mura abbiano allora evitato la distruzione, per cui, al pari di Salerno, anche Velia, Molpe (4) e Bussento uscirono pressocchè indenni da quella generale rovina che in qualche modo ebbe ripercussioni deleterie su Paestum. Ecc…”. Dunque, il Cantalupo scriveva che Velia Molpe e Bussento, essendo insediamenti urbani protette da alte e possenti mura (forse centri fortificati in passato) si salvarono dalle orde vandaliche di Genserico.  Il Cantalupo, a p. 57, nella sua nota (2) postillava che: “(2) Molpe, da identificarsi con le rovine di un centro abitato, non molto esteso, sito tra i fiumi Lambro (antico ‘Melpie’) e Mingardo, ebbe nome dall’omonima sirena (Strabone, I, 22 = 2, 12). Le sue origini sono da porsi almeno nel VI secolo a.C., quando appare essere uno scalo sibaritico come la vicina Palinuro, con la quale coniò in comune una moneta incusa con la leggenda: PAL / MOL. Secondo EUTROPIO (IX, 27) nel 305 d.C. vi si ritirò Massimiano Erculeo, collega di Diocleziano, quando abdicò all’Impero. Fortificata dai Goti e distrutta da Belisario (cfr. Antonini, cit., pp. 372-373), sembra che abbia subito un saccheggio da parte dei Saraceni nel 1113 (Antonini, ibidem). Il geografo arabo Edrisi la menziona tra il 1139 ed il 1154 con il nome di ‘Molva’ indicandola a 24 miglia da Policastro. Quando, nella seconda metà del XV secolo fu definitivamente distrutta dai corsari Turchi, i suoi abitanti fondarono il casale di S. Serio (cfr. A. Silvestri, La popolazione del Cilento nel 1489, Salerno, 1956, p. XIII.”. Piero Cantalupo a p. 50 continuando il suo racconto scriveva che Paestum: “la rovina che in qualche modo ebbe ripercussioni deleterie su Paestum. La città infatti vide un’accentuarsi delle sue condizioni già critiche: la totale ed accertata scomparsa della circolazione monetaria (5) non potè non corrispondere ad una consistente diminuzione dei traffici e ad un conseguente, ulteriore e sensibile calo demografico. Gli assalti diretti alle sue mura certamente non mancarono quando i Vandali corsero a saccheggiare ed a distruggere per tutto l’entroterra pestano quella serie di abitati satelliti che costituivano la linfa vitale della città e ne permettevano la sopravvivenza pur nella sua estrema decadenza (6); ma un ruolo decisivo giocò anche il terrore, che, immobilizzando gli abitanti entro le mura urbane, a Paestum come altrove, determinò la più completa paralisi delle attività economiche e commerciali, al pari di quanto sarebbe accaduto quattro secoli più tardi, a seguito delle incursioni dei Saraceni. Ecc..”. Il Cantalupo, continuando il suo racconto sulle incursioni dei Vandali di Genserico scriveva che: “Gli abitati costieri non protetti da consistenti impianti difensivi scomparvero letteralmente, distrutti o abbandonati: sicché quale fu la sorte dei centri nella campagna pestana, tale fu quella del villaggio di S. Marco di Castellabate (1), del fondaco del Saùco, presso punta Tresino, e di ‘Erculam’, il ‘vicus’ di S. Marco di Agropoli…….(p. 52) Le incursioni vandaliche durarono fino al 475, quando Romolo Augustolo, l’ultimo Imperatore di Roma, riconoscendo a Genserico il possesso della Sicilia, che i barbari avevano conquistata nel 468, ottenne che questi non molestassero più le coste d’Italia.”. Il Cantalupo, a p. 50, nella sua nota (5) postillava che: “(5) Le monete antiche sono attestate a Paestum fino all’imperatore Arcadio (395-408) . Il Cantalupo, a p. 50, nella sua nota (6) postillava che: “(6) V. p. 44. Il Cantalupo, a p. 51, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Il villaggio romano dell’odierna S. Marco di Castellabate etc….. Amedeo La Greca (….), nel suo “Storia del Cilento”, nel cap. VIII – I Barbari, a p. 122 e ssg, in proposito scriveva che: Licosa, Erculam, Sapri, Velia, Bussento furono saccheggiate tra il 440 e il 460; le prime non si ripresero più, mentre i sopravvissuti di Velia e Bussento, stretti attorno all’unica autorità capace di coordinare la vita sociale, il vescovo cristiano, continuarono la loro esistenza ai margini della sopravvivenza.”. Dunque, Amedeo La Greca scriveva che tra il 440 ed il 460 i Vandali di Genserico saccheggiarono Licosa, Erculam, Sapri, Velia e Bussento e che si salvarono dalla distruzione solo Velia e Bussento. Il sacerdote Rocco Gaetani (….) che, nel suo ‘L’antica bussento, oggi Policastro-Bussentino, la sua prima sede episcopale, studio storico-critico del sacedote Rocco Gaetani’, pubblicato nel 1882, a p. 22 racconta dell’invasione barbarica a seguito del quale papa S. Gregorio Magno decise di riattivare le sedi vacanti di Velia, Bussento e Blanda: “Dunque a tempo di San Gregorio era successa una invasione barbarica sul littorale della Lucania, ecc… Ordina però s. Gregorio ad Adeodato di raccogliere con sè nel suo monastero di s. Sebastiano i monaci Falcidiesi e i Crateresi, soggiungendogli che quando i lidi fossero sgombri dal pericolo delle incursioni barbariche ecc….Ricaviamo da ciò che nel V e nel VI secolo le chiese messe sul littorale del mare Tirreno, e quindi anche la Bussentina, venivano infestate dai barbari; ne questi erano solo i Longobardi, ma anche prima di essi quelli che muovevano dall’Africa, come i Vandali. Ed ora a riflettere che ritrovando nel secolo VI notizie di Sabazio vescovo Bussentino, dobbiamo conchiudere che la Chiesa Bussentina fu solamente per alcun tempo desolata, ma non distrutta. Dopo Sabbazio si riapre una maggior lacuna, e profondo silenzio e folta caligine copre gli annali della nostra Chiesa.”. Dunque, il Gaetani disserta sulle sventure di Buxentum (Bussento) e delle località costiere come Buxentum, antica diocesi cristiana, e scriveva che le sue sventure non iniziarono con la venuta dei Longobardi ma esse vi erano state gia molto tempo prima con i Vandali di Genserico che vennero dall’Africa. Forse è proprio a quel periodo dei Vandali di Genserico a cui può riferirsi la leggenda secondo cui gli abitanti di Molpa (l’antica Amalphi vecchia) siano fuggiti verso Eboli e poi andarono a fondare la città di Amalfi sulla costiera Amalfitana. Il barone Giuseppe Antonini (….), nella sua “La Lucania – I Discorsi”, a p. 370 scrivendo sulla Molpa citava l’“Anonimo Salernitano”, una ‘Chronaca’ spuria manoscritta e, a p. 370, in proposito scriveva che: “Errico Brecmanno c.4 e 5. de Rep. Amalphi poco, o nulla s’è scostato da quanto scrisse l’Ughellio sulla fede della stessa ‘Cronaca’, ma perchè mettono ambidue l’edificazione d’Amalfi circa al DC di Cristo, ho per un bel ritrovato quello, che i Romani passassero per Ragusa, andando a stabilirsi a Costantinopoli, già ducentosettant’anni prima rifatto. Vuò meglio credere (mi si dirà che sia un nostro capriccio) o che gli stessi Romani fuggendo dalle frequentissime incursioni dè Goti, e d’altri nuovi barbari, e le desolazioni, che verso Toscana, e del Lazio quelli facevano, fossero andati a ricoverarsi a Molpa, luogo allora meno à pericoli esposto, e che di là nuovamente cacciati, per trovare più sicuro ricetto, venuti fossero a fondare Amalfi, Ravello, e Scala: o pure che avendo Belisario ruinata questa Città, parte dè Molpitani fuggiti dalla desolazione di lor patria, fossero venuti ad edificare Amalfi. Ha forse questo una miglior aria di vero, senza che pretenda esser creduto; e che comunque sia, o prima, o dopo, tutti hanno indubitato, che dalla Molpa, detta ‘Melpes Palinuri’ nella ‘Cronaca’, i fondatori d’Amalfi siano venuti.”. Dunque, già l’Antonini ipotizzava che la Molpa e la fondazione della Amalfi vecchia fosse dovuta che gli stessi Romani fuggendo dalle frequentissime incursioni dè Goti, e d’altri nuovi barbari, e le desolazioni, che verso Toscana, e del Lazio quelli facevano, fossero andati a ricoverarsi a Molpa, luogo allora meno à pericoli esposto”. Dunque, l’Antonini in questo passo a p. 370 ci parla delle “frequentissime incursioni dei Goti”. L’Antonini, come vedremo in seguito, sulla scorta del Chronicon di S. Mercurio (una cronaca spuria del IX secolo), riferendosi alle famiglie che abitarono in questa antica città scomparsa di Amalfi vecchia (forse la Molpa) o che gli stessi Romani fuggendo dalle frequentissime incursioni dè Goti, e d’altri nuovi barbari, e le desolazioni, che verso Toscana, e del Lazio quelli facevano, fossero andati a ricoverarsi a Molpa, luogo allora meno à pericoli esposto, e che di là nuovamente cacciati, per trovare più sicuro ricetto, venuti fossero a fondare Amalfi, Ravello, e Scala ecc..”.

Nel 450 (IV sec. d.C.), il probabile abbandono del sito di Sapri ? Ipotesi credibile ?

Riguardo Sapri, assume particolare importanza la Relazione dell’Archeologo Mario Incitti (…) redatta in occasione di un rilevamento subacqueo delle preesistenze sommerse a Santa Croce, organizzato dal locale Gruppo Archeologico di Sapri (G.A.S.) nell’estate del 1982. Nel 1995, in occasione della stesura del nuovo Piano Regolatore Generale del Territorio di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte fui incaricato dal Comune di Sapri di redigere uno studio di Analisi e Storia, a mia firma la Relazione sull’“Analisi sull’Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a p. 11 in proposito scrivevo che: “Il Cesarino, in un suo scritto (56), riguardo ai resti della villa di S.Croce affermava che “del resto, la frequentazione della villa è accertata fino alla metà del V sec. d.C. Nella zona infatti è stata rinvenuta della ceramica’ sigillata’ di provenienza africana, in prevalenza del IV secolo.”. La relazione dell’archeologo Mario Incitti, redatta in occasione di un rilevamento subacqueo delle preesistenze sommerse a S.Croce, organizzato dal locale Gruppo Archeologico nell’estate del 1982, così si esprimeva: “Sono del tutto assenti elementi ceramici la cui produzione inizi oltre la metà del V secolo; per cui l’abbandono del sito è da porsi in relazione con eventi accaduti intorno all’anno 450. E’ probabile quindi che tale situazione storica sia da connettersi con il periodo di scorrerie lungo la costa italica operata dai Vandali sotto il regno di Genserico” (57). Ecc…”. Nella mia Relazione, nella nota (56) postillavo che: (56) Cesarino F., Sapri archeologica, stà in “I Corsivi”, Sapri, Aprile 1987, p. 5″. Nella mia Relazione, nella nota (57) postillavo che: “(57) Incitti M., Relazione redatta in occasione del rilevamento subacqueo delle rovine “Le Cammarelle”, organizzato dal locale Gruppo Archeologico di Sapri, nell’estate del 1982.”. (Archivio Attanasio). Infatti, lo studioso Felice Cesarino (…), nel suo scritto “Sapri archeologica”, apparso sulla rivista “I Corsivi”, n. 5, 1987, dopo aver detto di una moneta dell’Imperatore romano Massimiano Erculio (….) scoperta a S. Croce, “coniata tra il 293 e il 297 d.C.”, in proposito scriveva che: “Ora, una moneta non è sufficiente ad accertare l’esistenza di una villa imperiale; ma è sicuramente una prova che la zona all’epoca era ancora frequentata. Del resto, la frequentazione della villa è accertata fino alla metà del V secolo d.C.. Nella zona infatti, è stata rinvenuta della ceramica “sigillata”, di provenienza africana, in prevalenza del IV secolo.“. A questo punto, il Cesarino per avvalorare la sua tesi trascrive la bozza della Relazione che stilò l’archeologo Mario Incitti, in occasione del rilevamento subacqueo tenutosi nel 1982 a Sapri in località S. Croce. Le conclusioni dell’Incitti erano proprio queste. Incitti (….), in proposito concludeva che: “Sono del tutto assenti elementi ceramici la cui produzione inizi oltre la metà del V secolo; per cui l’abbandono del sito è da porsi in relazione con eventi accaduti intorno all’anno 450. E’ probabile quindi che tale situazione storica sia da connettersi con il periodo di scorrerie lungo la costa italica operata dai Vandali sotto il regno di Genserico”. Dunque, Mario Incitti, pone l’abbandono del sito archeologico di S. Croce intorno alla metà del secolo V (anno 450 d.C.) ponendo l’abbandono in relazione alle scorrerie dei vandali di Genserico. Amedeo La Greca (….), nel suo “Storia del Cilento”, nel cap. VIII – I Barbari, a p. 122 e ssg, in proposito scriveva che: Licosa, Erculam, Sapri, Velia, Bussento furono saccheggiate tra il 440 e il 460; le prime non si ripresero più, mentre i sopravvissuti di Velia e Bussento, stretti attorno all’unica autorità capace di coordinare la vita sociale, il vescovo cristiano, continuarono la loro esistenza ai margini della sopravvivenza.”. Dunque, Amedeo La Greca scriveva che tra il 440 ed il 460 i Vandali di Genserico saccheggiarono Licosa, Erculam, Sapri, Velia e Bussento e che si salvarono dalla distruzione solo Velia e Bussento.

Nel 461-465 d.C. (V sec. d.C.), l’Imperatore romano Livio Severo e la sua villa a Bussento o a Sapri ?

Alcuni studiosi hanno ipotizzato che nel 420 Molpa abbia dato i natali all’imperatore Libio Severo (anche se le fonti ufficiali indicano quale città di nascita Buxentum, l’attuale Policastro Bussentino. Ad esempio, le poche e stringate parole di Angelo Di Mauro (…), nel suo ‘I sette sentieri della memoria , luoghi e leggende ecc..’, rifacendosi quasi in tutto al Cammarano (…), a pp. 574-575, parlando di Centola, ci dice della Molpa che: “Molpa o Melpi o Malfa o Melfa o Melopa o Molfa, detta La Molpa seu Valla,………..Nel borgo Livio Severo (461-465) vi possedeva una villa; ecc…”. Angelo Di Mauro scriveva che l’Imperatore Romano Libio Severo possedeva una villa a Molpa. La notizia è tratta dall’Antonini che a sua volta la traeva da Orosio. Ma l’Antonini non scriveva questo. Nicola Corcia (…), a p. 59 del suo vol. III del suo “Storia delle Due Sicilie dall’Antichità più remota al 1789” dissertando sulla Molpa, segnalava che l’Antonini riportava un brano della “Cronaca di S. Mercurio” ed in proposito scriveva che: Nato in questa stessa città si pretende Libio Severo, il quale per opera di Ricimero succedeva nell’impero a Majorano nel 460; ed il citato cronista dice che mostravasene la casa in rovina à suoi giorni (1).”. Il Corcia, a p. 59, del suo vol. III, nella sua nota (1), riguardo la ‘Cronaca di S. Mercurio‘, postillava che: “(1) Chronic. S. Mercur., ap. Antonini, op. cit., t. I, p. 378.”. Dunque, Nicola Corcia, parlando della città di Buxentum scriveva che l’Antonini “pretendeva” che in questa città fosse nato Libio Severo, che in seguito diventerà Imperatore. Infatti, l’Antonini (…), parlando sempre della Molpa, a p. 378, parte II, ci dice ancora della ‘Cronaca di S. Mercurio’, scrivendo che: “La monca citata ‘Cronaca di S. Mercurio’, ecc…”. Dunque Nicola Corcia segnalava che l’Antonini riportava un brano della “Cronaca di S. Mercurio” (cronaca da lui datata al IX secolo) in cui il monaco scriveva che a Bussento vi era la casa natale dell’Imperatore Libio Severo che, nell’anno 460, per opera di “Racimero” successe all’Imperatore Maiorano (….). Libius Severus Serventius. Senatore originario della Lucania, fu uno degli ultimi imperatori romani d’Occidente, privo di effettivo potere, incapace di risolvere i numerosi e gravi problemi che affliggevano l’impero; viene descritto dalle fonti come uomo pio e religioso. Dopo la morte dell’imperatore Maggioriano (7 agosto 461), assassinato dal magister militum d’Occidente Ricimero, si aprì una lotta per l’elezione del nuovo imperatore d’Occidente che coinvolse Ricimero, l’imperatore d’Oriente Leone I e il re dei Vandali Genserico. Ricimero voleva porre sul trono d’Occidente un imperatore debole, che potesse controllare: la sua origine barbarica gli impediva infatti di prendere il trono per sé stesso. Genserico aveva rapito durante il Sacco di Roma (455) la moglie e le figlie di Valentiniano III (Licinia Eudossia, Placidia ed Eudocia) e aveva fatto sposare il proprio figlio Unerico con una delle due figlie dell’imperatore deceduto, Eudocia, imparentandosi così con la famiglia imperiale; il candidato di Genserico per il trono d’Occidente era Anicio Olibrio, che aveva sposato l’altra figlia di Valentiniano, Placidia, e che era quindi «uno di famiglia». A tale scopo mise sotto pressione entrambi gli imperi attaccando ripetutamente Italia e Sicilia, affermando che il trattato di pace stipulato con Maggioriano non era più vincolante; Ricimero, che agiva autonomamente, inviò una ambasciata a Genserico chiedendogli di rispettare il trattato, mentre l’imperatore d’Oriente, con una seconda ambasciata, trattò l’interruzione delle incursioni e la riconsegna delle donne di Valentiniano. Ricimero, però, decise di ignorare il candidato di Genserico e mise sul trono Libio Severo, scelto forse per compiacere l’aristocrazia italica, facendolo eleggere imperatore dal Senato il 19 novembre 461, a Ravenna (Severo fu poi riconosciuto dal Senato di Roma, come consuetudine). Della cronaca medioevale, il chronicon (cronaca medioevale) scritto nel XI secolo da un monaco di un monastero del Cilento ho parlato nel mio saggio ivi “Il Chronicon del monaco di S. Mercurio”. Infatti, il barone Giuseppe Antonini (…), citato da Nicola Corcia, a pp. 377-378-379 riferendosi alla città di Molpa, dopo aver detto degli Imperatori Massimiliano Erculeo e di suo figlio Massenzio alla Molpa, citava un brano tratto dalla “Cronaca di S. Mercurio” dove si parlava dell’Imperatore Libio Severo a Bussento e scriveva che: La monca citata ‘Cronaca di S. Mercurio chiaramente ci dice, che quì anche Massenzio con suo padre ritirato si fosse, poichè parlando di un fatto occorso in Bussento, ecco come scrive: “Hic (cioè in Bussento) usque ad praesentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natos est, Imperator Severus Libius, & ejus avus, fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad abitaculum elegerat postquam renunciavit Imperium.”. ecc..”. Dunque, l’Antonini segnalava che il monaco di S. Mercurio nella sua “Chronica”, in proposito scriveva della villa dell’Imperatore Libio Severo in Bussento che: “Hic (cioè in Bussento) usque ad praesentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natos est, Imperator Severus Libius, & ejus avus, fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad abitaculum elegerat postquam renunciavit Imperium.”, ovvero che: “Qui ancora oggi è esposta una casa fatiscente, dove nacquero i figli, l’imperatore Severo Libio, e suo nonno, amico intimo dell’imperatore Ercole, che aveva scelto Melpa come dimora dopo aver rinunciato all’impero.”. Dunque, secondo il monaco cronista della ‘Cronaca di S. Mercurio’ è a Bussento che nacquero i figli dell’Imperatore Massenzio, l’imperatore Severo Libio, e suo nonno, amico intimo dell’imperatore Ercole, che aveva scelto Melpa come dimora dopo aver rinunciato all’impero. Nel 1882, il sacerdote Rocco Gaetani (…), consegnava alle stampe il suo primo studio, dal titolo:  “L’antica bussento, oggi Policastro-Bussentino, la sua prima sede episcopale, studio storico-critico del sacedote Rocco Gaetani” (…), a p. 15, in cui ci parla dell’antica Bussento (Buxentum), citando un passo della ‘Cronaca di S. Mercurio” ed in proposito, riferendosi all’Antonini che voleva la Molpa fosse l’antica Buxentum scriveva che: “Allega poi, ma forse ci sta a pigione, un frammento della Cronaca di san Mercurio: “Hic (parlando del Bussento) usque ad praesentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natos est, Imperator Severus Libius, & ejus avus, fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad abitaculum elegerat postquam renunciavit Imperium. (12)”. Ma il cronista, riferendo l’hic al Bussento, par che distingua piuttosto due luoghi, dicendo che nell’uno (al Bussento) vedeansi i ruderi della casa in cui nacque l’Imperatore Libio Severo, e nell’altro (alla Molpa) erasi ritirato l’imperatore Massimiano. Ecc..”. Ecco ciò che scriveva il Gaetani sul passo del Cronicon di S. Mercurio e sulle tesi dell’Antonini. L’Antonini continuando il suo racconto su Bussento e sull’Imperatore Libio Severo e le sue origini Lucane scriveva che: “Quando, e come Severo fosse stato fatto Imperadore, puossi veder in vari storici; bastando ciò che noi accenneremo nella sottoposta nota (I) e qui diremo solamente che secondo vuole ‘Cassiodoro in chron.’ seguì la di lui elezione nel Consolato di Severino, e Degalaiso: “His Cost. Majoranus immissione Recimeris extinguitur, cui Severum, natione Lucanarum Ravennae succedere fecit in regno”. Il P. ‘Banduro’, in Nummism.’ di questo Imperatore parlando, così dice: “Libius Severus, Lucanus, Majorano Ricimeris fraude interfecto die VII. Augusti anni CDLXI. ejusdem opera Imper. Ravennae appellatus est die XIX. Novembris, probante quidem Rom. Senatu: At Leone, qui orientem regebat, inconsulto.”. E’ fama, che regnato avesse tre anni, e nove mesi.”. Dunque, l’Antonini cita Cassiodoro (…). Antonini scriveva che nella Chronaca di Cassiodoro egli scrive che: “Per questi Costantino Majoranus fu estinto per l’invio di Recimeris, al quale fece succedere Severo, per stirpe di Luca, nel regno di Ravenna”. L’Antonini scrive che il padre Banduro (…), nella sua opera “Numismatica” scriveva che: “Libio Severus, Lucanus e Majoranus Ricimeris furono uccisi a tradimento il settimo giorno. Nell’agosto dell’anno 461 le opere dello stesso imperatore. Fu chiamato a Ravenna il 19. novembre, con l’approvazione di Rom. Il Senato: Ma senza consultare Leone che governava l’Oriente”. L’Antonini a p. 378, nella sua nota (I) postillava che: “(I) Tornato era Majorano dalle Gallie in Italia per opporsi a gli Alani, che di nuova incursione la minacciavano; ed essendo vicino Tortona, Ricimero gli andò incontro coll’esercito Imperiale; e secondo il concerto fatto con Libio Severo, fecelo imprigionare, ed obbligato a rinunziare l’Impero, a capo di tre giorni l’uccise. Era Ricimero maestro dell’una, e dell’altra milizia, Comite, e Patrizio, e Severo era Patrizio solamente. Corso Ricimero in Ravenna; a capo di quattro mesi vi fece dichiarare Imperadore Severo dalle stesse milizie. Nè la Repubblica ebbe a pentirsene, poichè fu un uomo moderatissimo, giusto, e carco di virtù militari; quindi nondiede luogo a Genserico di far ulteriori progressi dell’Isole del Mediterraneo: Ed essendo il Re Beorgor con numerosissime squadre di Alani calato in Italia nell’anno CDLXIV. per mezzo dello stesso Ricimero interamente vicino Bergamo lo sconfisse colla morte anche di Beorgor, con cui finì nelle Gallie il Regno degli Alani. Severo in tanto stando in Roma, nell’anno appresso morì di veleno, occultamente da Ricimero datogli, siccome non pochi autori vogliono; ma, ‘Sidonio’ cede che morisse di malattia. Comunque però si fusse, la di lui morte fu dagl’Italiani altamente compianta, per aver perduto in lui un prode uomo, ed alloora necessarissimo per opporsi a’ moti di Genserico. Vedine Evagr. lib. 2 & 3. Jornande, ed altri. Dell’iscrizione 5. fol. 419. del Sig. Muratori si vede, che Libio Severo fu eletto Imperadore nell’anno MCCXIV. di Roma, e CDLXI di Cristo.”. Ma davvero la città natale di Livio Severo fu Buxentum ?. Felice Cesarino (….), nel suo saggio “Contributo ad una ricostruzione di una storia antica di Sapri” in “L’Attività Archeologica nel Golfo di Policastro, n. 2”, parlando della villa romana e dei resti archeologici in località S. Croce a Sapri, ipotizzando che possa essere la villa dell’Imperatore Massimiano Erculeo, a p. 27, sulla scorta di Emilio Magaldi (….), in proposito scriveva che: “Il Magaldi, nella sua opera sulla Lucania (6), che costituisce a tutt’oggi il miglior lavoro sull’argomento, fornisce in proposito illuminanti notizie: “L’Imperatore Massimiano Erculio, il collega di Diocleziano, possedeva in Lucania una villa, dove si ritirò dopo aver abdicato. E in questa villa appunto si trovava suo figlio Massenzio, l’avversario di Costantino, quando fu acclamato imperatore (cfr. Orosio). La villa in parola secondo uno degli autori antichi (Lattanzio) si direbbe trovata in Campania, secondo altri (Zosimo, Zonara, Eutropio) in Lucania, e questa indecisione ha fatto pensare che si trovasse al confine delle due regioni (Honingman). La notizia contenuta in una cronaca e ripetuta da qualche scrittore regionale (Corcia), che la villa imperiale si trovava a Molpa non ha il sostegno di alcuna citazione classica. Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia farebbe pensare il toponimo Caesariana, secondo la spiegazione del Nissen”. Il Cesarino a p. 27, nella sua nota (6) postillava che: “(6) E. Magaldi, La lucania romana, Roma, 1947.”.  Il Cesarino si riferiva a Emilio Magaldi. Infatti, nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I, parte I, a p. 64, in proposito scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, e una iscrizione trovata ad Ostia (1), in cui è ricordato Q. Calpurnio Modesto che, fra le alte cariche, tenne quella di ‘procurator Lucaniae’. Si tratterebbe del ‘procurator Augusti’ per la Lucania, cioè dell’amministratore dei possedimenti imperiali sparsi per la Lucania (2).”. In questo ultimo passaggio, riguardo le ville Imperiali in Lucania, il Magaldi citava il Nissen (….). Il Magaldi scriveva che: Per la Lucania non abbiamo notizia sicura dell’esistenza di altri possedimenti imperiali. A questi tuttavia fanno pensare, e il toponimo ‘Caesariana’, secondo la spiegazione del NISSEN, riferita in seguito, ecc…”. Dunque, il Magaldi scriveva che il Nissen, spiegava che il toponimo di “Caesariana”, spiegava e faceva pensare ad antichi possedimenti in Lucania. Il Magaldi, a p. 10, nella sua nota (2) postillava che: “(2) H. NISSEN, Italische Landeskunde’, vol. I (Land und Leute) Berlino, 1883, p. 534 seg. e vol. II (Die Stadele), Berlino, 1902, p. 888.”. In un altra mia nota, la (42) della mia Relazione per il P.R.G. di Sapri, postillavo che: (42) Nissen, op. cit., vol. II, p. 899, n.8, e vedi anche Karhsted U., Die Wirtschaftlissche Lage Grossgriechenlands in der Kaiserzeit, Wiesbaden, 1960, p.22.”. Sempre il Magaldi a p. 282, in proposito alle ville scriveva che: “Dell’esistenza di possedimenti imperiali in Lucania qualche cosa si è detta (p. 64 e seg.), qualche altra cosa si dirà in seguito.”. Il Magaldi, a p. 64, riferendosi alla probabile villa Imperiale di Massimiano Erculio, nella sua nota (3) postillava che: “(3) Cfr. Orosio, VII, 28, 5 riportato in seguito”. Nel 1828, il viaggiatore scozzese Craufurd Tait Ramage (….), nel suo ‘Viaggio nel Regno delle Due Sicilie”, ristampato per i tipi di De Luca nel 1966,ci parla a pp. 104-109. Nell’edizione dell’Ippogrifo a cura di Raffaele Riccio (….), nel 1966, ma segnalo anche la ristampa pubblicata per i tipi di Galzerano. Nella mia edizione, a pp. 129, Ramage scriveva che: E’ ancora curioso notare che, quattrocento anni dopo la loro collocazione, Buxentum abbia dato i natali ad un altro imperatore, Severo Libio, il quale regnò dal 461 al 465 d.C. Un antico cronista del IX secolo narra: “In Buxentum, usque ad presentem diem monstratur ruinosa aedes, ubi natus est imperator Severus Libius, et eius avus fuit familiaris Herculii similiter Imperatoris, qui Melpam ad habitaculum elegerat postquam renunciavi imperium”. (7). Possiamo tradurre le sue parole nel modo seguente: “Nella città di Buxentum si vedono ancora oggi le rovine della casa in cui nacque l’imperatore Severo Libio; l’avo di questi era amico dell’imperatore Ercole Massimiano, che decise di risiedere a Molpa dopo aver abdicato”.”. Il Ramage si riferiva al passo del Chronicon del monaco di S. Mercurio di cui l’Antonini pubblicò alcuni passi parlando della Molpa. Il Ramage a p. 130, nella sua nota (7) postillava che: “(7) L’imperatore Massimiano era soprannominato Ercole, dopo l’abdicazione fu alleato e collega di Massenzio. Si suicidò nella città di Marsiglia ecc..”. Nel 1947, Emilio Magaldi (…), nel suo “Lucania Romana”, nel vol. I, parte I, a p. 282, in proposito scriveva che: “Dobbiamo ricordare da ultimo un imperatore inetto, tra il fantasma e il fantoccio, che, ci rincresce dirlo, fu di nazione lucano, il solo sicuramente lucano, nella lunga serie degli imperatori romani. E’ Livio Severo che, passivo strumento nelle mani di Ricimero, fu gridato imperatore a Ravenna il 19 novembre 461, ma scomparve quattro anni dopo, senza neppure essere passato, pare, per Ravenna. Il SEECK dice che egli non sapeva scrivere correttamente nemmeno il suo nome, per il fatto che nelle iscrizioni compare ‘Libius’ e non ‘Livius’, ma questo è troppo, e noi non ci sentiamo di firmare il nostro Severo una così severa condanna (1). Dell’esistenza di possedimenti imperiali in Lucania qualche cosa si è detta (p. 64 e seg.), qualche altra cosa si dirà in seguito.”. Il Magaldi (…), a p. 282, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Cfr. Cassiodoro, ‘Chronica ad a. DXIX. – a. 461: “Severinus et Dagalaifus. His conss. Maiorianus immissione Ricimeris etc….”; Cfr. O. SEECK, Geshichte des Untergangs der antiken Welt, vol. VI, Stuttgart, 1920, p. 349. Cfr. Anhang, p. 482.”.  

E’ proprio in quest’epoca che incominciarono a sussistere i primi elementi di rito greco. Sul nostro territorio nel VII secolo, come ricorda il Cappelletti (12) già in Rivello, la chiesa greca, vi dimostrò forza, per cui, anche per questi motivi, Papa S. Gregorio decise di riattivare le sedi vacanti di Velia, Bussento e Blanda, affidandole al Vescovo Felice di Agropoli (11). Nicola Acocella (22), affermava in proposito: La Velina ecclesia era già, all’epoca di Gregorio Magno (a. 592), deserta di sacerdoti”, faceva riferimento alla nota lettera di Papa Gregorio Magno a Felice, Vescovo di Agropoli (11). Alla fine del VI secolo, Papa S. Gregorio Magno (Gregorio I), ricorderà in una sua lettera (‘Epistulae, II, 29′)(11), la mancanza di titolare della sede bussentina. I Longobardi , tra il 568 e il 578, devastarono di nuovo Policastro (13). Nel 592 papa S. Gregorio Magno (Gregorio I), vedendo desolata la diocesi e sconvolto il gregge, ne affidò la cura al Vescovo Felice di Agropoli, incaricandolo di compiere le visite pastorali alle sedi vicine di Velia (Ascea), Buxentum (Bussento) e Blanda (forse Maratea), ormai vacanti da alcuni anni e bisognose di aiuti spirituali (15). Aggiunge Lanzoni (16) che «in quel tempo, causa l’invasione dei Longobardi, altri vescovi si traslocarono da uno ad altro luogo della loro diocesi, e da questa seconda residenza presero il nome». Infatti in questo sembra essere l’atto di decesso dei Vescovadi di Velia (Velia), Buxentum (Bussento) e Blanda (Maratea) (14). Intorno a quelle vicende storiche che riguardano il Golfo di Policastro e, le vessazioni dei Longobardi, il Barni (13), in un suo studio, pubblicò il testo di Monsignor Duchesne (14): ‘I Vescovadi italiani durante l’invasione longobarda (Les eveches d’Italie et l’invasion Lombarde) (14) che, aveva attinto alcune notizie da un libro scritto ed edito dal Vescovo di Policastro Monsignor Nicola Maria Laudisio (17) che, nel 1831, pubblicò (17) la Sinossi della Diocesi di Policastro (Paleocastren Dioceseos historico-cronologica synopsis), in seguito ripubblicata e tradotta dallo storico Gian Galeazzo Visconti (18). Il Laudisio (17), trasse moltissime sue notizie da un manoscritto inedito ed introvabile del Mannelli (19), in parte riportate nel 1600 dall’abate Ughelli (20) e, poi in seguito pubblicate da studiosi locali come Ebner (21) e Acocella (22). La principale notizia che il Laudisio (17-18) e poi il Duchesne (14) riportarono è la lettera (epistola) di papa Gregorio Magno (Gregorio I) che scrisse a Felice, Vescovo di Agropoli (11). Questa interessantissima lettera del papa Gregorio magno è tratta dal grande epistolario (raccolta di lettere) del papa che si lamentava dell’invasione Longobarda (11). Paolo Cammarosano (24), ci parla del registro episcopale di papa Gregorio Magno, scritto tra il 590 e il 604: ci offre la sua copiosa messe d’informazioni sulla situazione episcopale di quegli anni in Italia, il dente longobardo non sembra avere affatto dilaniato la geografia diocesana d’Italia”, riferendosi a ciò che affermava papa Gregorio in una delle sue tante epistole (11). Il Duchesne (14), attingendo dalle lettere di papa Gregorio Magno, scriveva in proposito: “L’antica regione III comprendeva la Lucania ed il Brutium. In Lucania non ci fu, nel periodo di dominazione bizantina, che un esiguo numero di Vescovadi. All’interno non posso citare che Potentia, Grumentum e Consilinum (Marcelliana); sulla costa Tirrenica si conoscono quelli di Paestum, Velia, Buxentum (l’odierna Policastro Bussentina) e Blanda (il Duchesne la pone a Maratea). Uno solo, quello di Paestum, sopravvisse all’invasione longobarda, fino alla quale tutti si erano conservati. I primi tre sono menzionati nella corrispondenza di Pelagio I, verso il 560 (J., 969, 1015, 1017 ). Al tempo di San Gregorio, uno dei servitori della chiesa di Grumentum viveva ritirato in Sicilia (Ep., IX, 209, Luglio 599). Dopo di lui, non si trovano più tracce attendibili di queste chiese. In quanto a quelle della costa, una lettera di San Gregorio, nel 592 (11), sembra l’atto di decesso dei vescovadi di Velia, Buxentum e Blanda. Sono completamente disorganizzati. Il Papa affida al Vescovo di Paestum il loro mobilio sacro e la cura del loro personale. Lo stesso Vescovo di Paestum viene qualificato come Episcopus di Agropoli. E’ stato costretto a lasciare la sua città episcopale per rifugiarsi nella località costiera e fortificata di Agropoli, come nel IX secolo sarà costretto a trasferirsi nell’interno di Capaccio.” (14). Scrive la Bencivenga –  Trimllich (40), sulla scorta del Gaetani (9), a proposito di Bussento che “La città è ancora menzionata nel VI secolo d.C. da Stefano Bizantino (9), quando era già fiorente sede vescovile, essendoci noti per l’anno 501 il vescovo Rustico e per il 592 il vescovo Agnello (10).”. Sempre dal Gaetani (9), sulla scorta del manoscritto del Mannelli (19), nel suo ‘Mannelli Luca, Notizie di Policastro Bussentino ecc.., op. cit., a p. 17, leggiamo in proposito che “Ritrovasi mentionata ancora questa città nella Lucania da …Stefano Bizantino disse sia città di Sicilia (2 – si veda nota Stef. de Urbihus), havendo scritto bene Stefano che fusse Città di Sicilia, ancorchè nella Lucania, poichè anticamente questa provincia fu detta Sicilia, e così puote anco dirsi hoggigiorno il Regno tutto.”. Il Gaetani, proseguendo il suo racconto e riferendosi a Policastro, scriveva: “sembra che questa da quelle comuni sventure stesse esente: si che non soggiacesse alla barbarie de’ Gothi, nè de’ Longobardi, ancorchè Alarico, predata Roma, ponesse a sangue e fuoco tutta questa regione fino a Reggio, e poi…Autari, Re de’ Longobardi…penetra con egual barbarie e fierezza. Di ciò puote darcene congettura il ritrovarsi che in que’ tempi calamitosi i Vescovi di Bussento intervennero in alcuni Concili celebrati in Roma. Così nell’anno 501, regnando in Italia Teodorico re Gotho, leggesi nella 3° Sinodo sotto Simmaco sottoscritto, ‘Ruslicus Episcopus Buxentinus’. “. Il Gaetani (9), nel suo ‘L’antica bussento, oggi Policastro-Bussentino, la sua prima sede episcopale, studio storico-critico ecc..’, parlando della Diocesi di Bussento, scriveva in proposito: “Ecco due nomi della primitiva serie, anteriore al mille: Rustico sulla fine del V secolo e sui principi del VI secolo, di cui sappiamo che nel 501 intervenne al Concilio Romano sotto papa s. Simmaco, sottoscrivendosi Rusticus Episcopus Buxentinus; e Sabbazio, che nel 649 sedeva al Concilio Lateranense sotto papa s. Martino I contro Monoteliti, trovandosi sottoscritto: Sabbatius Episcopus Buxentinus subscripsi. Dunque nel secolo VII,  ed anche prima, nel secolo V, esisteva la sede Bussentina. Se poi quel Vescovo Agnello di cui fa menzione S. Gregorio nel suo ‘Libro 4, ep. VI’, scritta il 592 a Cipriano diacono e rettore del Patrimonio di S. Pietro in Sicilia, fosse vescovo di Bussento, ovvero di Velia o Blanda, è incerto, nè si potrà decidere finchè nuovi documenti non vengano ad accertarlo.”. Sempre il Gaetani (9), nello stesso saggio, scriveva: “Giuseppe Volpi (10), fu il primo che fece arrogare senza verum fondamento di Policastro dovuto per giustizia (dice Costantino Gatta, Memorie Topografico-Storiche della Provincia di Lucania pag. 34-35 nota) tanto è improprio ed impertinente a quello di Capaccio) avvenuta il 27 agosto 1741, fu eletto Vescovo di quella Sede Pietro Antonio Raimoni, che ben conoscendo l’uso improprio fatto da’ suoi antecessori del titolo Episcopus Buxentinus, si scrisse : Petrus Antonius Raymondi Episcopus Caputaquensis, Paestanus, Velinus, Agropolitanus”. Il Gaetani (9), nella sua nota (5), confuta le tesi del Volpi (10), tratte dal saggio del Vescovo di Capaccio Monsignor Francesco Nicolaio o Nicolai Francisci (Vescovo di Capaccio)(42), si parla della Diocesi di Capaccio e di Buxentum e Policastro. Il Nicolao, scriveva: Buxentum Romanorum Colonia, et Sedes Episcopalis; eiusque situs melius statuitur in loco, ubi nunc Pixuntum , vulgo Pisciotta, Diocesis Caputaquensis, quam in eo ubi Sedes Policastrensis, cum evincit nominis analogia, cum libera Y apud  Latinos mutatur in V, ut ex antiquis Geographis, qui Buxentum derivant a buxorum copia, quae ibi habetur, cui sufragantur recentiores. Tandem quia magis consonant cum epistola s. Pontificis (Gregorii Magni), dum Felici de Agropoli visitationes Buxentinae Sedis injungit, eam asseruit esse in vicino Agropolitanae. Policastrensem vero longius distare, nulli erat dubium, ut ex concordi sensu abbatis a s. Paulo in laudatissimo Geographia Sacrae opere, Lucae Holstenii loco adducto, Philippi Ferrarii v. Buxentum, Leandri Alberti in Italia descript. pag. 198.”Il Laudisio (17-18), sulla scorta di Pietro Giannone (41), scriveva in proposito di Rivello: “dov’è ora la città di Rivello, i cui cittadini si vantano di discendere dall’antica Velia che sorse presso il capo Palinuro. Poichè Velia fu distrutta nel 915 dai Saraceni, i superstiti si rifugiarono in questo castello che era stato ben fortificato dai Longobardi nel VI secolo al tempo del loro quarto re Agilulfo e del secondo duca di Benevento Arechi. Difatti i Longobardi estesero il loro ducato di Benevento sino ai Bruzi e, attraverso l’entroterra, sino a Cosenza, ma non conquistarono le coste, dove i bizantini dominavano indisturbati. Gli abitanti di Velia, esuli della loro città, chiamarono Rivelia, quasi Velia rinata, la nuova località in cui si fissarono, e sopra i battenti dell’ingresso centrale della Chiesa Madre, che è dentro le mura del paese, posero una lapide che ricordasse la loro patria d’origine, e vi aggiunsero lo stemma di marmo dell’antica Velia che portava incise nel cerchio che lo chiudeva queste parole: Velia di nuovo rinata è Rivello ricordo perenne. Anche la spesso citata pastorale del Metropolita di Salerno chiama questa località col nome di Revelia ecc..”. Giannone (41), scriveva in proposito: “Non molto dapoi stesero i Longobardi i confini del Ducato Beneventano infino a Salerno; e molte altre città verso Oriente infine a Cosenza con tutte le altre terre mediterranee furono a’ Greci tolte. Ed anche questo Ducato Napoletano sarebbe passato sotto il dominio de’ Longobardi, come passarono nel correre degli anni tutte l’altre città mediterranee del Regno (…), se due ragioni non l’avessero impedito. Ciò sono, il non essere i Longobardi forniti di armate di mare, nè molto esperti degli assedj di piazze marittime; e l’aver i Napoletani, per ragione anche de’ loro siti, ben fortificata Napoli e le altre piazze marittime a loro soggette.”. Il Laudisio (17-18), traendo alcune notizie dal manoscritto del Mannelli (19), dalle Memorie Lucane, Cap. II, p. 34 del Gatta (3), dal Tomo I, part. II, Cap. VI, parag. I, n. XIII, pag. 135 del  Troyli (6), e dal Barrio (21), scriveva nel 1831 in proposito: Perciò si perde davvero nella notte dei tempi il motivo per il quale le ultime quindici località indicate nella pastorale sono oggi, di fatto, di pertinenza della Diocesi di Cassano Ionico. Vi è un’antica tradizione del paese di Scalea non molto distante dall’Isola di Dida e una volta chiamato Talao, di cui Strabone ci tramanda queste notizie: Vi è il fiume Talao e il piccolo Golfo di Talao; vi è poi la città di Talao, poco lontana dal mare, ultima città della Lucania e colonia dei Sibariti. Dunque questa antica tradizione, ancora viva a Scalea, narra che la città di Talao fu eretta nei tempi antichi e sede vescovile, e che furono assegnate alla sua diocesi proprio quelle quindici località; ma poichè il primo vescovo venne ucciso, la sede vescovile fu subito soppressa e le quindici località non vennero più restituite al vescovo di Policastro, ma vennero assegnate al vescovo di Cassano Ionico, quasi per un’antica libera collazione del Pontefice al vescovo di Cassano Ionico che dipende immediatamente dalla Santa Sede Apostolica. E’ questa soltanto una congettura, ma è molto diffusa.”.

Sapri (o ‘Porto de Sapri’) e Blanda, con l’avvento delle prime comunità cristiane

La prima notizia risalente all’età alto-medievale riguarda Blanda: nel terzo Sinodo romano, nel 501 è ricordato Pasquale, Vescovo di Blanda (8-9). Restaurato il vescovado la prima volta all’inizio del secolo VI, nell’anno 500 (8). Nel 592 Blanda subì un’incursione longobarda, e la sede episcopale dovette essere ripristinata dal Vescovo Felice di Agropoli, su preciso mandato di papa Gregorio Magno. La notizia è tratta da una delle lettere del papa Gregorio Magno citate dal Laudisio (17-18) e poi dal Duchesne (14). La città viene infine ricordata in alcune epistole di papa Gregorio Magno. Nel 592 papa S. Gregorio Magno (Gregorio I), vedendo desolata la diocesi e sconvolto il gregge, ne affidò la cura al Vescovo Felice di Agropoli, incaricandolo di compiere le visite pastorali alle sedi vicine di Velia (Ascea), Buxentum (Bussento) e Blanda, ormai vacanti da alcuni anni e bisognose di aiuti spirituali (15). Il Lanzoni (16) che «in quel tempo, causa l’invasione dei Longobardi, altri vescovi si traslocarono da uno ad altro luogo della loro diocesi, e da questa seconda residenza presero il nome». Infatti in questo sembra essere l’atto di decesso dei Vescovadi di Velia (Velia), Buxentum (Bussento) e Blanda (?) (14). Intorno a quelle vicende storiche che riguardano il Golfo di Policastro e, le vessazioni dei Longobardi, il Barni (13), in un suo studio, pubblicò il testo di Monsignor Duchesne (14): ‘I Vescovadi italiani durante l’invasione longobarda (Les eveches d’Italie et l’invasion Lombarde) (14) che, aveva attinto alcune notizie da un libro scritto ed edito dal Vescovo di Policastro Monsignor Nicola Maria Laudisio (17) che, nel 1831, pubblicò (17) Sinossi della Diocesi di Policastro (Paleocastren Dioceseos historico-cronologica synopsis), in seguito ripubblicata e tradotta dallo storico Gian Galeazzo Visconti (18). Il Laudisio (17), trasse moltissime sue notizie da un manoscritto inedito ed introvabile del Mannelli (19), in parte riportate nel 1600 dall’abate Ughelli (20) ed il Gatta (…) e, poi in seguito citate da Ebner (21) e Acocella (22). La principale notizia che il Laudisio (17-18) e poi il Duchesne (14) riportarono è la lettera (epistola) di papa Gregorio Magno (Gregorio I) che scrisse a Felice, Vescovo di Agropoli (11). L’interessantissima lettera del papa Gregorio Magno è tratta dal grande epistolario (raccolta di lettere) del papa che si lamentava dell’invasione Longobarda (11). Paolo Cammarosano (24), ci parla del registro episcopale di papa Gregorio Magno, scritto tra il 590 e il 604: “ci offre la sua copiosa messe di informazioni sulla situazione episcopale di quegli anni in Italia,…”, riferendosi a ciò che affermava papa Gregorio in una delle sue tante epistole (11). Il Duchesne (14), attingendo dalle lettere di papa Gregorio Magno, scriveva in proposito: “L’antica regione III comprendeva la Lucania ed il Brutium. In Lucania non ci fu, nel periodo di dominazione bizantina, che un esiguo numero di Vescovadi. All’interno non posso citare che Potentia, Grumentum e Consilinum (Marcelliana); sulla costa Tirrenica si conoscono quelli di Paestum, Velia, Buxentum (l’odierna Policastro Bussentina) e Blanda (il Duchesne la pone a Maratea)Uno solo, quello di Paestum, sopravvisse all’invasione longobarda, fino alla quale tutti si erano conservati. I primi tre sono menzionati nella corrispondenza di Pelagio I, verso il 560 (J., 969, 1015, 1017 ). Al tempo di San Gregorio, uno dei servitori della chiesa di Grumentum viveva ritirato in Sicilia (Ep., IX, 209, Luglio 599). Dopo di lui, non si trovano più tracce attendibili di queste chiese. In quanto a quelle della costa, una lettera di San Gregorio, nel 592 (11), sembra l’atto di decesso dei vescovadi di Velia, Buxentum e Blanda. Sono comple- tamente disorganizzati. Il Papa affida al Vescovo di Paestum il loro mobilio sacro e la cura del loro personale. Lo stesso Vescovo di Paestum viene qualificato come Episcopus di Agropoli. E’ stato costretto a lasciare la sua città episcopale per rifugiarsi nella località costiera e fortificata di Agropoli, come nel IX secolo sarà costretto a trasferirsi nell’interno di Capaccio.” (14). Nel 601 fu vescovo di Blanda un certo Pasquale, come ne attesta la sua presenza al Sinodo romano. Nel 649, anno in cui si svolse il Sinodo romano, Blanda continuò ad essere sede vescovile, come dimostra la presenza del suo vescovo Pasquale. Il Romanelli (25) ed il Troyli (6), parlando di Blanda riferendosi alla lettera del papa Gregorio Magno (11)(S. Gregorio, lib. II, epist. 29 – II, 43), affermano essere: sede vescovile nei primi secoli del Critianesimo e dalla soscrizione di Pasquale vescovo di Blanda negli atti del Concilio Lateranense sotto papa Martino nel 649.” (25-11). Sempre riguardo la notizia del Concilio Lateranense dell’anno 649, ne fa memoria il Laudisio (17) che, parlando di Blanda (Visconti, op. cit. , nota 10, p. 88-89), dice: ”…e fra di lui vescovi vi è memoria di Pasquale, che intervenne al Concilio Lateranense sotto il pontificato di Martino ( che si svolse nell’anno 649). Il Laudisio trae la notizia dal Binio: “an. 649 ex Binnio, tomo IV, pag. 736” (26). Della notizia del Concilio Lateranense tenuto nell’anno 649, ne parla Biagio Cataldo (di cui possediamo un suo scritto inedito e che aiutò G.G. Visconti alla stesura del suo libro sul Laudisio – 18), afferma che al Concilio Lateranense dell’anno 649, al tempo del pontefice S. Martino, vi partecipò il suo vescovo Pasquale, riferendo nelle sue note bibliografiche dice di aver tratto la notizia da Binius Severino (26). La notizia ci viene confermata poi in seguito dal Duchesne (14) che, parlando dei primi Vescovi di Policastro, dice in proposito: “Si trovano i loro vescovi al Concilio del 649 con quelli di Paestum e Salerno” (11) e, aggiunge: “Tuttavia, passata la tempesta, Buxentum e Blanda riuscirono a ricostruirsi. Si trovano i loro vescovi al Concilio del 649 con quelli di Paestum e Salerno” (14). Suppongo che le autorità bizantine riuscirono a reinsediarsi in queste località protette sia dalle loro situazioni marittime, sia dalle guarnigioni di Salerno, Conza e di Brutium (Calabria). Il Papa S. Gregorio Magno affidò la Diocesi di Bussento al vescovo Felice di Agropoli (14) ma è probabile che una prima devastazione del territorio bussentino sia avvenuta intorno al 640 e comunque tra la fine del VII e la prima metà del secolo VIII (14). Ma che fossero o non fossero Longobardi nel 649, le cose cambiarono poco dopo. Non si parla più in seguito dei vescovi di Buxentum e di Blando. Paestum, invece riuscì a conservarsi. Così, nella parte…..di questa regione i vescovadi raggiunti dall’invasione longobarda spariscono tutti, salvo un’ eccezione quella di Paestum, benchè anche questa eccezione sia dovuta al fatto che il Vescovo di Paestum trovò rifugio nella parte bizantina della sua Diocesi” (14). Infatti, nell’ VIII secolo, Blanda passò in mano ai Longobardi.

Nel ‘592 (VI sec. d.C.), Sapri

E’ proprio in quest’epoca che incominciarono a sussistere i primi elementi di rito greco. Sul nostro territorio nel VII secolo, come ricorda il Cappelletti (12) già in Rivello, la chiesa greca, vi dimostrò forza, per cui, anche per questi motivi, Papa S. Gregorio decise di riattivare le sedi vacanti di Velia, Bussento e Blanda, affidandole al Vescovo Felice di Agropoli (11). Nicola Acocella (22), affermava in proposito: La Velina ecclesia era già, all’epoca di Gregorio Magno (a. 592), deserta di sacerdoti”, faceva riferimento alla nota lettera di Papa Gregorio Magno a Felice, Vescovo di Agropoli (11). Alla fine del VI secolo, Papa S. Gregorio Magno (Gregorio I), ricorderà in una sua lettera (‘Epistulae, II, 29′)(11), la mancanza di titolare della sede bussentina. I Longobardi , tra il 568 e il 578, devastarono di nuovo Policastro (13). Nel 592 papa S. Gregorio Magno (Gregorio I), vedendo desolata la diocesi e sconvolto il gregge, ne affidò la cura al Vescovo Felice di Agropoli, incaricandolo di compiere le visite pastorali alle sedi vicine di Velia (Ascea), Buxentum (Bussento) e Blanda (forse Maratea), ormai vacanti da alcuni anni e bisognose di aiuti spirituali (15). Aggiunge Lanzoni (16) che «in quel tempo, causa l’invasione dei Longobardi, altri vescovi si traslocarono da uno ad altro luogo della loro diocesi, e da questa seconda residenza presero il nome». Infatti in questo sembra essere l’atto di decesso dei Vescovadi di Velia (Velia), Buxentum (Bussento) e Blanda (Maratea) (14). Intorno a quelle vicende storiche che riguardano il Golfo di Policastro e, le vessazioni dei Longobardi, Gianluigi Barni (13), in un suo studio, pubblicò il testo di Monsignor Duchesne (14): ‘I Vescovadi italiani durante l’invasione longobarda (Les eveches d’Italie et l’invasion Lombarde) (14) che, aveva attinto alcune notizie da un libro scritto ed edito dal Vescovo di Policastro Monsignor Nicola Maria Laudisio (17) che, nel 1831, pubblicò (17) la Sinossi della Diocesi di Policastro (Paleocastren Dioceseos historico-cronologica synopsis), in seguito tradotta e ripubblicata dallo storico Gian Galeazzo Visconti (18). Il Laudisio (17), trasse moltissime sue notizie da un manoscritto inedito ed introvabile del Mannelli (19), in parte riportate nel 1600 dall’abate Ughelli (20) e, poi in seguito pubblicate da studiosi locali come Ebner (21) e Acocella (22). La principale notizia che il Laudisio (17-18) e poi il Duchesne (14) riportarono è la lettera (epistola) di papa Gregorio Magno (Gregorio I) che scrisse a Felice, Vescovo di Agropoli (11). Questa interessantissima lettera del papa Gregorio magno è tratta dal grande epistolario (raccolta di lettere) del papa che si lamentava dell’invasione Longobarda (11). Paolo Cammarosano (24), ci parla del registro episcopale di papa Gregorio Magno, scritto tra il 590 e il 604: ci offre la sua copiosa messe d’informazioni sulla situazione episcopale di quegli anni in Italia, il dente longobardo non sembra avere affatto dilaniato la geografia diocesana d’Italia”, riferendosi a ciò che affermava papa Gregorio in una delle sue tante epistole (11). Il Duchesne (14), attingendo dalle lettere di papa Gregorio Magno, scriveva in proposito: “L’antica regione III comprendeva la Lucania ed il Brutium. In Lucania non ci fu, nel periodo di dominazione bizantina, che un esiguo numero di Vescovadi. All’interno non posso citare che Potentia, Grumentum e Consilinum (Marcelliana); sulla costa Tirrenica si conoscono quelli di Paestum, Velia, Buxentum (l’odierna Policastro Bussentina) e Blanda (il Duchesne la pone a Maratea). Uno solo, quello di Paestum, sopravvisse all’invasione longobarda, fino alla quale tutti si erano conservati. I primi tre sono menzionati nella corrispondenza di Pelagio I, verso il 560 (J., 969, 1015, 1017 ). Al tempo di San Gregorio, uno dei servitori della chiesa di Grumentum viveva ritirato in Sicilia (Ep., IX, 209, Luglio 599). Dopo di lui, non si trovano più tracce attendibili di queste chiese. In quanto a quelle della costa, una lettera di San Gregorio, nel 592 (11), sembra l’atto di decesso dei vescovadi di Velia, Buxentum e Blanda. Sono completamente disorganizzati. Il Papa affida al Vescovo di Paestum il loro mobilio sacro e la cura del loro personale. Lo stesso Vescovo di Paestum viene qualificato come Episcopus di Agropoli. E’ stato costretto a lasciare la sua città episcopale per rifugiarsi nella località costiera e fortificata di Agropoli, come nel IX secolo sarà costretto a trasferirsi nell’interno di Capaccio.” (14). Scrive la Bencivenga –  Trimllich (40), sulla scorta del Gaetani (9), a proposito di Bussento che “La città è ancora menzionata nel VI secolo d.C. da Stefano Bizantino (9), quando era già fiorente sede vescovile, essendoci noti per l’anno 501 il vescovo Rustico e per il 592 il vescovo Agnello (10).”. Sempre dal Gaetani (9), sulla scorta del manoscritto del Mannelli (19), nel suo ‘Mannelli Luca, Notizie di Policastro Bussentino ecc.., op. cit., a p. 17, leggiamo in proposito che “Ritrovasi mentionata ancora questa città nella Lucania da …Stefano Bizantino disse sia città di Sicilia (2 – si veda nota Stef. de Urbihus), havendo scritto bene Stefano che fusse Città di Sicilia, ancorchè nella Lucania, poichè anticamente questa provincia fu detta Sicilia, e così puote anco dirsi hoggigiorno il Regno tutto.”. Il Gaetani, proseguendo il suo racconto e riferendosi a Policastro, scriveva: “sembra che questa da quelle comuni sventure stesse esente: si che non soggiacesse alla barbarie de’ Gothi, nè de’ Longobardi, ancorchè Alarico, predata Roma, ponesse a sangue e fuoco tutta questa regione fino a Reggio, e poi…Autari, Re de’ Longobardi…penetra con egual barbarie e fierezza. Di ciò puote darcene congettura il ritrovarsi che in que’ tempi calamitosi i Vescovi di Bussento intervennero in alcuni Concili celebrati in Roma. Così nell’anno 501, regnando in Italia Teodorico re Gotho, leggesi nella 3° Sinodo sotto Simmaco sottoscritto, ‘Ruslicus Episcopus Buxentinus’. “. Il Gaetani (9), nel suo ‘L’antica bussento, oggi Policastro-Bussentino, la sua prima sede episcopale, studio storico-critico ecc..’, parlando della Diocesi di Bussento, scriveva in proposito: “Ecco due nomi della primitiva serie, anteriore al mille: Rustico sulla fine del V secolo e sui principi del VI secolo, di cui sappiamo che nel 501 intervenne al Concilio Romano sotto papa s. Simmaco, sottoscrivendosi Rusticus Episcopus Buxentinus; e Sabbazio, che nel 649 sedeva al Concilio Lateranense sotto papa s. Martino I contro Monoteliti, trovandosi sottoscritto: Sabbatius Episcopus Buxentinus subscripsi. Dunque nel secolo VII,  ed anche prima, nel secolo V, esisteva la sede Bussentina. Se poi quel Vescovo Agnello di cui fa menzione S. Gregorio nel suo ‘Libro 4, ep. VI’, scritta il 592 a Cipriano diacono e rettore del Patrimonio di S. Pietro in Sicilia, fosse vescovo di Bussento, ovvero di Velia o Blanda, è incerto, nè si potrà decidere finchè nuovi documenti non vengano ad accertarlo.”. Sempre il Gaetani (9), nello stesso saggio, scriveva: “Giuseppe Volpi (10), fu il primo che fece arrogare senza verum fondamento di Policastro dovuto per giustizia (dice Costantino Gatta, Memorie Topografico-Storiche della Provincia di Lucania pag. 34-35 nota) tanto è improprio ed impertinente a quello di Capaccio) avvenuta il 27 agosto 1741, fu eletto Vescovo di quella Sede Pietro Antonio Raimoni, che ben conoscendo l’uso improprio fatto da’ suoi antecessori del titolo Episcopus Buxentinus, si scrisse : Petrus Antonius Raymondi Episcopus Caputaquensis, Paestanus, Velinus, Agropolitanus”. Il Gaetani (9), nella sua nota (5), confuta le tesi del Volpi (10), tratte dal saggio del Vescovo di Capaccio Monsignor Francesco Nicolaio o Nicolai Francisci (Vescovo di Capaccio)(42), si parla della Diocesi di Capaccio e di Buxentum e Policastro. Il Nicolao, scriveva: Buxentum Romanorum Colonia, et Sedes Episcopalis; eiusque situs melius statuitur in loco, ubi nunc Pixuntum , vulgo Pisciotta, Diocesis Caputaquensis, quam in eo ubi Sedes Policastrensis, cum evincit nominis analogia, cum libera Y apud  Latinos mutatur in V, ut ex antiquis Geographis, qui Buxentum derivant a buxorum copia, quae ibi habetur, cui sufragantur recentiores. Tandem quia magis consonant cum epistola s. Pontificis (Gregorii Magni), dum Felici de Agropoli visitationes Buxentinae Sedis injungit, eam asseruit esse in vicino Agropolitanae. Policastrensem vero longius distare, nulli erat dubium, ut ex concordi sensu abbatis a s. Paulo in laudatissimo Geographia Sacrae opere, Lucae Holstenii loco adducto, Philippi Ferrarii v. Buxentum, Leandri Alberti in Italia descript. pag. 198.”Il Laudisio (17-18), sulla scorta di Pietro Giannone (41), scriveva in proposito di Rivello: “dov’è ora la città di Rivello, i cui cittadini si vantano di discendere dall’antica Velia che sorse presso il capo Palinuro. Poichè Velia fu distrutta nel 915 dai Saraceni, i superstiti si rifugiarono in questo castello che era stato ben fortificato dai Longobardi nel VI secolo al tempo del loro quarto re Agilulfo e del secondo duca di Benevento Arechi. Difatti i Longobardi estesero il loro ducato di Benevento sino ai Bruzi e, attraverso l’entroterra, sino a Cosenza, ma non conquistarono le coste, dove i bizantini dominavano indisturbati. Gli abitanti di Velia, esuli della loro città, chiamarono Rivelia, quasi Velia rinata, la nuova località in cui si fissarono, e sopra i battenti dell’ingresso centrale della Chiesa Madre, che è dentro le mura del paese, posero una lapide che ricordasse la loro patria d’origine, e vi aggiunsero lo stemma di marmo dell’antica Velia che portava incise nel cerchio che lo chiudeva queste parole: Velia di nuovo rinata è Rivello ricordo perenne. Anche la spesso citata pastorale del Metropolita di Salerno chiama questa località col nome di Revelia ecc..”. Giannone (41), scriveva in proposito: “Non molto dapoi stesero i Longobardi i confini del Ducato Beneventano infino a Salerno; e molte altre città verso Oriente infine a Cosenza con tutte le altre terre mediterranee furono a’ Greci tolte. Ed anche questo Ducato Napoletano sarebbe passato sotto il dominio de’ Longobardi, come passarono nel correre degli anni tutte l’altre città mediterranee del Regno (…), se due ragioni non l’avessero impedito. Ciò sono, il non essere i Longobardi forniti di armate di mare, nè molto esperti degli assedj di piazze marittime; e l’aver i Napoletani, per ragione anche de’ loro siti, ben fortificata Napoli e le altre piazze marittime a loro soggette.”. Il Laudisio (17-18), traendo alcune notizie dal manoscritto del Mannelli (19), dalle Memorie Lucane, Cap. II, p. 34 del Gatta (3), dal Tomo I, part. II, Cap. VI, parag. I, n. XIII, pag. 135 del  Troyli (6), e dal Barrio (21), scriveva nel 1831 in proposito: Perciò si perde davvero nella notte dei tempi il motivo per il quale le ultime quindici località indicate nella pastorale sono oggi, di fatto, di pertinenza della Diocesi di Cassano Ionico. Vi è un’antica tradizione del paese di Scalea non molto distante dall’Isola di Dida e una volta chiamato Talao, di cui Strabone ci tramanda queste notizie: Vi è il fiume Talao e il piccolo Golfo di Talao; vi è poi la città di Talao, poco lontana dal mare, ultima città della Lucania e colonia dei Sibariti. Dunque questa antica tradizione, ancora viva a Scalea, narra che la città di Talao fu eretta nei tempi antichi e sede vescovile, e che furono assegnate alla sua diocesi proprio quelle quindici località; ma poichè il primo vescovo venne ucciso, la sede vescovile fu subito soppressa e le quindici località non vennero più restituite al vescovo di Policastro, ma vennero assegnate al vescovo di Cassano Ionico, quasi per un’antica libera collazione del Pontefice al vescovo di Cassano Ionico che dipende immediatamente dalla Santa Sede Apostolica. E’ questa soltanto una congettura, ma è molto diffusa.”.

Sapri, nel 649 d.C. (VII secolo) aveva un porto ed una comunità cristiana

Andrebbe ulteriormente indagata la notizia riferitaci dal Tancredi (2) che, in un suo scritto su Sapri affermava: “Aveva un porto, chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel ‘649; aveva una comunità cristiana.”. Il Tancredi (2), riguardo questa notevolissima notizia che ci riporta di secoli indietro nella ricostruzione storiografica di Sapri, non cita nessuna fonte storica o archivistica. Certamente, la notizia che nell’anno 649, esistesse a Sapri una ‘comunità cristiana’, fa ritornare di molti secoli prima la datazione di un centro abitato saprese. Del VII secolo, il Duchesne (14), attingendo dalle lettere di papa Gregorio Magno (11), scriveva in proposito che, al tempo di San Gregorio, uno dei servitori della chiesa di Grumentum viveva ritirato in Sicilia (Ep., IX, 209, Luglio 599) e che dopo di lui, non si trovano più tracce attendibili di queste chiese. Scrive sempre il Duchesne (14) che di quegli anni (VII secolo), il registro episcopale di papa Gregorio Magno, scritto tra il 590 e il 604: “ci offre la sua copiosa messe d’informazioni sulla situazione episcopale di quegli anni in Italia, ecc..”. Dal punto di vista storiografico, ci chiediamo quale fosse l’origine dell’interessantissima notizia riferitaci dal Tancredi (2), secondo cui: “Sapri, aveva un porto, chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel ‘649; aveva una comunità cristiana.”. Il Tancredi (2), riguardo questa notizia, non cita nessuna fonte storica o archivistica ma io credo che il Tancredi, tragga l’interessante notizia da una delle lettere del papa Gregorio Magno citate dal Laudisio (17- 18) e poi dal Duchesne (14). Infatti, il Romanelli (25) ed il Troyli (6), parlando di Blanda riferendosi alla lettera del papa Gregorio Magno (11)(S. Gregorio, lib. II, epist. 29 – II, 43), affermano essere: sede vescovile nei primi secoli del Cristianesimo e dalla soscrizione di Pasquale vescovo di Blanda negli atti del Concilio Lateranense sotto papa Martino nel 649.” (25-11). Sempre riguardo la notizia del Concilio Lateranense dell’anno 649 (a cui faceva riferimento il Tancredi), ne fa memoria il Laudisio (17) che, parlando di Blanda (Visconti, op. cit. , nota 10, p. 88-89), dice: “…e fra di lui vescovi vi è memoria di Pasquale, che intervenne al Concilio Lateranense sotto il pontificato di Martino ( che si svolse nell’anno 649). Il Laudisio, trae questa notizia da: “an. 649 ex Binnio, tomo IV, pag. 736″. Della notizia del Concilio Lateranense tenuto nell’anno 649, ne parla Biagio Cataldo – di cui possediamo un suo scritto inedito e che aiutò il Visconti alla stesura del suo libro sul Laudisio (18) che, parlando della sede vescovile di Buxentum, afferma che al Concilio Lateranense dell’anno 649, al tempo del pontefice S. Martino, vi partecipò il suo vescovo ‘Sabbazio’, riferendo nelle sue note bibliografiche dice di aver tratto la notizia da Binius Severino, Concilia Generalia et Provincialia, Colonia, 1606, vol. IV, p. 736. Scriveva l’Ebner (15), in proposito: “Nel VII secolo, si conoscono solo i nomi di Giovanni di Paestum e di Sabbazio di Bussento, per aver partecipato al Concilio romano nel 649 che costò poi l’esilio a Martino I (649-653). Nel 1898 sarà il Duchesne (….) a confermare la notizia di una probabile prima distruzione dell’area di Policastro da parte (forse) dei Longobardi del Ducato di Benevento. La notizia, era stata confermata da monsignor Luis Marie Olivier Duchesne (….), nel suo “I Vescovadi Italiani durante l’invasione longobarda di monsignor Duchesne” (che ritoviamo i Gianluigi Barni (….), nel suo “I Longobardi in Italia”, ed. De Agostini, Parigi, 1974). Il Barni (….), a p. 449, nelle sue note postillava che: “Duchesne (L.), – Les  premiers temps de l’Etat pontifical, Parigi, 1898”. In un’altra mia nota avevo scritto: Duchesne L., Les eveches d’Italie et l’invasion Lombarde , in Mélanges d’archéologie et d’historique publies par l’ecole francais de Rome, XXIII, 1903, p. 88 e 25 (1905), pp 365– 399 (cfr. p. 367); stà in Barni G., op. cit. (….). Il Duchesne (….), (si veda il testo di Barni, pp. 378), parlando dei primi Vescovi della Regione III scriveva che: “Questa zona rimase bizantina. Salerno lo era al tempo di Papa Honorius (6) (625-638). Non saprei dire se era diventata longobarda, nel momento in cui il suo Vescovo assistette nel 649 al concilio romano, ma penserei piuttosto il contrario. A questo concilio assistettero, con quello di Salerno, i Vescovi di tre città della costa lucana, quelli di ‘Paestum’, Buxentum e ‘Blanda; nessuno dei quattro figura al concilio del 679. Sembra proprio che nell’intervallo sia accaduto qualcosa.”. Sempre il Duchesne (vedi il Barni, p. 384), in proposito scriveva pure che: “Tuttavia, passata la tempesta, Buxentum e Blanda riuscirono a ricostruirsi. Si trovano i loro vescovi al Concilio del 649 con quelli di Paestum e Salerno. Suppongo che le autorità bizantine riuscirono a reinsediarsi in queste località protette sia dalla loro situazione marittima, sia dalle guarnigioni di Salerno, Conza e di ‘Bruttium’ (Calabria). Ma sia che fossero o non fossero Longobardi nel 649, le cose cambiarono poco dopo. Non si parla più, in seguito, dei Vescovi di ‘Buxentum’ e di ‘Blando’. ‘Paestum’, invece riuscì a conservarsi. Così, nella parte lucana di questa regione, i Vescovadi raggiunti dall’invasione longobarda spariscono tutti, salvo una eccezione quella di ‘Paestum’; benchè anche questa eccezione sia dovuta al fatto che il Vescovo di ‘Paestum’ trovò rifugio nella parte bizantina della sua Diocesi.”. Il sacerdote Rocco Gaetani (9), sulla scorta del manoscritto del Mannelli (19), nel suo ‘Mannelli Luca, Notizie di Policastro Bussentino ecc.., op. cit., a p. 17, proseguendo il suo racconto e riferendosi a Policastro, scriveva “sembra che questa da quelle comuni sventure stesse esente: …Di ciò puote darcene congettura il ritrovarsi che in que’ tempi calamitosi i Vescovi di Bussento intervennero in alcuni Concili celebrati in Roma. Nell’anno 649 dominando quivi i Longobardi nel Concilio sotto il Papa Martino, pur si legge ‘Sabbatius Episcopus S. Buxentinae Ecclesiae subscripsi: segno manifesto che la città era in buono stato; ne da Barbari Gothi, o Longobardi stata distrutta come di tante altre di questi paesi ritrovasi scritto.”.  Un altro erudito, il Curzio (43), parlando dell’antica città di Blanda, ci ricorda che essa fu visitata da Bacchilo, primo Arcivescovo di Messina, ivi mandato qualche anno dopo la fondazione, nel ’68 d.C. dall’Apostolo S. Paolo, a visitare le prime comunità cristiane costiere. Secondo il Curzio (43), il vescovo Bacchilo, partito da Blanda, attraversate le falde del Monte Coccovello, raggiunse Buxentum e poi passò a visitare ‘Vibone ad Sicam’ (43). Il Curzio, dice in proposito di Blanda: “Di origine enotrica, fu Lucana, come la ricordà Tito Livio nel 214 a.C., cittadina interna secondo Tolomeo, ma sulle spiagge Tirreniche secondo Plinio. Bacchilo radunò i discepoli cristiani di Blanda nella casa di Tileno. Altra persona oriunda di Blanda era una certa Letonia di Velia. Blanda Jiulia ebbe sei vescovi dal III secolo in poi: Giuliano, con lapide (250-320); Elia, presente al Concilio Ecumenico di Calcedonia (451); ignoto (+ 592), per cui il papa S. Gregorio I Magno affida la Diocesi al Vescovo Felice di Agropoli; Romano (592 – 640), presente al Concilio Romano del 595-601; Pasquale (640-649), presente al Sinodo romano di papa Martino e, Gaudioso, presente al Sinodo romano di papa Zaccaria (743). “.

Nel ‘649 d.C. (VII sec. d.C.), Sapri aveva un porto ed una comunità cristiana

Andrebbe ulteriormente indagata la notizia riferitaci da Luigi Tancredi (4) che, in un suo scritto su Sapri affermava: “Sapri, aveva un porto, chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel ‘649; aveva una comunità cristiana.”. Il Tancredi (4), riguardo questa notizia, non cita nessuna fonte storica o archivistica. Certamente, la notizia che nell’anno 649, esistesse a Sapri una ‘comunità cristiana’, fa ritornare di molti secoli prima la datazione di un centro abitato saprese. Come si è visto dai nostri studi ed approfondimenti in base alla storiografia locale ed alla toponomastica dei luoghi indicati come ad esempio sulle antiche carte nautiche, oltre alle evidenze storiche che derivano dalle preesistenze archeologiche in località S. Croce e quelle sparse per le colline sapresi, soprattutto i rinvenimenti in località ‘Cordici‘, oppure le notizie riportate da alcuni storici del ‘600 come Costantino Gatta (31) e del ‘700 come l’Antonini (24), dopo la caduta dello Impero romano, le notizie storiche riguardo Sapri ed il Gofo di Policastro in genere, si fanno labili e scarse, tanto da far ritenere alcuni studiosi che questi siti, come ad esempio il porto romano di Sapri, dopo la caduta dello Impero romano, fossero stati del tutto abbandonati. Del VII secolo, il Duchesne (14), attingendo dalle lettere di papa Gregorio Magno, scrive in proposito: Al tempo di San Gregorio, uno dei servitori della chiesa di Grumentum viveva ritirato in Sicilia (Ep., IX, 209, Luglio 599). Dopo di lui, non si trovano più tracce attendibili di queste chiese.” Di quegli anni, il registro episcopale di papa Gregorio Magno, scritto tra il 590 e il 604: ci offre la sua copiosa messe d’informazioni sulla situazione episcopale di quegli anni in Italia, ecc..”. Dal punto di vista storiografico, qual’è l’origine dell’interessantissima notizia riferitaci dal Tancredi (4), secondo cui: “Sapri, aveva un porto, chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel ‘649; aveva una comunità cristiana.” . Il Tancredi (4), riguardo questa notizia, non cita nessuna fonte storica o archivistica. Credo che il Tancredi, tragga l’interessante notizia da una delle lettere del papa Gregorio Magno citate dal Laudisio (6-7) e poi dal Duchesne (32). Infatti, il Romanelli (33) ed il Troyli (34), parlando di Blanda riferendosi alla lettera del papa Gregorio Magno (11)(S. Gregorio, lib. II, epist. 29 – II, 43), affermano essere: sede vescovile nei primi secoli del Critianesimo e dalla soscrizione di Pasquale vescovo di Blanda negli atti del Concilio Lateranense sotto papa Martino nel 649.” (25-11). Sempre riguardo la notizia del Concilio Lateranense dell’anno 649 (a cui faceva riferimento il Tancredi), ne fa me-moria il Laudisio (6) che, parlando di Blanda (Visconti, op. cit. , nota 10, p. 88-89), dice: ” …e fra di lui vescovi vi è memoria di Pasquale, che intervenne al Concilio Lateranense sotto il pontificato di Martino ( che si svolse nell’anno 649). Riguardo questa notizia, il Laudisio la trae da: “an. 649 ex Binnio, tomo IV, pag. 736”. Della notizia del Concilio Lateranense tenuto nell’anno 649, ne parla Biagio Cataldo (di cui possediamo un suo scritto inedito e che aiutò G.G. Visconti alla stesura del suo libro sul Laudisio – 18) che, parlando della sede vescovile di Buxentum, afferma che al Concilio Lateranense dell’anno 649, al tempo del pontefice ‘S. Martino’, vi partecipò il suo vescovo Sabbazio, riferendo nelle sue note bibliografiche dice di aver tratto la notizia da Binius Severino, Concilia Generalia et Provincialia, Colonia, 1606, vol. IV, p. 736. Notizia che confermiamo avendo scaricato il testo scritto in latino del 1600.

Nel ‘649 (VII sec. d.C.), per Lanzoni l’ubicazione di “Blanda Iulia”, nel Porto di Sapri

Francesco Lanzoni (…), p. 323, parla delle diocesi di ‘Buxentum’ e di ‘Blanda Julia‘ che pone a Sapri (forse da quì nacque la citazione del Tancredi di un porto a Sapri nel 649 a.C.). Vorrei invece approfondire la notizia del Lanzoni (…), secondo cui al porto di Sapri, poneva la Diocesi di Blanda Julia. Il Lanzoni (…), a p. 323, parlando delle antiche Diocesi crisiane, oltre a citare quella di “Buxentum”, cita quella di “Blanda Julia (Porto di Sapri)” , in proposito scriveva che:

Lanzoni

(Fig….) Lanzoni (…), p. 323

Orazio Campagna (…) che a p. 257, nella nota (64), lo citava ed in proposito scriveva che: “(64) F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia, etc., cit. I, p. 323. Il Lanzoni fa riferimento a Jaffé-Loewenfeld, Regesta Pontificum Romanorum ab condita Ecclesia ad annum post Christum natum MCXCVIII, 2 voll., Lipsia, 1888 (1195).”Riguardo Sapri, il Lanzoni, a p. 323, in proposito scrive che: “Blanda Iulia (Porto di Sapri ?): 1. Iulianus, età incerta (secolo V-VI) (CIL, XI, 1 e 3, 458). Chiesa vacante: 592 (J-L, 1195).; 2. “Romanus episcopus civitatis Blentanne” : 595. L’edizione maurina del ‘Registrum’ lesse Bleranae (Blera nell’Etruria) da ‘Bleritanae’, invece di ‘Blentanae’. Romano intervenne al sinodo romano del 5 luglio di quell’anno. Le diocesi di Paestum, di Velia, di Buxentum e di Blanda erano sulla costa mediterranea.”. Di questi argomenti ho parlato nel mio saggio ivi: ‘La città sepolta nelle campagne sapresi’ e in ‘L’opera di cristianizzazione, le prime diocesi, l’anacoretismo ascetico ed il monachesimo nel basso Cilento’. Nei due miei saggi, cerco di fare il punto su ciò che è stato ipotizzato e scritto circa la presenza e le testimonianze di monaci iconoduli e basiliani stanziatisi nella notra terra. Ma come abbiamo visto nella pagina 323, il Lanzoni (…), a p. 323, sebbene scrivesse “Blanda Iulia (Porto di Sapri ?): ecc..ecc.., non riporta vescovi nell’anno 640 o 649. Il Lanzoni, scrive di Blanda Iulia, e di un suo vescovo chiamato Romano, presente il 5 luglio al sinono romano dell’anno 595, ma non dice nulla del sinodo romano dell’anno 640 o 649 a cui invece partecipò un altro vescovo di Blanda Iulia. Nel 1985, il sacerdote Luigi Tancredi (2), nel suo ‘Sapri giovane e antica’, a p. 34, parlando del suo Porto e della sua chiesa, affermava che: “Aveva un porto, chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel ‘649; aveva una comunità cristiana.”. La notizia è interessantissima perchè ci fa ritornare agli albori della storia di Sapri, al secolo VII, all’epoca delle incursioni vandaliche e della prima cristianizzazione dell’area. Il Tancredi (…), però non dice nulla a riguardo le fonti da cui avesse tratto l’interessante notizia. La notizia di un vescovo di Blanda Julia, che nell’anno 640-649, partecipò al sinodo romano, è del sacerdote Nicola Curzio (…), che nel suo ‘Melania di Blanda, ovvero l’Aurora del Vangelo sul litorale del Tirreno dall’Etna ai sette colli’, pubblicato nel 1910, in proposito scriveva che: “Di origine enotrica, fu Lucana, come la ricordà Tito Livio nel 214 a.C., cittadina interna secondo Tolomeo, ma sulle spiagge Tirreniche secondo Plinio. Bacchilo radunò i discepoli cristiani di Blanda nella casa di Tileno. Altra persona oriunda di Blanda era una certa Letonia di Velia. Blanda Jiulia ebbe sei vescovi dal III secolo in poi: Giuliano, con lapide (250-320); Elia, presente al Concilio Ecumenico di Calcedonia (451); ignoto (+ 592), per cui il papa S. Gregorio I Magno affida la Diocesi al Vescovo Felice di Agropoli; Romano (592 – 640), presente al Concilio Romano del 595-601; Pasquale (640-649), presente al Sinodo romano di papa Martino e, Gaudioso, presente al Sinodo romano di papa Zaccaria (743). “. Dunque, riepilogando, secondo il Curzio (…), nell’anno 640-649 (secolo VII d.C., epoca Longobarda), a Blanda Iulia, forse il “Portus” di Sapri, come credeva il Lanzoni (…), vi erano due vescovi: il primo chiamato “Pasquale”, presente al Sinodo romano di papa Martino, e nell’anno 743, l’altro vescovo chiamato “Gaudioso” presente al Sinodo romano di papa “Zaccaria”. Ma se è vero ciò che scriveva il Curzio (…), mi chiedo se si fosse tratto in inganno Pietro Ebner (15) che, sulla scorta del Duchesne (14), in proposito scriveva che: “Nel VII secolo, si conoscono solo i nomi di Giovanni di Paestum e di Sabbazio di Bussento, per aver partecipato al Concilio romano nel 649 che costò poi l’esilio a Martino I (649-653). La notizia, era stata confermata dal Duchesne (14) che, parlando dei primi Vescovi di Policastro, dice in proposito: “Si trovano i loro vescovi al Concilio del 649 con quelli di Paestum e Salerno” (11). Dunque, alla citazione che faceva il Curzio (…), che nell’anno 640-649, vi fosse un vescovo di Blanda Iulia al Sinodo romano, il Tancredi (…), nel suo  ‘Le città sepolte nel Golfo di Policastro’, a p. 82, che pure aveva scritto, nel suo ‘Sapri, giovane e antica’: “Aveva un porto, chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel ‘649; aveva una comunità cristiana.”, in un altro suo passo, parlando delle diocesi tirreniche nel VII secolo d. C., epoca Longobarda, in proposito scriveva che: il vescovo Felice di Agropoli, che assolve bene il suo compito, perchè la fila dei presuli Blandani riappare nei concili romani, fino al 743, col vescovo ‘Gaudioso’ (30). L’interruzione dal 640 al 740 non è in questo connesso indicativo, perchè corrisponde all’occupazione bizantina, che include la dipendenza del vescovado dal Patriarca di Costantinopoli, e non da Roma.”. Il Tancredi, nella sua nota (30) a p. 82, postillava che: “(30) Mansi, op. cit. vol. XII, 369.”. Vi sono delle evidenti contraddizioni in Tancredi (…), in quanto egli ha scritto che nel VII secolo d. C., a Sapri, che il Lanzoni (…), crede essere il “Portus” di Blanda Iulia, altra diocesi del Tirreno, “aveva un porto chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel 649” e, dall’altra parte, sempre parlando delle diocesi tirreniche in quel periodo, scriveva che vi era stato un silenzio di notizie storiche dagli anni 640 al 743, in quanto a suo avviso, questa zona, era occupata dai Bizantini che includeva la dipendenza del vescovado dal Patriarca di Costantinopoli e non dalla chiesa Romana.

Corcia, p. 64

(Figg….) Corcia Nicola (…), pp. 62-63-64

Il Duchesne (…), nel suo studio, parlando della ‘Regione III’ dice in proposito: In quanto a quelle della costa, una lettera di San Gregorio nel 592 (Ep., II, 42, luglio 592), sembra essere l’atto di decesso dei vescovadi di Velia, Buxentum e Blanda…… Tuttavia, passata la tempesta, Buxentum e Blanda riuscirono a ricostituirsi. Si trovano i loro Vescovi al Concilio del 649 con quelli di Paestum e di Salerno. Suppongo che le autorità bizantine riuscirono a reinsediarsi in quelle località protette sia dalla loro situazione marittima, sia dalle guarnigioni di Salerno, di Conza e di Brutium. Ma sia che fossero o non fossero Longobarde, nel 649, le cose cambiarono poco dopo.” (…). Dunque, alla citazione che faceva il Curzio (…), che nell’anno 640-649, vi fosse un vescovo di Blanda Iulia al Sinodo romano, il Tancredi (…), nel suo  ‘Le città sepolte nel Golfo di Policastro’, a p. 82, che pure aveva scritto, nel suo ‘Sapri, giovane e antica’: “Aveva un porto, chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel ‘649; aveva una comunità cristiana.”, in un altro suo passo, parlando delle diocesi tirreniche nel VII secolo d. C., epoca Longobarda, in proposito scriveva che: il vescovo Felice di Agropoli, che assolve bene il suo compito, perchè la fila dei presuli Blandani riappare nei concili romani, fino al 743, col vescovo ‘Gaudioso’ (30). L’interruzione dal 640 al 740 non è in questo connesso indicativo, perchè corrisponde all’occupazione bizantina, che include la dipendenza del vescovado dal Patriarca di Costantinopoli, e non da Roma.”. Il Tancredi, nella sua nota (30) a p. 82, postillava che: “(30) Mansi, op. cit. vol. XII, 369.”. Vi sono delle evidenti contraddizioni in Tancredi (…), in quanto egli ha scritto che nel VII secolo d. C., a Sapri, che il Lanzoni (…), crede essere il “Portus” di Blanda Iulia, altra diocesi del Tirreno, “aveva un porto chiaramente menzionato nel VII secolo e precisamente nel 649” e, dall’altra parte, sempre parlando delle diocesi tirreniche in quel periodo, scriveva che vi era stato un silenzio di notizie storiche dagli anni 640 al 743, in quanto a suo avviso, questa zona, era occupata dai Bizantini che includeva la dipendenza del vescovado dal Patriarca di Costantinopoli e non dalla chiesa Romana.

Nel 679 (VII sec. d.C.), la scomparsa delle prime Diocesi cristiane di Velia, Bussento e Blanda

Dopo la metà del VII secolo non si hanno più notizie della diocesi, che fu probabilmente soppressa al tempo delle guerre iconoclaste, che a partire dall’VIII secolo hanno sottratto parte dell’Italia meridionale alla giurisdizione ecclesiastica di Roma per unirla a quella del patriarcato di Costantinopoli. Questo determinò, almeno nel Cilento, la scomparsa delle antiche diocesi sostituite da eparchie monastiche, tra cui si ricordano quelle del Mercurion, del Latinianon e del Lagonegro. Due cenobi monastici, San Pietro e San Giovanni Battista, furono eretti a Policastro dal patriarca Polieucte di Costantinopoli e molti furono i monasteri greci che sorsero nella regione, tra cui quelli di San Giovanni a Piro e San Cono di Camerota. Scrive il Barni (8), dopo aver parlato della Diocesi di Bussento al tempo del vescovo Felice di Agropoli (di Capaccio), in proposito che: “….ma è probabile che una prima devastazione del territorio bussentino sia avvenuta intorno al 640 e comunque tra la fine del VII e la prima metà del secolo VIII (7). Ma che fossero o non fossero Longobardi nel 649, le cose cambiarono poco. Ma si parla più in seguito dei vescovi di Buxentum e di Blanda. Paestum, invece riuscì a conservarsi. Così, nella parte……di questa regione i vescovadi raggiunti dall’invasione longobarda spariscono tutti, salvo un’eccezione quella di Paestum, benchè anche questa eccezione sia dovuta al fatto che il Vescovo di Paestum trovò rifugio nella parte bizantina della sua Diocesi” (….). Piero Cantalupo (….), nel suo “Acropolis – Appunti per una storia del Cilento”, nel suo cap. III, sui Longobardi, a p. 69, dopo aver detto delle conquiste del territorio salernitano da parte dei Longobardi Beneventani, in proposito scriveva che: “I Bizantini erano in gravissime difficoltà in Oriente (1) ed avevano praticamente abbandonata a se stessa l’Italia; forse fu allora la flotta di Napoli, presente nelle acque della Lucania ‘Occidentale’, a garantire strettamente la sopravvivenza di Agropoli, a non fu in grado di arginare la penetrazione beneventana del massiccio del Cilento. La regione, unitamente alla limitrofa Britia, costituivano gli ultimi baluardi greci frapposti tra i possedimenti longobardi della Campania e quelli di Calabria, sicchè vennero investiti negli anni tra il 671 ed il 677, al tempo del duca Romualdo, lo stesso che strappò ai Bizantini vasti territori della Puglia (2), dando al Ducato Beneventano quell’estensione che, con poche variazioni, avrebbe conservata anche in seguito. La precaria situazione delle due regioni è documentata dal fatto ce nel Concilio Romano del 679 furono assenti non solo il vescovo “pestano” di Agropoli, ma anche quelli di Blanda e di Bussento. La conquista ebbe un assetto definitivo solo nei primi tempi del ducato di Arechi II, ecc…”. La notizia era stata confermata da monsignor Luis Marie Olivier Duchesne (….), nel suo “I Vescovadi Italiani durante l’invasione longobarda di monsignor Duchesne” (che ritoviamo i Gianluigi Barni (….), nel suo “I Longobardi in Italia”, ed. De Agostini, Parigi, 1974). Il Barni (….), a p. 449, nelle sue note postillava che: “Duchesne (L.), – Les  premiers temps de l’Etat pontifical, Parigi, 1898”. In un’altra mia nota avevo scritto: Duchesne L., Les eveches d’Italie et l’invasion Lombarde , in Mélanges d’archéologie et d’historique publies par l’ecole francais de Rome, XXIII, 1903, p. 88 e 25 (1905), pp 365– 399 (cfr. p. 367); stà in Barni G., op. cit. (….). Il Duchesne (….), (si veda il testo di Barni, p. 384), parlando dei primi Vescovi della Regione III scriveva che: Non si parla più, in seguito, dei Vescovi di ‘Buxentum’ e di ‘Blando’. ‘Paestum’, invece riuscì a conservarsi. Così, nella parte lucana di questa regione, i Vescovadi raggiunti dall’invasione longobarda spariscono tutti, salvo una eccezione quella di ‘Paestum’; benchè anche questa eccezione sia dovuta al fatto che il Vescovo di ‘Paestum’ trovò rifugio nella parte bizantina della sua Diocesi.”.

Nel ‘722-794, i Bizantini, Carlo Magno ed i Longobardi

Di questo periodo ha parlato Piero Cantalupo (….), nel suo “Acropolis – Appunti per una storia del Cilento”, che a p. 76, in proposito scriveva che: “Agropoli dovette allora la sua sopravvivenza, oltre che alla sua condizione di solida fortezza, ai legami col vicino ducato di Napoli, piuttosto che ai più lontani Bizantini di Sicilia; sicchè quando, nel 766, questo ducato si separò materialmente da Bisanzio (1), anche Agropoli, alla stregua deglialtri terittori bizantini della Campania, gravitò nell’orbita della sua autonomia. In quel tempo le uniche città su Tirreno in grado di muovere flotte erano Napoli, Gaeta, Sorrento ed Amalfi, nominalmente bizantine e sottoposte allo stratego di Sicilia, ma tutte strette intorno a Napoli nell’interesse della difesa comune contro i Longobardi. Infatti, Arechi II di Benevento, dopo essersi autoproclamatosi Principe nel 774, iniziò a fortificare Salerno, mostrando non solo di voler soppiantare il predominio di Napoli sulle coste del Tirreno, ma minacciando anche la sopravvivenza stessa della città. Nel 787 la discesa effettuata da Carlo Magno nel territorio beneventano, per costringere all’obbedienza Arechi, fece momentaneamente avvicinare il Principe ai Napoletani; allontanatosi però il pericolo dell’imperatore franco, Arechi riprese la sua politica di ingerenza e di predominio nei riguardi di Napoli. Pertanto entro in trattative con l’imperatrice bizantina Irene, onde ottenere il titolo di ‘Patrizio’, titolo che gli avrebbe dato modo di legalizzare il suo tentativo di impadronirsi dei residui territori greci dell’Italia meridionale. Irene accolse la richiesta ed inviò il patrizio imperiale Teodoro, che era il ‘dispositor’ subordinato allo stratega di Sicilia, insieme a due ‘spatarii’ per portare le insegne di Patrizio ad Arechi. Essi giunsero però nel porto di Salerno nel dicembre del 787, quando il Principe era già morto il 26 agosto di quell’anno, e, poichè i Salernitani erano allora in trattative con gli ambasciatori di Carlo Magno, fu vietato loro di approdare; si diressero così verso la bizantina Agropoli, dove sbarcarono e rimasero fino al successivo 19 gennaio, allorchè si recarono via terra, nuovamente alla volta di Salerno; qui, partiti nel frattempo gli ambasciatori franchi, furono finalmente ricevuti da Adelperga, vedova di Arechi (2). I successori di Arechi II, Grimoaldo III (788-806) e Grimoaldo IV (806-817), ecc…”. Cantalupo, a p. 76, nella sua nota (2) postillava che: “(2) L’episodio è riportato da due lettere di papa Adriano I a Carlo Magno, (la 44 e la 48 del ‘Codex Carolinus; cfr. CAPASSO, Monumenta ad Neapolitani ducatus historiam pertinentia, I, 244-248): “…………………….”. Il Cantalupo, nella sua nota (2), riportando il testo delle due lettere di papa Adriano I a Carlo Magno (trascritte da Bartolomeo Capasso), postillava ancora che: “L’espressione: ‘in Lucaniae Acropoli, della seconda lettera, ha fatto credere prima al Ventimiglia (op. cit., p. 90), poi ad altri che il ‘Lucaniae’ stesse ad indicare l’appartenenza di Agropoli al gastaldato di Lucania e che, pertanto, la fortezza fosse allora longobarda. A parte la considerazione che resterebbe inspiegabile come, allontanati da un porto longobardo, gli ambasciatori siano andati a sbarcare in un altro porto longobardo, il valore dell’espressione: ‘in Lucaniae Acropoli’ è chiarita da quella del brano precedente: ‘a finibus Graecorum deferentes’, e trova giustificazione nel fatto che Agropoli era stato il centro di tutta la lucania ‘Minore’ bizantina, prima che i longobardi ne conquistassero la maggior parte.”. Di questo periodo e di alcuni fatti che lo caratterizzarono ha parlato Pietro Ebner (….), nel suo “Chiesa, baroni e popolo nel Cilento”, che nel suo vol. I, a pp. 456-457 parlando di Agropoli, in proposito scriveva che: “Manca ogni notizia circa il momento in cui i vescovi tornarono nell’antica loro sede pestana, come nulla si sa della fine dell’occupazione bizantina di Agropoli e Licosa. Ma che ancora nell’VIII secolo i bizantini possedessero, con quel ‘castrum’, la fascia costiera fino a Licosa, si presume dalle lettere (23) di Adriano I (722-794) a Carlomagno che il Pellegrino (24) ritenne complementari. Ecc..”. Ebner, a p. 456, nella sua nota (23) postillava che: “(23) Epist. 44: Dum ibidem Salerni Atto, fidelissimus vester missus fuisset. Beneventani ipsos Graecos minime accipere voluerunt; sed post reversionem praedicti Attonis Diaconi tunc eos terreno itinere a finibus Graecorum deferentes, Salerno receperunt, et cum Athalperga relicti Arichis seu optimatibus Beneventanis tribus duiebus persistentes consiliati sunt. Epist. 48: Dum Atto Diaconus ad vestrum reversus est excellentiam, statim missi graeorum duo Statarii imperatoris cum Diucitin, quod latine Disponitor Siciliae dicitur, in Lucania Agropoli descendentes, terreno itinere Salernum ad relictam Arigisi ducis peragrantes 13 kal. Feb. consiliantes Beneventani, post tertium diem usque Neapolin deduxerunt.”. Ebner, a p. 456, nella sua nota (24) postillava che: “(24) C. Pellegrino (in Antonini, cit., pag. 255) ritiene complementari le due lettere a chiarire l’a finibus graecorum’ che egli ritiene Agropoli e non la Calabria. Dello stesso avviso l’Antonini e or non è molto O. Bartolini (Longobardi e bizantini nell’Italia meridionale, in “Atti 3° Congresso intern. Studi sull’alto Medioevo”, Spoleto, 1959, p. 103 sgg.”. Pietro Ebner, continuando il suo racconto a pp. 456-457-458, scriveva che: “Bisanzio aveva inviato un’ambasceria a Salerno per portare ad Arechi la nomina a patrizio imperiale, le insegne e gli indumenti propri della dignità, specialmente per accertarsi dei disegni politici di Arechi e chiedergli in ostaggio il primogenito Romualdo. L’ambasceria capeggiata da du ‘spartarii’ imperiali, dal patrizio e stratega di Sicilia (‘diocetés o dispositor Siciliae’), Teodoro, sbarcò in un momento imprecisato ad Agropoli, testa di ponte ancora bizantina, dove apprese della morte di Romualdo (21 luglio 787) e dello stesso Arechi (26 agosto). In quel momento era ancora nel Principato Beneventano la missione incaricata da Carlomagno di perfezionare le clausole della “donatio” ad Adriano I, e cioè alla Chiesa, di una fascia di territorio dal Volturno al Liri, con Capua, Teano, Arpino, Arce e Sora. I membri della missione, (l’abate S. Dionigi, Maginardo, il diacono Giuseppe, il conte Liuderico e ”hosterarius’ Goteramno) erano a Benevento in attesa dell’espletamento delle trattative condotte a Salerno dal capo di essa, il diacono Attone, con la vedova di Arechi, Adelperga, e i suoi consiglieri. Adelperga, figlia di re Desiderio e sorella di Adelchi (25), era avversa a re Carlo, non solo perchè aveva privato del regno e della libertà Desiderio e Adelchi e per aver costretto Arechi con le armi a riconoscerlo suo alto sovrano, ma quanto perchè voleva smembrare il Principato con la “donatio” al papa. Per l’ostilità trovata a Benevento la missione finì per riparare oltre Spoleto, mentre Attone veniva convinto a promettere il suo interessamento perchè re Carlo restituisse il secondogenito di Arechi, Grimoaldo, trattenuto in Francia come ostaggio, e lo riconoscesse successore del padre. L’arrivo in quel momento a Salerno di una missione bizantina, perciò, avrebbe fatto fallire le trattative con Attone, per cui Adelperga invitò i messi imperiali a trattenersi ad Agropoli fino alla partenza del diacono. L’ambasceria bizantina fu poi accompagnata, “terreno itinere”, scrisse papa Adriano, con una scorta d’onore da Agropoli a Salerno (20 gennaio a. 788). Le due trattative durarono tre giorni e si convenne che se Grimoaldo fosse stato rimpatriato e il ‘basileus’ avesse riconosciuta la sua successione, il nuovo principe avrebbe mantenuto gli impegni paterni riconoscendo la sottomissione (‘dicio’) del principato all’impero. La missione fu poi scortata a Napoli, dove attese le decisioni di Carlomagno. Questo il succedersi degli eventi su ci ci siamo soffermati anche per mostrare la fine azione diplomatica di Adelperga che avrebbe potuto perdere il principato beneventano se Grimoaldo non fosse tornato per realizzare, con l’aiuto bizantino, la riscossa contro il re franco. Il pontefice, intuito il disegno, si affrettò a scrivere a fosche tinte a Re Carlo. Anzi, nell’informarlo del sopraggiungere di Adelchi, sollecitò l’invio di un armata franca. Re Carlo, però, vide le cose diversamente, per cui, fattosi prestare giuramento di fedeltà, rimpatriò Grimoaldo autorizzandolo alla successione.”. Ebner, a p. 457, nella sua nota (25) postillava: “(25) Adelchi era stato associato al trono da re Desiderio nel 759. Sconfitto dai franchi di Carlomagno (Chiuse di Val Susa, a. 773), chiamato dal pontefice, riparò a Verona e poi a Bisanzio ben accolto da Costantino V copronimo che cercava di scacciare i franchi dall’Italia. Adelchi fu poi sconfitto da Grimoaldo, figlio di Arechi.”. Infatti, è interessante l’ultimo passaggio perchè a questa ultima battaglia che si riferì l’episodio raccontato da Gianni Granzotto al quale l’Ebner non aggiunse nella a riguardo. Adelchi, con le sue truppe bizantine sbarcate nel porto di Sapri, si fronteggiò in un’aspra battaglia con Grimoaldo che lo sconfisse probabilmente nel Vallo di Diano aiutato dalle truppe di Carlo Magno.  

Nel ‘787 (VIII sec. d.C.), nel Porto di Sapri la flotta bizantina dell’Imperatrice Irene contro Carlo Magno

Nello studio redatto per il Comune di Sapri, per la redazione del nuovo P.R.G. di Sapri – oggi conservato negli Archivi del Comune – scrivevo e riportavo alcune notizie e documenti che dal punto di vista strettamente bibliografico e storiografico, restano di estremo interesse. Andrebbe ulteriormente indagata la notizia riferitaci dallo scritto Gianni Granzotto (2), su una grande battaglia avvenuta nel Vallo di Diano, nell’anno ‘778, tra le truppe bizantine – la cui flotta di navi, sbarcò nella baia naturale del porto di Sapri – che si scontrarono contro le truppe franco-carolingie di Carlo Magno – venute in soccorso del Principato di Benevento. Nel 1987, pubblicavo a stampa, un saggio dal titolo “Sapri, incursioni nella notte dei tempi“ (…), dove citavo un’interessante notizia che riferiva il giornalista e scrittore storico Gianni Granzotto. La notizia, che riguarda il porto di Sapri, all’epoca carolingia e della dominazione del Ducato Longobardo di Benevento prima e del Principato di Salerno, fu da me citata nello studio a mia firma che commissionò il Comune di Sapri per la redazione del nuovo Piano Regolatore Generale di Sapri. Nello studio “Analisi sull’Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a p. 13, in proposito scrivevo che: “Recentemente abbiamo ritrovato una interessantissima notizia (73) sulla quale nutriamo qualche dubbio ma che che, se confermata da riscontri più oggettivi, fa certamente invecchiare di molto le origini di Sapri. La notizia riferita nel racconto del Granzotto (74). Verso la fine dell’anno 788 (75) le truppe bizantine dell’Imperatrice Irene: “Assai più forti al Vallo di Diano, verso Sala Consilina, vennero fatte a pezzi; primo fra tutti il capo della spedizione, il generale Sergio, cui fu mozzata la testa. Sulle navi che attendevano a Sapri, per riportarlo vincitore a Bisanzio…, solo poche decine di fuggiaschi riuscirono a scampare.” L’episodio ci viene confermato dal Capasso (76) secondo cui, a causa della lite sorta tra Costantino, figlio di Irene e promesso sposo a Rotrude, figlia di Carlo Magno che non volle stare ai patti, Irene spedì una grande armata militare e flotta di navi, per mare, comandata dal Sacellario e logoteta Giovanni a cui si unirono lo stratega di Sicilia Teodoro e l’ex re longobardo Adelchi (figlio di re Desiderio, ex re longobardo spodestato) che muovendo dalla Sicilia invasero la Calabria per risalire e conquistare il Ducato di Benevento. L’armata bizantina penetrata nella Lucania, si trovò di fronte l’esercito carolingio dei Franchi di Carlo Magno e di Grimoaldo III, comandate dal legato reale Guinigisio o Vinigisio, i quali, in una battaglia di estrema violenza (77) sconfissero i greci.”. Nella mia nota bibliografica (73), postillavo che: (73) La notizia del Granzotto dovrà essere ulteriormente indagata. Credo sia un’invenzione del Granzotto poichè in nessuna delle fonti vi è traccia di Sapri e del Vallo di Diano. Il luogo della battaglia è incerto: è Eginardo che lo pone in Calabria (Annales Einhardi, stà in Pertz, “Monumenta Germanicae Historiae, tomo I, ss. p. 175).”. Nella mia nota bibliografica (74), postillavo che: “(74) Granzotto G., Carlo Magno, ed. Mondadori, p. 127.”. Nella mia nota bibliografica (75), postillavo che: “(75) Theophane – Chronographia, tomo I, p. 718; tratta gli avvenimenti del mese di Novembre nell’indicazione XII, che corrisponde a Novembre dell’anno 788.”. Nella mia nota bibliografica (73), postillavo che: “(76) Capasso B., Monumenta ad Neapolitani ducatos Historiam pertinentia II, Napoli, pp. 65, 66.”. Nella mia nota bibliografica (76), postillavo che: “(77) Annales Regni Francorum, stà in Pertz, “Monumenta Germanicae Historiae, p. 82; Crhonicon Moissiacense, ibidem, p. 350; Annales Maximiani, ibidem, tomo XIII, p. 22; Annales Sithiense, ibidem, tomo XIII, p. 36; Annales Laurissenses, ibidem, tomo I, ss. p. 174; Poeta Saxo, ibidem, p. 245; Anonimo Salernitano, ibidem, parte II, tomo II, Reg. Ital.; Anastasi bibliotecarii, Historia ecclesiastica sive Crhonographia, stà in “Scriptorem Byzanti. Collct.”. Un’interessantissima notizia che farebbe invecchiare di molto le origini del porto di Sapri, testimoniandone la presenza anche intorno al secolo IX (2). Stando alle fonti, la notizia riferita al IX sec., e più precisamente nell’anno ‘787 (2), Sapri sarebbe stato conosciuto e aveva un porto. Se la notizia fosse confermata, nell’anno ‘787 (2), Sapri, non solo esisteva ed aveva un porto conosciuto ma la sua baia e porto naturale si trovarono al centro delle operazioni militari tra le armate bizantine di Irene d’Atene ed i Franchi di Carlo Magno. Durante la guerra tra Carlo Magno ed i Longobardi per la conquista dei territori del Mezzogiorno d’Italia, Sapri, la sua baia ed il suo porto naturale insieme ai territori del Golfo di Policastro dovevano dipendere da una forte influenza dei monaci iconoduli greci-bizantini che ivi si stabilirono provenienti dall’Asia minore (5) e, dovevano dipendere ed appartenevano al Ducato longobardo di Benevento che in origine, comprendeva il Ducato longobardo di Salerno. In seguito, solo i ducati lon-gobardi di Benevento e di Salerno si riunificarono nel Principato longobardo di Salerno, posto sotto il protettorato e l’autonomia concessa da Carlo Magno. I duchi longobardi, sempre in lotta tra loro, a causa dell’orografia del nostro territorio e del suo atavico isolamento, scelsero e preferirono il porto e la baia naturale di Sapri per l’approdo delle flotte che portavano le loro armate che, sbarcate a Sapri, si scontravano sul campo di battaglia da sempre preferito, il Vallo di Diano. Verso la fine dell’anno ‘787 (2) (nel IX sec.), il porto naturale di Sapri, fu teatro delle operazioni militari sorte a causa dei continui dissidi tra le corti carolingia e quella bizantina. La notizia ci è data in un libro dello  scrittore Gianni Granzotto (2). Il Granzotto, afferma che verso la fine dell’anno ‘787 (2), il porto e la baia naturale di Sapri, furono scelte dalla flotta bizantina per attendere il loro generale Sergio per riportarlo vincitore a Bisanzio (2). Gianni Granzotto (2), racconta che, verso la fine dell’anno ‘787 (6) le truppe bizantine dell’Imperatrice (reggente) di Bisanzio, Irene d’Atene: Al Vallo di Diano, verso Sala Consilina, le truppe bizantine vennero fatte a pezzi; primo fra tutti il capo della spedizione, il generale Sergio, cui fu mozzata la testa. Sulle navi che attendevano a Sapri, per riportarlo vincitore a Bisanzio solo poche decine di fuggiaschi riuscirono a scampare.” (2). Il Granzotto (2), si riferisce ad una battaglia, combattuta nel Vallo di Diano tra le truppe della Imperatrice (reggente) di Bisanzio Irene d’Atene, contro le armate di Carlo Magno. Secondo il Granzotto, la flotta bizantina ancorata nella baia e nel porto naturale di Sapri, attendeva l’esercito bizantino ed il loro generale Sergio per riportarlo vincitore a Bisanzio (2).

Nel ‘787 (IX sec. d.C.), nel Porto di Sapri la flotta bizantina dell’Imperatrice Irene contro Carlo Magno

D’epoca più tarda è riferita un’interessantissima notizia che farebbe invecchiare di molto le origini del porto di Sapri, testimoniandone la presenza anche intorno al secolo IX (6). Stando alle fonti, la notizia riferita al IX sec., e più precisamente nell’anno ‘787 (7), Sapri sarebbe stato conosciuto e aveva un porto. Se la notizia fosse confermata, nell’anno ‘787 (7), Sapri, non solo esisteva ed aveva un porto conosciuto ma la sua baia e porto naturale si trovarono al centro della guerra di conquista tra le armate bizantine di Irene d’Atene ed i Franchi di Carlo Magno. Durante la guerra tra Carlo Magno ed i Longobardi per la conquista dei territori del Mezzogiorno d’Italia, Sapri, la sua baia ed il suo porto naturale insieme ai territori del Golfo di Policastro dovevano dipendere da una forte influenza dei monaci iconoduli greci-bizantini che ivi si stabilirono provenienti dall’Asia minore (2) e, dovevano dipendere ed appartenevano al Ducato longobardo di Benevento che, in origine, comprendeva il Ducato longobardo di Salerno. In seguito, solo i ducati longobardi di Benevento e di Salerno si riunificarono nel Principato longobardo di Salerno, posto sotto il protettorato e l’autonomia concessa da Carlo Magno. I duchi longobardi, sempre in lotta tra loro, a causa dell’orografia del nostro territorio e del suo atavico isolamento, scelsero e preferirono il porto e la baia naturale di Sapri per l’approdo delle flotte che portavano le loro armate che, sbarcate a Sapri, si scontravano sul campo di battaglia da sempre preferito, il Vallo di Diano. Verso la fine dell’anno ‘787 (7) (nel IX sec.), il porto naturale di Sapri fu teatro delle operazioni mi-litari sorte a causa dei continui dissidi tra le corti carolingia e quella bizantina. In-fatti, secondo la notizia ritrovata in un libro dello  scrittore Gianni Granzotto (7), verso la fine dell’anno ‘787 (7), all’epoca di Carlo Magno, il porto e la baia naturale di Sapri, furono scelte dalla flotta bizantina per attendere il loro generale Sergio per riportarlo vincitore a Bisanzio (7).  La notizia, riferita dal Granzotto sul suo libro su Carlo Magno (7), racconta che, verso la fine dell’anno ‘787 (6) le truppe bizantine del-l’Imperatrice ( reggente) Irene d’Atene: ” Al Vallo di Diano, verso Sala Consilina, le truppe bizantine vennero fatte a pezzi; primo fra tutti il capo della spedizione, il generale Sergio, cui fu mozzata la testa. Sulle navi che attendevano a Sapri, per riportarlo vincitore a Bisanzio solo poche decine di fuggiaschi riuscirono a scampare.” (7). Il Granzotto (7), si riferisce ad una battaglia, combattuta nel Vallo di Diano tra le truppe della Imperatrice (reggente) di Bisanzio Irene d’Atene, contro le armate di Carlo Magno. Secondo il Gran-zotto, la flotta bizantina ancorata nella baia e nel porto naturale di Sapri, attendeva l’esercito bizantino ed il loro generale Sergio per riportarlo vincitore a Bisanzio (7). La no-tizia della battaglia avvenuta tra l’esercito bizantino e quello franco di Carlo Magno, poi ripresa dal Granzotto (7) e che andrebbe ulteriormente indagata, ci è pervenuta attraverso il racconto di alcuni cronisti dell’epoca (8-10-11-12-13-14-15-16-17). Ma in partico-lare la notizia ci è pervenuta attraverso il racconto di Eginardo, ritenuto il cronista di Carlo Magno. Eginardo nel suo “Annales Einhardi” (6), pone il luogo della battaglia in “Calabria”. Nel IX sec., i confini dell’attuale Calabria erano leggermente diversi da oggi e comprendevano anche i territori del Golfo di Policastro e di Sapri. Della notizia della furibonda battaglia tra i franchi ed i bizantini, già avevano riferito i cronisti dell’epoca (8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17), poi ripresa dal Capasso (9) e poi dal Granzotto (7). L’episodio ci viene confermato dal Capasso (9) secondo cui, a causa della lite sorta tra Cos-tantino, figlio di Irene e promesso sposo a Rotrude, figlia di Carlo Magno che non volle stare ai patti, Irene spedì una grande armata militare e flotta di navi, per mare, comandata dal Sacellario e logoteta Giovanni a cui si unirono lo stratega di Sicilia Teodoro e l’ex re longobardo Adelchi (figlio di re Desiderio, ex re longobardo spodestato) Adelchi che muovendo dalla Sicilia invasero la Calabria per risalire e conquistare il Ducato di Benevento. L’armata bizantina penetrata nella Lucania, si trovò di fronte l’esercito carolingio dei Franchi di Carlo Magno e di Grimoaldo III, comandate dal legato reale Guinigisio o Vinigisio, i quali, in una battaglia di estrema violenza sconfissero i greci  (8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17). Dell’episodio, ci illuminano alcuni studiosi contemporanei (18), secondo cui, a causa della lite sorta tra l’Imperatore di Bisanzio Costantino VI, figlio della Imperatrice di Bisanzio Irene (basilissa = reggente) e, promesso sposo a Rotrude, figlia di Carlo Magno. Siccome il giovane Imperatore Costantino VI, non volle stare ai patti con Carlo Magno, sua madre Irene ( reggente), rompendo l’alleanza con Carlo Magno, offrì assistenza militare al principe longobardo Adelchi, figlio dell’ex re longobardo spodestato Desiderio. Adelchi, esiliato a Costantinopoli e, desideroso di conquistare il proprio regno, il Principato di Benevento, usurpato dal nipote Grimoaldo III che nel frattempo si era alleato con Carlo Magno,  che difendeva suo nipote Grimoaldo III, verso la fine dello anno ‘787, sbarcò a Sapri con la flotta e l’esercito bizantino di Irene d’Atene per scontrarsi nel Vallo di Diano contro le truppe franche di Carlo Magno che lo sconfis-sero in una battaglia tremenda. L’episodio fu riferito  da alcuni cronisti dell’epoca (8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17), ed in particolare il racconto di Theophane (8) che,  tratta gli avvenimenti del mese di Novembre nell’indicazione XII, che corrisponde a Novembre dell’anno 788. Ad onor del vero bisogna dire che l’episodio riportato dal Granzotto ci parla di un comandante chiamato Sergio (7) mentre il Theophane (8) parla di un comandante bizantino battuto dai franchi chiamato Giovanni. Thophane racconta che, nell’an-no ‘788, il principe longobardo Adelchi, unitosi alle truppe della Imperatrice di Bisanzio Irene, poste sotto il comando del sacellarius e logoteta Giovanni e, le truppe dalla Sicilia sotto il Patrikios (stratega) Teodoro, sbarcò in Calabria. L’armata bizantina penetrata nella Lucania, fu raggiunta dagli eserciti uniti dei duchi longobardi Ildebrando di Spoleto e Grimoaldo III suo nipote, insieme ad un corpo di armata di Carlo Magno, comandate dal legato reale Guinigisio o Vinigisio, i quali, in una battaglia di estrema violenza (8) sconfissero i bizantini di Irene ed uccisero il principe Adelchi. Recentemente, lo storico contemporaneo Ravegnani (18), dice in proposito: “….la spedizione promessa da Irene, arrivata troppo tardi in Calabria, non potè più contare sull’appoggio dei Longobardi di Benevento. Le forze imperiali, al comando del sacellario e logotete dello stratotikion Giovanni e Adelchi, che a Bisanzio aveva assunto il nome di Teodoto, rinforzate dai contingenti messi a disposizione dallo stratego di Sicilia, furono affrontate nel 788 da Longobardi e Franchi coalizzati e subirono una grave sconfitta perdendo in battaglia anche il loro comandante.”. Alla vicenda tragica di Adelchi, si ispirò Alessandro Manzoni, nella sua tragedia ‘Adelchi‘, pubblicata nel 1822 e poi musicata da Giuseppe Verdi.  

Nel ‘787, al porto di Sapri, lo sbarco della flotta bizantina e la battaglia nel Vallo di Diano

Sebbene tutti i cronisti dell’epoca – che poi sono proprio quelli da cui sono state tratte alcune notizie storiche – cruciali per capire la storia del Mezzogiorno d’Italia nel secolo X, a cavallo tra la fine della dominazione Longobarda nel Ducato di Benevento e l’inizio del Principato di Salerno, poi divenuto in seguito Normanno – come ad esempio Eginardo o Teophane – indicassero la ‘Calabria‘, il luogo dello sbarco delle armate bizantine che doveva risalire e conquistare la Capitale del Ducato Benevento, il luogo dello sbarco è tutt’ora incerto. La citazione di uno sbarco a Sapri, è tutta del Granzotto (2), che avrà avuto dei validi motivi per affermalo ed escludere altri porti. La flotta bizantina dell’Imperatrice di Bisanzio Irene, è probabile che avesse scelto diversi porti o scali marittimi conosciuti e, controllati all’epoca ma, l’ipotesi del Granzotto non è poi tanto azzardata. Dobbiamo dire a riguardo che all’epoca Longobarda ed anche Normanna, è certo che sugli antichi documenti membranacei – privilegi ecc.. – i possedimenti nelle nostre terre ed il futuro ‘basso Cilento’ (che dopo gli Svevi sarà dei Sanseverino), erano detti ‘Calabrie’. Il nostro territorio – compreso una parte dell’attuale Lucania – si denominava ‘Calabrie‘. Non è quindi casuale la citazione del Granzotto (2) che immagina lo sbarco della flotta bizantina a Sapri. Inoltre, la baia ed il Porto naturale di Sapri, come pure la vicina Bussento (che ancora pare non avese mutato il suo nome in ‘Policastrum‘, facevano parte di un territorio di confine dell’antica Lucania, non del tutto controllata dal Principato Longobardo di Salerno e, forse, tutta la regione, non molto abitata, rappresentava un facile approdo per le armate greco-bizantine. Inoltre, è da considerare che Sapri, ha sempre avuto una baia naturale, facile approdo anche per una grande flotta, quale doveva essere quella greco-bizantina dell’Imperatrice reggente Irene. Non abbiamo notizie certe di approdi o porti o scali marittimi conosciuti all’epoca Longobarda (secolo X e XI) ma, dalle cronache dell’epoca, si evince che un simile episodio è accaduto poco tempo prima ad Agropoli che viene espressamente citato nelle cronache e, che quindi, se l’armata bizantina, fosse sbarcata ad Agropoli, sarebbe stata citata. Il porto o scalo marittimo di Sapri, all’epoca dello scontro, probabilmente non era conosciuto con un suo specifico toponimo ma la sua baia naturale, capace di ospitare alla fonda, grandi navi, era certamente conosciuta in atichità. La presenza dello scalo marittimo di Sapri e che esso fosse conosciuto all’epoca del Ducato di Benevento, non è attestato da documenti ma noi crediamo che lo fosse. Il Gaetani (16), sulla scorta del manoscritto del Mannelli (18), nel suo ‘Mannelli Luca, Notizie di Policastro Bussentino ecc.., op. cit., a p. 21, proseguendo il suo racconto e riferendosi a Policastro, scriveva “Laonde questa città marittima e tanto fuor di mano da essi non fu assalita, ma fu posseduta da’ Greci Monarchi. Non però così gli avvenne nei secoli susseguenti, quando i Saraceni vennero a danni d’Italia…”, riferendosi all’episodio dell’anno 915, allorchè anche Policastro fu distrutta dagli Arabi. La notizia della battaglia avvenuta tra l’esercito bizantino e quello franco di Carlo Magno, poi ripresa dal Granzotto (2) e, che andrebbe ulteriormente indagata, ci è pervenuta attraverso il racconto di alcuni cronisti dell’epoca (8,9,10,11,12,13, 14,15), ma in particolare la notizia ci è pervenuta attraverso il racconto di Eginardo (Einhardo), ritenuto il cronista di Carlo Magno. Eginardo nel suo Annales Einhardi (6), pone il luogo della battaglia in “Calabria”. Eginardo, ci parla dei confini del Ducato Longobardo di Benevento che erano costituiti buona parte del Cilento e della Calabria, sotto l’egida dei Greci-Bizantini. La notizia della furibonda battaglia tra i franchi ed i bizantini, poi ripresa dal Capasso (3), da Schipa (4) e, poi dal Granzotto (2), avevano riferito i cronisti dell’epoca (7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15). Nel IX sec., i confini dell’ attuale ‘Calabria‘ erano leggermente diversi da oggi ed i nostri territori – l’attuale Golfo di Policastro, ‘basso Cilento’ e Sapri – erano detti ‘Calabria‘ o ‘Longobardia minore‘. Su alcuni documenti dell’epoca, questi territori, tra cui le ‘Calabrie‘, venivano chiamati ‘Longobardia minore’. Questi territori, all’epoca, facevano parte del Ducato di Benevento, Ducato Longobardo che comprendeva anche buona parte della Calabria. Secondo Di Meo (6), Teophane (8), tradotto, scriveva: “nell’anno 9, di Costantino, avendo rotto il trattato di matrimonio tra Costantino, e la figlia di Re Carlo; spedì Giovanni Sacellario, e Logoteta in Longobardia, insieme ad Adelgiso, che fu un tempo Re della Longobardia maggiore, il quale da’ Greci fu detto Teodoto.”. Riguardo il luogo dello sbarco delle armate e della flotta bizantina, Teofane (8), parla di Longobardia minore’che corrisponde a buona parte di quello che sarà in seguito il Principato Longobardo di Salerno di Gisulfo II –  non parla di ‘Calabria‘. Il Di Meo (6), scriveva in proposito: “I Greci in poi dissero Longobardia minore gli Stati, che di lor dominio restavano in Puglia, e Calabria.”Quindi, secondo la bibliografia antiquaria, dal Muratori in poi, il luogo della battaglia è stato la ‘Longobardia minore’ così detta dai Bizantini, ovvero buona parte dell’attuale Calabria che, all’epoca – secolo VIII – era controllata dai Bizantini di Bisanzio. Il Porfirio (19), parlando delle probabili origini della sede vescovile di Policastro, scriveva: “Fin dai primi tempi della Chiesa, Calabria e Lucania non suonassero che una stessa regione, fin dal 315 nella Sinodo ecumenica di Nicea tra i nomi dei 318 vescovi che v’intervennero, si trovasse quello di un Marco vescovo di Calabria, pure noi avvisiamo essersi la cattedra episcopale busentina installata dopo la celebrazione del Concilio di Nicea.”.

Capasso, p. 65

Capasso, p. 66

Nel ‘1097, in un documento il toponimo di “Scido”

E’ un documento unico per la nostra storia, pubblicato da uno studioso nel 1865. Si tratta di un documento dell’anno 1097 – un privilegio Normanno concesso nel territorio sapresein cui si fa riferimento a ‘Scido’ ed a un monaco di Vibonati (Figg….), andato perso nelle note vicende belliche (…), ma pubblicato nel 1865 dal Trinchera (…) (Fig….).

Cattura

Scido e S. Phantini

(Fig….) L’antica pergamena d’epoca Normanna, dell’anno 1097, manoscritta in greco,  tradotta in latino e pubblicata dal Trinchera a p. 80 (…)

Nell’ottobre ‘1079, il ‘Portum‘ (Sapri ?), nella bolla di Benedetto Alfano I°, primate di Salerno

Un’altra interessante notizia su Sapri, ci viene dalla più antica fonte archivistica in nostro possesso, la lettera pastorale (bolla) dell’Arcivescovo di Salerno Benedetto Alfano I, datata all’ottobre 1079 (Tancredi scrive 1099), ove Sapri figura al 7° posto delle trenta parrocchie della Diocesi di Policastro restaurata con un Portum. Secondo l’antico documento (6, 7), nel 1079, (Tancredi scrive 1099), Sapri figura con il toponimo di ‘Portum’ nell’elenco delle trenta parrocchie della Diocesi di Policastro, nella lettera pastorale (bolla) datata ottobre 1079, di Benedetto Alfano I, Arcivesco di Salerno che, a seguito della licenza per la nomina di nuovi vescovi ricevuta con la protezione longobarda nel 1058 da Papa Stefano IX (6), veniva restaurata l’antica sede episcopale bussentina “quae modo Paleocastren dicitur Ecclesiae, per apostolicam institutionem nostro Arciepiscopatui subiectae”, ordinando Vescovo della restaurata sede episcopale bussentina (rimasta vacante per diverso tempo), il monaco cavense Pietro Pappacarbone. Il documento diocesano dell’ottobre 1078 è la più antica fonte archivistica in nostro possesso. Scrive in proposito l’Ebner (6): “La notizia più antica circa l’esistenza di un locale abitato, almeno finora, è nella nota lettera (a. 166/67), dell’Arcivescovo Alfano di Salerno, con la quale ricostituiva l’antica “quae modo Paleocastren dicitur Ecclesiae, per apostolicam institutionem nostro Arciepiscopatui subiectae” ed elevava a Vescovo il monaco cavense Pietro Pappacarbone da Salerno, destinandolo a quella sede. Nel definire i confini della ricostituita diocesi, l’arcivescovo v’includeva con ‘Cammarota’ (…), Caselle, Turturella, Turraca, anche “Portum” da identificare appunto con Sapri. Nei confini, erano incluse tutte le pertinenze e cioè case, terre, vigneti, campi, prati, pascoli, boschi, saliceti, ruscelli, acque, mercati del pesce, pievi, fattorie con servi, terre coltivate e corti e tutti gli appartenenti al clero con i loro beni.”. 

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(Fig. 3) La Bolla di Alfano I – trascrizione del testo latino pubblicata dal Tancredi (…)

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Il documento considerato da Giacomo Racioppi (….) non autentico e da Felice Cesarino (….) apocrifo, è la più antica fonte archivistica fino a noi giunta. Il documento oltre ad essere una testimonianza dell’esistenza dei centri che vi si elencano, è anche un interessante fonte per la toponomastica dei luoghi. Lo storico locale Felice Cesarino (….), nel suo “Sapri archeologica”, pubblicato nel 1987, sulla rivista “I Corsivi”, n. 5, in proposito scriveva che: “A partire dai primi secoli dell’era cristiana le tracce della Sapri antica vanno affievolendosi, per scomparire del tutto in età medievale. Le cause possono essere ricercate in una catastrofe naturale (tesi sostenuta dalla tradizione locale) o in un progressivo impaludamento della zona, soggetta anche a fenomeni di bradisismo. Rifiutando la citazione di un “portus Saprorum”, contenuta nella bolla di Alfano del 1079, come probabile apocrifa (1), le vicende del ripopolamento di Sapri si possono far iniziare nel 1600″. Dunque, il Cesarino scrive che dal V secolo d.C., le notizie su Sapri si vanno affievolendosi fino al 1600 che secondo lui è il secolo in cui avverrebbe il suo possibile ripopolamento. La tesi del Cesarino era la stessa del sacerdote Rocco Gaetani che sebbene nei suoi scritti su Torraca avesse portato alla luce notevoli notizie sulla nostra terra sosteneva che: “In Sapri, i primi che si fanno vedere sono alcuni cittadini di Torraca: sono proprietari e lavoratori di vigne”. Dunque, Felice Cesarino dal V secolo d. C. al 1600 fa un salto di oltre 11 secoli. E’ possibile che un luogo sia disabitato per così tanto tempo ?. E’ credibile ciò che scriveva il Gaetani che i primi cittadini di Sapri erano lavoratori di vigne apparsi, come scrive il Cesarino nel 1600 ?. Il Cesarino, nel suo scritto sulla moneta dell’Imperatore di Massimiano Erculio, aggiungeva che: “1600. A tale epoca risale il nucleo di abitazioni più antiche sulla collinetta del Timpone, dove intorno al 1670 era stata costruita la cappella di S. Antonio di Padova da fedeli della terra di Torraca, il cui clero vi celebrava le messe.”. Oltre a queste affermazioni e ricostruzioni storiche di cui io dubito, il Cesarino affermava che: “Rifiutando la citazione di un “portus Saprorum”, contenuta nella bolla di Alfano del 1079, come probabile apocrifa (1), le vicende del ripopolamento di Sapri si possono far iniziare nel 1600″. In questo passaggio, il Cesarino citava il toponimo di “portus Saprorum” apparso nella “bolla di Alfano I”, databile intorno al 1079. Il documento di cui ho parlato in un mio saggio ivi pubblicato, è di notevole importanza per i toponimi citati che erano i nomi dei luoghi che costituivano la ricostruita Diocesi di Policastro. Secondo il Cesarino, che citava lo storico Giacomo Racioppi, il documento è apocrifo e secondo il Racioppi (….), nei suo “Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata” (vedi nota (1) del Cesarino) scriveva che: “(1) Di questo documento esiste soltanto una copia del 1737. In proposito, il sacerdote e storico attendibile G. Racioppi nella sua “Storia dei popoli della lucania e della Basilicata” così si esprimeva: “…ma io dubito dell’autenticità di questa carta”. Infatti il Racioppi, nel suo vol. II, a p. 100, scriveva che “dubitava dell’autenticità di questa carta” d’epoca Normanna, dubitava ma non diceva che essa era non autentica. All’epoca di Racioppi 1889, vi era solo il testo del vescovo mons. Nicola Maria Laudisio che citava l’importante documento. L’Antonini, nel 1745, l’aveva citata ma non l’aveva sufficientemente  indagata. Recentemente lo studioso Biagio Moliterni (….) ha indagato tutta la questione confutando alcune affermazioni del Racioppi. Sulla carta esistono anche degli studi di Pietro Ebner. La “bolla di Alfano I” è uno dei documenti più antichi che noi oggi abbiamo e sebbene esista una copia del 1737 conservata presso l’Archivio della Diocesi di Policastro essa è un documento d’epoca Normanna. Inoltre, Alfano I, arcivescovo di Salerno in quegli anni, oltre ad aver nominato primo vescovo della rinata diocesi di Policastro, Pietro Pappacarbone ha scritto diverse cose su Policastro, l’antica Bussento. Come rifiutare la citazione di un “portus Saprorum” ?.     

Un’altra interessante notizia su Sapri, ci viene dalla più antica fonte archivistica in nostro possesso, la lettera pastorale (bolla) dell’Arcivescovo di Salerno Benedetto Alfano I, datata all’ottobre 1079, ove Sapri figura al 7° posto delle trenta parrocchie della Diocesi di Policastro restaurata con un “Portum” Secondo l’antico documento (19 – 20), nel 1079, Sapri figura con il toponimo di ‘Portum’ nell’elenco delle trenta parrocchie della Diocesi di Policastro, l’Arcivesco di Salerno Bene- detto Alfano I, con la protezione longobarda, ricevè nel 1058 da Papa Stefano IX la licenza per la nomina di nuovi vescovi (19). Il documento (20) col quale veniva restaurata la antica sede episcopale bussentina “quae modo Paleocastren dicitur Ecclesiae, per aposto-licam institutionem nostro Arciepiscopatui subiectae”, è la più antica fonte archivistica in nostro possesso. Il documento, oltre ad essere una testimonianza dell’esistenza dei centri che vi si elencano, è anche un interessante fonte per la toponomastica dei luoghi. Scrive in proposito l’Ebner (19): “La notizia più antica circa l’esistenza di un locale abitato, alme-no finora, è nella nota lettera (a. 166 /67), dell’Arcivescovo Alfano di Salerno, con la quale ricostituiva l’antica “quae modo Paleocastren dicitur Ecclesiae, per apostolicam institutionem nostro Arciepiscopatui subiectae” ed elevava a Vescovo il monaco cavense Pietro Pappacarbone da Salerno, destinandolo a quella sede. Nel definire i confini della ricostitui-ta diocesi, l’arcivescovo v’includeva con ‘Cammarota’ (…), Caselle, Turturella, Turraca, anche “Portum” da identificare appunto con Sapri. Nei confini, erano incluse tutte le per-tinenze e cioè case, terre, vigneti, campi, prati, pascoli, boschi, saliceti, ruscelli, acque, mercati del pesce, pievi, fattorie con servi, terre coltivate e corti e tutti gli appartenenti al clero con i loro beni.”  Con la nota lettera pastorale (bolla, a. 166/67) (19), datata all’ottobre 1079, l’Arcivescovo di Salerno Benedetto Alfano I, con la protezione longobarda, ricevè nel 1058 da Papa Stefano IX la licenza per la nomina di nuovi vescovi (20). Il documento (20) col quale veniva restaurata l’antica sede episcopale bussentina “quae modo Paleocastren dicitur Ecclesiae, per apostolicam institutionem nostro Arciepiscopatui subiectae” (20) ed elevava a Vescovo il monaco cavense Pietro Pappacarbone da Salerno, destinan-dolo a quella sede. Nel definire i confini della ricostituita diocesi, l’arcivescovo v’includeva con ‘Cammarota‘ (…), Caselle, Turturella, Turraca, anche un “Portum“.

Nel 1154, Sapri ed il suo Porto, nel Libro di Re Ruggero di al-Idrisi

Abbiamo ritenuto di indagare ulteriormente su questa vicenda in quanto crediamo che vadano ulteriormente approfondite alcune fonti e notizie in merito, come ad esempio la citazione di un toponimo arabo che dovrebbe indicare il luogo di Sapri, o un luogo vicino ad esso. Andrebbe ulteriormente indagata la notizia dataci da Amari e Schiapparelli (8), dove nella traduzione dall’arabo del testo scritto del ‘Libro di Re Ruggero’ del 1154, del geografo al-Idrisi (8), scrivono che nel suo libro, il geografo Idrisi, cita anche il porto di Sapri. La notizia, fu data per la prima volta dagli studiosi Pasquale Natella e Paolo Peduto nel loro “Pyxous-Policastro” (24), che parlando del Volpe (25) e delle mura di Policastro Bussentino al tempo dei Normanni del Roberto il Guiscardo, confermavano la notizia di solide mura e fortificazioni a Policastro, nel testo scritto in arabo del Libro del Re Ruggero del 1154, che descriveva gli scali marittimi più noti della Sicilia e del Regno Normanno dei primi del secolo XI. Il testo arabo del 1154, del geografo al-Idrisi, cita anche lo scalo marittimo di Sapri. Secondo la traduzione del testo in arabo di al-Idrisi, del 1154, i due studiosi Michele Amari e Schiapparelli (8), nel loro ‘L’Italia descritta nel ‘Libro di Re Ruggero’ compilato da Edrisi’

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(Fig….) Carta geografica dell’Italia, contenuta nel Libro di Re Ruggero del 1154, di el-Idrisi

Michele Amari e Schiapparelli (8), nel loro ‘L’Italia descritta nel ‘Libro di Re Ruggero’ compilato da Edrisi’, nel 1876-77, a p. 97, a proposito dei nostri luoghi, dopo aver parlato di Salerno, proseguendo nella sua descrizione geografica dei luoghi e parlando delle nostre coste, nel testo in arabo, a p. 97, parlando del ‘3 scompartimento e del V clima’, scrivevano in proposito che:

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“Da Policastro ad ‘.tr.b.s (2) (Petrosa), conosciuta col nome di marsà ràs b.li qas’t.rù (Porto del Capo Policastro) sei miglia.”. Poi aggiunge: ” Da questo Capo a qast.r.k.lì (Castrocucco) tredici miglia” .

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Nella nota (2), Amari e Schiapparelli (…), postillavano che: “Metatesi di b.tr.s. Il porto del quale quì è parola, corrisponde all’attuale porto di Sapri ed il Capo Policastro al Capo Bianco.”Dunque, secondo i due studiosi e tradutori del Libro di Re Ruggero del 1154, al-Idrisi, la parola araba b.t.r.s., corrisponde al toponimo del porto di Sapri, mentre il ‘Capo di Policastro’, corrisponde al ‘Capo Bianco’. Amari e Schiapparelli, scrivevano “Da Policastro ad ‘.tr.b.s (2) (Petrosa), conosciuta col nome di marsà ràs b.li qas’t.rù (Porto del Capo Policastro) sei miglia.”. Dunque, quale dei due termini indica il toponimo di Petrosa? Il toponimo Petrosa, è indicato con il termine o la parola araba di ‘.tr.b.s. , oppure è indicato con il termine e le due parole di marsà ràs b.li qas’t.rù ? La citazione del toponimo ‘Petrasia’ e, di una Torre della ‘Petrosa’, toponimi che indicano due località vicinissime, in epoca Aragonese, ci fa pensare – secondo la traduzione del testo in arabo dei due studiosi Amari e Schiapparelli, del Libro di Re Ruggero del 1154 – non indichi un toponimo o nome di luogo di un porto o di uno scalo marittimo – in questo caso Sapri – ma, il toponimo  ‘.tr.b.s (‘Petrosa’) – noi crediamo – stia ad indicare il toponimo della  Torre costiera di difesa dell’omonima località nei pressi di Villammare, conosciuta dal geografo arabo di Re Normanno Ruggero d’Altavilla, nel XII secolo e, che la distanza indicata dal geofrafo al-Idrisi (Edrisi) – Da Policastro a Petrosa (2) (Il porto del quale quì è parola, corrisponde all’attuale porto di Sapri)… conosciuta col nome di marsà ràs b.li qas’t.rù (Porto del Capo Policastro) sei miglia.” – si riferisse alla distanza tra due Torri di avvistamento, di cui gli Arabi dovevano ben guardarsi nel caso di attacco. La citazione del toponimo di Capo Bianco’, quando più avanti – nella nota (2), Amari e Schiapparelli scrivono: “Metatesi di b.tr.s. Il porto del quale quì è parola, corrisponde all’attuale porto di Sapri ed il Capo Policastro al Capo Bianco.”, sebbene i due studiosi abbiano bene individuato la costa, quella Saprese appunto, io credo che, il testo in arabo scritto dal geografo di Re Ruggero, al-Idrisi che, nel 1154, descriveva i luoghi sulla nostra costa, sia da riferire alla località “Petrosa”, nei pressi della località costiera di Villammare, dove oggi si può vedere l’omonima Torre marittima di avvistamento e di difesa, detta della Petrosa.  La presenza del toponimo di  ‘Petrasia’ e, di una Torre della ‘Petrosa’, vicinissime, in epoca aragonese, ci fa pensare che il toponimo ‘Petrosa’ – secondo la traduzione del testo in arabo dei due studiosi Amari e Schiapparelli, del Libro di Re Ruggero del 1154 – non indichi un toponimo o nome di luogo di un Porto o di uno scalo marittimo – in questo caso Sapri – ma, il toponimo  ‘.tr.b.s (Petrosa) – noi crediamo – stia ad indicare i toponimi di alcune Torri costiere di difesa conosciute dagli Arabi al tempo del Re Normanno Ruggero e, che la distanza indicata dal geofrafo al-Idrisi (Edrisi) – Da Policastro a Petrosa (2) (Il porto del quale quì è parola, corrisponde all’attuale porto di Sapri)… conosciuta col nome di marsà ràs b.li qas’t.rù (Porto del Capo Policastro) sei miglia.” – si riferisse alla distanza tra due Torri di avvistamento, di cui gli Arabi dovevano ben guardarsi nel caso di attacco. Infatti, la citazione del geografo del toponimo di Capo Bianco’, quando più avanti – nella nota (2), Amari e Schiapparelli scrivono: “(2) Metatesi di b.tr.s. Il porto del quale quì è parola, corrisponde all’attuale porto di Sapri ed il Capo Policastro al Capo Bianco.” credo, si riferiscano alla località ad oriente di Sapri, dove alla fine del 1500, fu costruita la ‘Torre di Capobianco‘, altra Torre cavallara di avvistamento, costruita per la difesa delle coste in epoca Vicereale.

Nel 1239, Sapri in un documento Angioino

Un’altra interessante notizia sulla presenza di Sapri nel 1239 ci è data dallo studioso Kan- torowicz Ernst (21), di cui crediamo fosse un errore. Lo storico dell’Imperatore Federico II di Svevia, Kantorowicz (21), nel suo libro ‘Federico II imperatore’,  scriveva che nel 1239, in occasione di un patto di alleanza stipulato tra il Papa Gregorio IX e le Repubbli-che marinare di Venezia e di Genova per combattere l’Imperatore Federico II di Svevia: “il papa pretendeva tutto il reame quod est beati Petri patrimonium; Venezia avrebbe avuto i porti di Barletta e Sapri;” (21). Già nel nostro studio (1), scrivevamo in proposi-to: Dubbi sussistono sull’esattezza della notizia dataci dallo storico Kantorowicz, secondo cui all’epoca federiciana l’alleanza fra Venezia e Genova, che aveva avuto Gregorio IX per mediatore contro Federico II di Svevia (prima metà del secolo XIII), stabilì che”: ” Venezia avrebbe avuto i porti di Barletta e di Sapri;…”  (21). Uno dei primi atti del pontificato di papa Gregorio IX fu l’invio a Federico II di Svevia (che possedeva l’intera Sicilia), della comunicazione di mantenere le promesse fatte al suo predecessore Onorio III (cioè di non intervenire militarmente nei territori dell’Impero nel Nord d’Italia e di accettare le nomine dei vescovi incaricati dal papa stesso) e infine di organizzare un nuova crociata.  Lo storico Kantorowicz, riferendosi allo storico patto di alleanza, e cita il Porto di Sapri che sarebbe andato a Venezia, alleatasi con il Papa Gregorio IX contro l’imperatore, è un palese errore. Infatti, lo storico Kantorowicz, trae la notizia dello storico patto da una epistola (lettera) del papa Gregorio IX scrive nel Settembre 1239 in occasione della sua mediazione per la stipula del patto d’alleanza fra le Repubbliche marinare di Venezia e Genova contro l’Imperatore Federico II di Svevia (prima metà del secolo XIII), dove però non figura il porto di Sapri ma figura il porto di ‘Salpas’ che è un porto della Puglia, indicato anche nella prima carta nautica esistente, la Carta Pisana del 1290 (Fig. 5). L’abbaglio del Kantorowicz (21) si desume dalla lettera (testo in latino) in cui si riporta il testo dell’alleanza o del patto, non figura Sapri ma figura il porto pugliese di Salpas(21-22): Romaneus Quirinus et Stephanus Baduarius Iacobi Teopuli ducis et comminis Venetiarum Gregorio IX Papae et ecclesiae romanae promittunt sec XXV galeas ad regnium siciliae occupandum armaturos esse, iuraque, statunt, quae, sibi, tam, apud Barolum’ et Salpas quam in omni olio regni loco, quem venectorum auxilio contingerit occupari in perpetuum feudum concedi dubeant, tenore litterarum procurationis ducis et comminis venetiarum. a. 1239, Sept. 5.” (22)Secondo il Kantorowicz , il ‘Salpas‘ che figura nel testo in latino della lettera citata, è Sapri (21). Il Salpas che, figura nella lettera che Papa Gregorio IX scrive nel Settembre 1239 (22) in occasione della sua mediazione per la stipula del patto d’alleanza fra le Repubbliche marinare di Venezia e Genova contro l’Imperatore Federico II di Svevia (prima metà del secolo XIII) era un porto della costa Adriatica pugliese che, figura pure sulla più antica carta nautica conosciuta, la Carta Pisana (Fig. 5). Infatti la lettera del Papa Gegorio IX, ci parla di due porti pugliesi, Barolum e Salpas (22). Tuttavia la notizia tratta dallo storico Kantorowicz andrebbe ulteriormente approfondita ed indagata. Certo che Sapri, nel XIII secolo era uno scalo marittimo conosciuto con il toponimo di Saprà, come risulta dalla più antica carta nautica conosciuta la Carta Pisana, datata intorno al 1290 (Fig. 5).

Nel 1271, Sapri non figura in un documento angioino

In un mio saggio ho cercato di dimostrare i motivi per i quali Sapri non figura sull’interessante documento del 1271 tratto dalla Cancelleria Angioina. Sapri esisteva all’epoca ed il suo porto e l’ampia baia naturale, unica al mondo, era già conosciuta ai naviganti come si evince dallo studio cartografico degli antichi portolani e carte nautiche conosciute. All’epoca Angioina, il piccolo villaggio di Sapri doveva appartenere alla Contea di Policastro ed ai suoi feudatari e dunque rintrava nella popolazione focatica o di Torraca o di Policastro.

Nel 1200, lo scalo marittimo di Sapri ed i suoi diversi toponimi figura nelle carte nautiche più antiche conosciute

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(….) Almagià Roberto, Toponomastica dell’Italia in alcune carte nautiche medioevali, stà in “Monumenta Italia Cartographica”, I.P.S., Firenze, 1929, Forni editore, Tav. n. …., p…..

Nel 1290, Sapri nella Carta Pisana, la più antica carta nautica conosciuta

La notizia andrebbe ulteriormente indagata in quanto due secoli dopo un Portum’ figura nella carta Pisana subito prima di Scalea. Certo è che due secoli dopo, il toponimo di Portum’ appare sulla più antica carta nautica oggi conosciuta, la Carta Pisana, risalente a forse prima del 1290 (Fig. 1). Infatti,  nella carta Pisana, sotto i porti di Policastro e Sapra o Saprà, si può leggere un Portum. Il toponimo di Portum è posto tra ‘Sapra’ e Scalea (Fig. 1). Il toponimo di Maratea nella Carta Pisana non figura. Di sicuro, il toponimo che nella ‘Carta Pisana’ indicava un porto, non corrisponde a Sapri in quanto nella carta Pisana, Sapri, figura con il toponimo di Sapra o un Saprà. Inoltre il Portum in questione si vede più vicino al toponimo e porto di Maratea essendo posto prima di Scalea (Fig. 1). Nutriamo dei seri dubbi che il Portum del documento diocesano del 1078 si riferisse a Sapri. La notizia andrebbe ulteriormente indagata in quanto due secoli dopo un Portum figura nella carta Pisana subito prima di Scalea.

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(Fig. 1) La “Carta Pisana”, portolano della metà del XIII secolo, ingrandimento dell’Italia meridionale

Nel 1320, Sapri nell’Atlante Catalano alla BNF

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(Fig. 6) Atlante Catalano del 1320

Nel 1300, la tassazione fiscale in epoca Angioina

Recentemente Giorgio Mallamaci (…), nel suo ‘Torraca – Storia di un borgo del Cilento’, a p. 36, parlando dell’epoca angioina in proposito scriveva che: “Il lungo conflitto angioino aragonese ebbe come teatro di combattimento il basso Cilento, e gli effetti disastrosi si perpetueranno per diverso tempo in tutto il territorio. La stessa Policastro, ed i castelli del circondario, compreso quello di Torraca, dopo il conflito, vengono defiscalizzati in virtù delle misere condizioni i  cui erano precipitati. Un dato preciso si ricava dagli archivi Vaticani, nei quali viene riportata la tassa cosiddetta dei “servizi comuni” pagata dai vescovi, infatti, negli anni successivi al conflitto la diocesi di Policastro risultava la più povera, poichè pagava appena 84 fiorini l’anno, contro i 350 di Capaccio e i 1.500 di Salerno.”.

Nel 1310, Torraca, Tortorella e Policastro nel ‘Rationes Decimarum Italiae’, Campaniae

Nicola Montesano (…), recentemente, a pp. 23-24, del suo ‘Casaletto, Terra in Provincia di Principato Citra, parlando di Tortorella, riportava un interessante documento che riguarda la Diocesi di Policastro nel XIV secolo, ma che cita “Bona” (Vibonati). Montesano, così scriveva in proposito: “Del ‘casti Turticelle’ viene fatto menzione anche nel ‘Rationes Decimarum Italiae’, raccolta delle prime decime versate alle mense vescovili relative agli anni 1308-1310. Purtroppo è giunto a noi un solo foglio (conservato all’Archivio Vaticano) relativo all’Episcopatu Policastrensi.”.

Foglio 250 IN EPISCUPATU POLICASTRENSI (38)

  • Mensa episcopalis policastrensis valet unc. XXV solvit unc. II.
  • Capitolum policastrensie, clerus castri Rocce gloriose, clerus casalis ipsius, clerus Gamarote, clerus castri Turticelle, clerus castri Rivelli, clerus castri Lacinigri, clerus Baccaglione, clerus casalis Bonati abbates omnes subiecti policastrensi episcopo, solverunt unc. III tar. XXV

Foglio 250 (v)

  • Presbiteri et clerus policastrensis ecclesie tar. XII
  • Archidiaconus policastrensis pro bonis, que habet in Rocca gloriosa, que valent unc. II tar. VII, tar. III gr. XV

Per questo documento, il Montesano (…), a p. 24, nella sua nota (38), postillava che: “(38) Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV – (a cura di) Mauro Inguanez, Leone Mattei-Cerasoli e Pietro Sella – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1948, pag. 479.”.

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Nel 1320, la popolazione dell’Università di Torraca nel “Generalis Subventio Angioino”

Recentemente Giorgio Mallamaci (…), nel suo ‘Torraca – Storia di un borgo del Cilento’, a p. 35, parlando dell’epoca angioina in proposito scriveva che: Nel ‘Generalis Subventio Angioino’ del 1320 vengono riportati per ciascuna “università”, ovvero per ogni attuale comune della provincia di Salerno, i valori dell’imposta applicata in proporzione al numero dei nuclei familiari e del loro reddito. Ogni nucleo familiare rappresentava un “fuoco”. Per risalire dal dato finanziario espresso in moneta del tempo, ossia “Once”, “Tari” e “Grana” a quello del numero dei fuochi, occorre adottare un moltiplicatore pari a circa 35 grani che rappresentava la tassazione focatica per ogni nucleo familiare di un piccolo centro come il nostro paese. Poichè ogni fuoco era composto da 6 persone è possibile ricavare il numero degli abitanti. Dal predetto documento si ricava che Torraca (e quindi anche il territorio di Sapri che ne faceva parte) nel 1320 veniva tassato per 1 oncia, 27 tarì e 10 grana. Poichè: 1 Oncia = 30 Tari = 600 Grana, nel nostro caso si ha per 1.27.10 1 Oncia = 600 Grana; 27 Tari = 540 Grana; 10 Grana = 10 Grana; Tot. = 1.150 Grana. Come si è già precisato, ogni fuoco era tassato con 35 Grana, si ottiene così: 1.150: 35 =32,86, ossia circa 33 fuochi che moltiplicato per 6, otteniamo: 33 fuochi x 6 (persone per fuoco) = 198 abitanti. Da quando sopra esposto è possibile tentare una stima del totale di abitanti; aggiungendone un 10 % di quelli non considerati nella tassazione focatica, arriviamo ad un numero complessivo di circa 220 anime.”. Il prelievo dell’imposta diretta rappresenta un tassello importante della politica fiscale angioina. La generalis subventio o colletta fu formalmente richiesta come tassazione straordinaria per la difesa del Regno ; tuttavia per la frequenza dell’esazione, essa si configurò, sostanzialmente, come un vero e proprio tributo ordinario e annuale. Nel solco dei cambiamenti già apportati dalla monarchia normanno-sveva, furono i primi due sovrani angioini, Carlo I e Carlo II, a intervenire nel sistema fiscale, precisando più compiutamente le funzioni degli ufficiali preposti alla riscossione dell’imposta e le procedure legate al prelievo. Le pratiche fiscali messe in atto nel corso del XIII secolo sono state ampiamente studiate nei lavori di Romolo Caggese, Giuseppe Galasso, Jean-Marie Martin, Serena Morelli e Giovanni Vitolo. Meno note sono invece le situazioni che si vennero a creare con i sovrani successivi, i quali non intervennero in maniera significativa in ambito fiscale, ma adottarono la politica già tracciata dai loro predecessori, declinandola secondo i contesti e le contingenze. Il presente lavoro si propone, pertanto, di offrire una panoramica sulle diverse modalità di applicazione del prelievo diretto nelle ancora poco studiate periferie del regno tra XIV e XV secolo, soffermandosi in particolare sulle due province di Terra di Bari e di Terra d’Otranto, sulla scorta della documentazione offerta dai Registri ricostruiti della Cancelleria Angioina, dai Libri Rossi e dai Codici Diplomatici. Verranno presi in considerazione alcuni interessanti aspetti dell’amministrazione fiscale : le competenze degli ufficiali preposti alla riscossione ; la serrata contrattazione tra la monarchia e le università ; le concessioni di riduzioni e remissioni di una parte o dell’itera somma da versare e infine la ripartizione dell’onere fiscale all’interno delle comunità.

Nell’8 agosto 1324, il “Tenimentum et Portus Sapri”, in un documento di re Roberto d’Angiò

Ebner (…), parlando di Sapri in età Angioina, in proposito scriveva che: “Mancano notizie in età normanna ed angioina del villaggio e del suo approdo monopolizzato dal vicino e più importante porto di Policastro.”. Ebner, a p. 592, dice che per quanto riguarda Sapri, il ‘Cedolario’, rinvia a Policastro. Ma non è così come vedremo. Probabilmente Ebner non si era accorto dell’interesante citazione di cui stò accennando. I due studiosi Natella e Peduto (…), citano Matteo Camera (…), che nei suoi ‘Annali delle Due Sicilie’ per l’anno 1333, vol. II, a pp. 309-314, ci parla della colonia di Genovesi e di Bartolomeo Roveti. All’epoca Angioina, Sapri aveva un porto che doveva essere conosciuto in quanto lo ritroviamo menzionato in un documento del 1324 tratto dai Registri della Cancelleria Angioina e pubblicato da Matteo Camera, nei suoi “Annali”, nel 1860. L’antico documento (…) si riferisce ad un editto di re Roberto d’Angiò che concedeva la città di Policastro al soldato Bartolomeo Roveti, dopo l’avvenuta distruzione della città di Policastro che nel 1320 fu distrutta dalla flotta Aragonese al comando dell’ammiraglio genovese Corrado Doria. A Sapri, che in quegli anni doveva essere un piccolo villaggio marinaresco, doveva esistere un porto marittimo avendo la sua ampia baia un approdo e riparo sicuro per i vascelli che operarono durante la terribile guerra del Vespro tra gli Angioini e gli Aragonesi. La notizia di un porto a Sapri in epoca Angioina è provata e testimoniata proprio da questo documento di cui parlo. Il documento del 1324, “storico e inedito”, pubblicato dal Camera (…) nei suoi “Annali”, è di notevole importanza anche per Sapri in quanto in esso si cita più volte il Porto di Sapri (“portus Sapri”). Matteo Camera (…), nei suoi “Annali”, vol. II, a p. 313, parlando della città di Policastro e continuando il suo racconto sull’editto di re Roberto d’Angiò che donava Policastro al milite genovese Bartolomeo Roveti (di cui ho parlato in un altro mio saggio sulla guerra del Vespro e la nostra terra all’epoca Angioina), in proposito aggiungeva e scriveva che: “Non appena fatto passaggio la nuova colonia genovese in Policastro, nacquero varie questioni petitoriali, possessoriali ec. su di esso territorio, alle quali re Roberto con suo editto pose termine – Rapportiamo questo altro documento storico anche inedito: “Robertus etc. Bonofiglio de Guardia militi magne nostre Magistro Rationali consiliario familiari et fideli suo gratiam etc….“. Il Camera (…), nei suoi “Annali”, vol. II, a p. 314, trascrive il testo finale del documento: “Datum apud castrum–maris de Stabia per Iohannem Grillum de Salerno etc. anno domini MCCCXXIIII die octavo augusti VII Indictionis. Regnum nostrorum anno XVI (1).”. Re Roberto d’Angiò scriveva dal castrum di Castellammare di Stabia a Giovanni Grillo di Salerno. Il Camera, a p. 314, nella sua nota (1) postillava che: “(1) Ex regest. Reg. Roberti an. 1324 lit. C. fol. 22 fol. 208.”.

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(Figg….) Documento del 1324, tratto dalla Cancelleria Angioina e pubblicato da Matteo Camera (…), nei suoi ‘Annali’, vol. II, pp. 313-314 per l’anno 1333 (Archivio Storico e digitale Attanasio)

Il documento del 1324, “storico e inedito”, pubblicato dal Camera (…) nei suoi “Annali”, è di notevole importanza anche per Sapri in quanto in esso si cita più volte Item est in dictis tenimentis portus Sapri et Sici quidem mons magnus etc…“. Come si può leggere dal testo in latino dell’editto di re Roberto d’Angiò (…), trascritto integralmente da Matteo Camera (…), nei suoi “Annali”, vol. II, a pp. 313-314: Item est in dictis tenimentis portus Sapri et Sici quidem mons magnus cum nemore magno ubi sunt venationes animalium silvestrium et glandes dossent percipi usque ad pretium sex unciarum per annum quem dictus Bonusfilius locare non potest dictis Ianuensibus nisi ex dominica jussione ad quod toliter ecc…” e, ancora: “…antiquo demanio certa tenimenta et terras que censuerunt pro certis pecuniis et victualium quantitatibus inter que est tenimentum Squisi et Portus Sapri qui locari possunt, dictum tenimentum Squisi pro unciis duabus et tenimentum portus Sapri qui locari potest annuis unciis auri quatuor petunt inde aliquid minui, ad quod taliter respondemus quod gratiose concessimus usque ad quindecim annos ad dictum vel alium consuetum censum seu pecuniam minime teneantur, ad sextum quod incipit Item terre demanii et tenimentorum prefatorum locari non possunt singulariter et divisim omnibus illis personis que apte essent ad recipiendum titulo locationis easdem eo quod persone ipse nondum venerunt omnes etc…”. Da cio che leggo si comprende che il re Roberto d’Angiò con questo editto indirizzato a Giovanni Grillo di Salerno, oltre a Policastro dona al capitano Genovese Bartolomeo Roveti anche il tenimento e porto di Sapri. Sulla notizia della colonia dei Genovesi al comando di Bartolomeo Roveti che doveva ripopolare Policastro, ha scritto il canonico Luigi Tancredi (…) che però non si accorse dell’interessante citazione di un “tenimenti e Portus Sapri”. Purtroppo questo documento angioino di Roberto d’Angiò non è stato possibile reperirlo sui registri ricostruiti da Riccardo Filangieri e pubblicati dall’Accademia Pontaniana a cura di altri autori. L’ultimo registro della Cancelleria Angioina andata distrutta e ricostruito è il n. 50 a cura di Riccardo Palmieri del 2010 che va dagli anni 1267 al 1295.  Il canonico Luigi Tancredi (…), nel suo, ‘Le città sepolte nel Golfo di Policastro’, pubblicato nel 1978, sulla scorta di Romolo Caggese (…), nel suo cap. 16, a p. 29 e s. scrive in proposito che: Sulla ricostruzione di Policastro abbiamo alcuni documenti nei registri angioini. Altro decreto dispone che le case e i beni degli abitanti che non tornano entro 18 mesi alle loro abitazioni di Policastro, passano in proprietà dei nuovi coloni (78). Per vent’anni nessun barone dovrà costruire casa a Policastro e gli abitanti dei dintorni devono accorrere in difesa della città, in caso di pericolo (79). Questi sono i decreti del re. Non sappiamo in che misura furono osservati nell’allegra anarchia nel regno angioino, ma la ricostruzione ci fu.”. Il Tancredi (…), a p. 29, nella sua nota (78) postillava che: “(78) Archivio di Stato di Napoli, Reg. 255, Carte nn. 22-25 (8 luglio 1324).”. Il Tancredi (…), a p. 29, nella sua nota (79) postillava che: “(79) Ibidem.”.

Nel 4 ottobre 1397, Luigi II d’Aragona assentì e confermò la vendita della metà di Torraca (pertinenze di Policastro) e di Tortorella e del castello che passò nelle mani di Matteo Monforte di Laurito, tutore di Giovannella e Antonello (figli di Biancuccia Mercadante e di Tommaso di Monforte di Laurito) 

Jole Mazzoleni (…), a p. 127,riguardo Tommaso Monforte, Signore di Laurito, marito di Biancuccia Mercadante e padre dei due figloli Antonello e Giovannella, in proposito scriveva che: Questo castello passò poi (1397) nelle mani di Matteo, quale tutore dei nipoti, per la vendita fattagli da Biancuccia, a conclusione delle controversie (3).”. La Mazzoleni, a p. 127 nella sua nota (2) postillava che: “(2) A. S. N. Pergamene di Laurito, n° 4, 5, 6, 7.”. La Mazzoleni, a p. 127 nella sua nota (3) postillava che: “(3) A. S. N. Pergamene di Laurito, n° 18, 8.”. Pietro Ebner (…), sulla scorta delle ‘pergamene di Laurito‘, acquistate dall’Archivio di Stato di Napoli, poi in seguito pubblicate da Jole Mazzoleni (…), parlando di Torraca, a p. 664, scriveva che: Il 4 ottobre 1397 Luigi II d’Aragona, su richiesta di Matteo di Monforte, tutore di Giovannella e Antonello, figli del quondam Tommaso di Monforte di Laurito e di Biancuccia Mercadante, gli concesse l’assenso (9) e la conferma per la vendita della metà di Torraca (pertinenze di Policastro) e di Turturella fattagli da Biancuccia che lo possedeva in feudo dal conte di Lauria, Francesco Sanseverino, con l’obbligo di rispettare i doveri feudali.”. L’Ebner, a p. 665, del suo vol. II, nella sua nota (9), postillava che: “(9) Ass. 4 ottobre 1397, VI, Napoli”. Ebner, riporta la stessa notizia a p. 339, parlando di Policastro ed alla sua nota (54), sempre sulla scorta della Jole Mazzoleni (…) postillava che: “Pergamene di Laurito”, cit., p. 153. Ebner, a p. 663, nella sua nota (7), postillava che queste notizie erano state tratte da Jole Mazzoleni (…): “(7) Mazzoleni, cit., p. 134. Giudice Mario d’Eustazio di Diano, notaio Antonio Priore di Diano”. Dunque, l’Ebner fa riferimento a p. 134 della Mazzoleni, ovvero a p. 134 del testo citato pubblicato sulla ‘Rassegna Storica Salernitana’ del 1951 dalla Mazzoleni, dove a p. 135, riporta il seguente documento: “X. 1397, 4 ottobre, VI, Napoli Luigi II d’A. re a. XIV” ed il testo della Mazzoleni è il seguente: “Luigi II d’A., a richiesta di Matteo di Monforte tutore di Giovannella e Antonello, figli del fu Tommaso di Monforte e di Biancuccia Mercadante, gli concede assenso e conferma per la vendita della metà del castello di Torraca nelle pertinenze di Policastro e Turturella fattagli da Biancuccia che lo teneva in feudo dal conte di Lauria, verso il quale si devono sempre rispettare gli obblighi feudali.”. La Mazzoleni a p. 135 per il documento n. X (pergamena n. 18), postillava che: “Priv. transuntato il 1528, 14 aprile Laurito a richiesta di Ferdinando Monforte (v. n. 24). Perg. n° 18.”.

Mazzoleni, in RS.S., p. 135

(Fig….) Mazzoleni Jole, op. cit. p. 135

La notizia, secondo l’Ebner (v. p. 664), si rileva da un documento di Laurito, il transunto della pergamena VIII, di Roccagloriosa, del giudice Guglielmo di Roccagloriosa e del notaio Giovanni Caso. Sempre l’Ebner (…), a p. 664 del vol. II, riferendosi a Biancuccia Mercatante, in proposito scriveva che: “….gli concesse l’assenso (9) e la conferma per la vendita della metà di Torraca (pertinenze di Policastro) e di Turturella fattagli da Biancuccia che lo possedeva in feudo dal conte di Lauria, Francesco Sanseverino, con l’obbligo di rispettare i doveri feudali.” e, a p. 665, del suo vol. II, nella sua nota (9), postillava che: “(9) Ass. 4 ottobre 1397, VI, Napoli”. Ebner (…), a p. 339, del suo vol. II, di ‘Chiesa, ecc…’, parlando di Policastro, cita Biancuccia Mercadante di Torraca e, scriveva in proposito: “Il 13 ottobre 1397, a Napoli, arbitri il vescovo di Policastro, per Matteo di Monforte di Laurito, e il milite Roberto di Pantaleone, per Antonio Pellegrino di Diano, (secondo) marito di Biancuccia Mercadante (di Torraca), vedova di Tommaso di Monforte ( di Laurito, prima marito), si giunse ad un accordo circa i diritti dei pupilli di Tommaso, rappresentati da Matteo e quelli di Biancuccia rappresentati dal secondo marito (54).”. Ebner, riporta la stessa notizia a p. 339, vol. II, parlando di Policastro e postillava alla nota (54), sempre sulla scorta di Jole Mazzoleni (…): “Pergamene di Laurito”, cit., p. 153. Pietro Ebner (…), nel vol. II del suo “Chiesa, Baroni e Popolo nel Cilento”, a p. 102, parlando di Laurito, in proposito alle origini dei Monforte in proposito scriveva che: “Da un altro ‘Registro’ (7) si apprende che nel 1336 un ramo della famiglia Monforte si era trasferito a Laurito”e, poi scrive ancora sempre a p. 102 che: “Nel 1381 Francesco di Sanseverino, conte di Lauria e signore di Cuccaro si riprese il villaggio di Laurito concedendolo al fratello Luigi, dal quale però lo ricomprò. Si oppose Matteo di Laurito. Il giureconsulto Matteo Arcamone riconobbe i diritti di Matteo Monforte alla successione del feudo di Laurito. Con il consenso della moglie Caterina di Celano, Francesco Sanseverino concesse il feudo ricevendone cento once in carlini d’argento come risoluzione degli obblighi feudali. Il 18 novembre 1404 re Ladislao separò (12) il villaggio di Laurito da Cuccaro. Tale separazione, però, non esentò l’antico feudatario dall’obbligo della dipendenza dai Sanseverino conti di Marsico. Infatti, nel 1448 Fancesco di Sanseverino, conte di Lauria e signore di Cuccaro, confermò (13) a Jacobello di Monforte la concessione ecc..ecc..”. Jole Mazzoleni, a p. 127, riferendosi a Matteo Monforte di Laurito, zio paterno dei mancati feudatari legittimi (Antonello e Giovannella), essendo il fratello del defunto Tommaso di Monforte di Laurito, primo marito della vedova Biancuccia Mercadante: “Il Sanseverino, anzi, con il consenso della moglie Caterina di Celano, glielo dona ricevendone ecc… (1). Dieci anni dopo il feudo è diviso in due parti e l’amministrazione feudale è frazionata in due rami dei Monforte, come può seguirsi nelle vicende della complicata successione di Tommaso che nel testamento rogato nel 1390 lasciava quali eredi i figli Antonello e Giovannella sotto la tutela di Matteo per una parte del casale, mentre per l’altra parte si avanzavano i diritti di Biancuccia Mercadante, vedova di Tommaso e rimaritata ad Antonio Pellegrino di Diano, riguardano solo Laurito, ma anche la successione del castello di Torraca sempre suffeudo dei Sanseverino (2). Questo castello passò poi (1397) nelle mani di Matteo, quale tutore dei nipoti, er la vendita fattagli da Biancuccia, a conclusione delle controversie (3).”. La Mazzoleni, a p. 127 nella sua nota (2) postillava che: “(2) A. S. N. Pergamene di Laurito, n° 4, 5, 6, 7.”. La Mazzoleni, a p. 127 nella sua nota (3) postillava che: “(3) A. S. N. Pergamene di Laurito, n° 18, 8.”. Ebner, riporta la stessa notizia a p. 339, parlando di Policastro ed alla sua nota (54), sempre sulla scorta della Jole Mazzoleni (…) postillava che: “Pergamene di Laurito”, cit., p. 153. Dunque, l’Ebner fa riferimento a p. 134 della Mazzoleni, ovvero a p. 134 del testo citato pubblicato sulla ‘Rassegna Storica Salernitana’ del 1951 dalla Mazzoleni, dove a p. 134, riporta il seguente documento: “VIIII. 1392 (1391), 25 marzo, IV (sic) (XIV), Rocca Gloriosa – Luigi II d’A. a. VII.”. Il testo della Mazzoleni per la pergamena n. VII ovvero la pergamena originale n. 6 è il seguente: “Transunto del precedente istrumento, rogato dal notaio Donato “magistri Gratiani”, e dal giudice Romano “magistri Marini” del 14(00), 10 luglio, VII. Perg. n° 6.”. Poi la Mazzoleni (…) a pp. 134 e 135 presenta anche il documento n. IX e scriveva che: “IX 1391, 25 novembre, XIV (sic) Torraca . Ludovico II d’A re a. VII.”, il cui testo della Mazzoleni è il seguente: “Matteo Signore di Laurito, quale tutore di Antonello e Giovannella, figli del defunto milite Tomaso di Monforte, signore di Laurito, e suo esecutore testamentario, fà fare l’inventario di tutti i preziosi, oggetti e beni del defunto, a garanzia della sua tutela.”. La Mazzoleni postillava che:  “Giud. an. Nicola Mainone (?) di Torraca, not. Nicola Lombardo di Turturella. Perg. n° 7.”. La Mazzoleni, a p. 135, riguardo il documento n. XI (pergamena di Laurito n° 8) così scriveva in proposito che: “XI 1397, 13 ottobre, VI, Napoli, Luigi II d’Angiò re a. XIV – Sorta contea tra Antonio Pellegrino di Diano, marito di Iancuccia (Biancuccia), già moglie del fu Tommaso di Monforte, e Matteo di Monforte, tutore e balio di Antonello e Giovannella, figli ed eredi del defunto Tommaso per le doti di Biancuccia, consistenti in metà del castello di Torraca, in vari beni mobili ed immobili, nel ‘morgicap’ costituitole da Tommaso, e nella quarta, i contendenti vengono ad uno accordo per salvaguardare i diritti dei pupilli, avendo arbitri della contesa il vescovo di Policastro per Matteo e il milite Roberto de Pantaleone per Antonio Pellegrino.” . La Mazzoleni a p. 135 per la pergamena n° 8 postillava che: “Giud. a contr. Antonio de Stabile di Napoli, not. Antonio de Turri di Napoli. Perg. n° 8”.

Nel 1300 (?) o 1569 (?), la “Torre Scilandro”, lungo la costa che corre verso Acquafredda ed il canale di Mezzanotte o confine con la Basilicata

Torre dello Scialandro............

Torre di Scialandro

(Fig….) “Torre Scilandro” – oggi erroneamente segnata su google maps come “Torre Mezzanotte” – probabilmente Torre angioina, posta poco distante dalla spiaggia e dal Canale di Mezzanotte, da cui fu avvistato il gruppo del Carducci dagli sgherri del prete Vincenzo Peluso.

Verso la fine del ‘500, si trovano le prime notizie sulle torri costiere costruite lungo le pendici del litorale costiero del Regno di Napoli. In particolare in questio saggio vorrei parlare delle Torri conosciute lungo il litorale saprese, alcune delle quali oggi non visibili perchè abbattute o distrutte o chissà cosa, come ad esempio la Torre detta del Bondormire che si trovava lungo la costa ad occidente da Sapri, dove oggi si trova il Faro “Pisacane” antistante l’Ospedale Civile di Sapri. La documentazione in nostro possesso ci permette di avere alcune notizie sicure sulle Torri esistenti, da costruire o costruite in epoca Vicereale. I primi documenti risalgono all’anno 1569. Posso dire che ancora oggi nella tradizione orale le torri cavallare e di avvistamento, che ritroviamo visibili lungo i crinali del litorale delle nostre coste vengono dette “Torri Normanne”. Eppure molte di queste sono Torri Vicereali, overo Torri quadrangolari fatte costruire alla fine del ‘500 dai Vicerè Spagnoli. E’ singolare che nella tradizione popolare le nostre torri vengano dette Normanne. Credo che molte di esse esistessero già a i tempi dei Normanni e che in seguito furono fatte rinforzare da Federico II di Svevia. Le torri preesistenti avevano forma diversa da quelle come oggi appaiono.  Delle torri preesistenti però, si conosce molto poco. Si sa poco cioè delle Torri costruite prima dell’epoca Vicereale, di cui disponiamo una buona documentazione. Delle torri preesistenti lungo il litorale costiero del basso Cilento dovevano certamente esistere in epoca Federiciana e poi ancora in seguito in epoca Angioina. Molte di queste torri furono poi in seguito fatte rimaneggiare e rinforzare dagli Aragonesi che dominarono a lungo sul Regno di Napoli. Sappiamo che Federico II di Svevia avocò a se molti castelli e torri esistenti nel Regno allora detto di Sicilia che comprendeva pure le nostre coste. Sull’epoca di fondazione della ‘torre dello Scialandro’, come pure di altre torri come quella della ‘Petrosa’ a Villammare, questa pure citata dal Pasanisi, o della ‘torre del Buondormire’ a Sapri, non abbiamo notizie documentate ma credo si tratti di torri molto più antiche risalenti all’epoca anteriore della guerra del Vespro tra Angioini ed Aragonesi. Le Torri di guardia o di avvistamento (guardiole), più piccole, con pochi uomini di guardia ed un solo cannone, erano disposte sulle alture, oppure lungo la costa, spesso in località difficilmente raggiungibili, ma in ottima posizione per sorvegliare molte miglia di mare. ogni torre era in vista delle due limitrofe, in modo da poter comunicare, sia durante il giorno (segnali di fumo) che di notte (con l’accensione di fuochi). Il numero di fuochi corrispondeva a quello delle navi in arrivo e la fumata, (nei limiti delpossibile…..) era rivolta nella direzione da cui queste provenivano. entrambi i tipi di segnalazione erano preceduti da un suono di campana. Le Torri angioine, più antiche, di forma cilindrica, con basamento a tronco di cono che rappresenta i 2/3 dell’altezza dell’intera torre ed è sormontato da una cordonatura (redondone o toro) di tufo grigio in piperno (roccia vulcanica proveniente dalle cave napoletane poste ai piedi dei Camaldoli) o materiale simile, e mura poco spesse. Avevano funzione, essenzialmente “di avvistamento”. Le torri circolari, quelle d’epoca Angioina, caddero in disuso con l’avvento della polvere a sparo. Fu l’avvento dell’artiglieria a segnare il passaggio dalla forma circolare a quella quadrata, per meglio resistere alle cannonate. Le nuove Torri, costruite con criteri più moderni, erano così in grado di assolvere a funzioni di avvistamento, riparo ed anche offesa. Talvolta, due o più Torri venivano unite da ballatoi. L’ingresso veniva aperto sul lato a monte, al piano superiore (3-6 m. di altezza) e poteva essere dotato di una scala retraibile., anziché in muratura. Il sacerdote Mario Vassalluzzo (…), nel suo pregevole studio sui ‘Castelli, Torri e Borghi della Costa Cilentana’, edito nel 1975, nel capitolo III: “Le Torri costiere nel Viceregno”, a p. 45, mostrava un disegno tratto dalle Carte e stampe, conservate all’Archivio di Stato di Napoli, da cui io stesso, trassi diversi documenti inediti:

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(Fig….) Disegno della forma delle Torri marittime di avvistamento tratto dal Vassalluzzo (…), op. cit.

In questo disegno, si vedono le due principali tipologie di torri costiere. La torre dello Scialandro, appartenente al sistema difensivo costiero del Regno di Napoli, ma di sicuro non faceva parte del programma di costruzione promosso dal Governo Vicereale. Situata su uno sperone roccioso nei pressi del “Canale di Mezzanotte”, non conosciamo l’epoca di fondazione, ma essendo la sua struttura di foma a pianta e sezione circolare, dunque con base e tronco cilindrico, rappresentando ed assumendo la quasi perfetta forma di un cilindro, essa si configura tra le tipologie costruttive usate molti secoli prima dell’epoca Vicereale. Io credo che la sua forma cilindrica, può avvalore l’ipotesi che essa sia una Torre molto più antica e forse risalente al periodo Angioino. Per le torri Vicereali, ovvero le torri costiere, oggi in parte ancora visibili anche se dirute, al contrario è stato scritto molto. Le torri costiere vicereali sono le torri costruite lungo la costa del Regno di Napoli ed in particolare quelle Tirreniche, dal Governo dei Vicerè Spagoli, ce tra gli anni 1555 e 1582, intrapresero un programma di costruzione molto vasto.  Onofrio Pasanisi (…), nel suo ‘Don Sancio Martinez de Leyna e le torri marittime della Molpa e Palinuro’, racconta della richiesta che Don Sancio Martinez, nel 1554, fece alle Università del luogo per la costruzione di due nuove Torri a Molpa e Palinuro. Il Vassalluzzo (…), nel suo ‘Castelli, torri e borghi della costa Cilentana’, sulla scorta dell’Alfano (…), a p. 197, scriveva in proposito: “Dopo Villammare, nel 1785 e nel 1888 ancora vi era la Torre del Buondormire. Ad oriente del porto di Sapri vi era quella di Obertino, così chiamata dal fiume omonimo e oggi detta di Capobianco (Tav. VI, fig. 6). A guardia della prima Torre vi furono, come torrieri, nel 1568 Pietro Caviczoles; nel 1576 Prando della Torraca; e dal 1598 al 1605 Francesco Brando. A torriere della Torre di Capobianco, nell’anno 1584, fu chiamato De Colis Giovanni.“. Dunque, secondo il Vassalluzzo (…), ad oriente di Sapri, l’unica Torre esistente e costruita era quella di Capobianco, anticamente detta Torre dell’Obertino. Dal sacerdote Mario Vassalluzzo (…), nessuna citazione delle torri costiere più antiche ed in particolare della ‘Torre di Scialandro’, di cui parlerò. Nel 1978, e nel 1991, Angelo Guzzo (…), pubblicò due libri di estremo interesse per la ricostruzione storiografica delle nostre zone. Nei suoi ‘Da Velia a Sapri, itinerario costiero tra mito e storia‘ e, nel postumo ‘Sulla rotta dei Saraceni –  La difesa anticorsara sulla costa del Cilento’, il Guzzo, anche sulla scorta del Pasanisi e del Vassalluzzo, fa una disamina della costruzione delle Torri marittime Vicereali costruite sul finire del XVI secolo, lungo le noste coste, da tempo oppresse dalle incursioni barbaresche. Secondo la ricostruzione che il Guzzo (…) fa, anche sulla scorta dei documenti di Archivio raccolti e citati dal Pasanisi (…) “Solo nel 1566 venne l’ordine della costruzione delle torri nelle rimanenti parti del Principato Citra, nel tratto cioè, che da Agropoli si estende fino a Sapri e non comprese nel precedente bando. Le torri da edificarsi o da accomodarsi ed indicate dall’Ingegnere Tortelli, che era stato inviato in quella provincia dal Duca d’Alcalà, furono le seguenti: 35) Una allo Scialandro, presso Sapri”. Dunque, il Guzzo (…), a p. 247, scriveva che la Torre dello Scialandro, veniva costruita a seguito dell’orinanza vicereale del 1566. Ma rileggendo il Pasanisi (…), abbiamo visto che l’epoca di costruzione di quella torre non si evince. Dal documento citato a p. 429 nella sua nota (1), si evince che l’università di Rivello, nel 1567, veniva esentata dal pagamento dei pesi per la Torre dello Scialandro, ma non si evince da nessun documento che la ‘Torre dello Scialandro’ rientrasse nel programma dell’ordinanza del 1566. Ancora il Guzzo (…), a pp. 248-250, in proposito scriveva che: “Nel Principato Citra, si costruivano torri, già progettate e comprese nel Bando del 1566, nelle seguenti località (e continua l’elenco delle torri a p. 250): “alla Petrosa, a Villammare; al Buondormire, presso Sapri, alla foce del torrente Rubertino, presso Sapri, allo Scialandro, presso Sapri.”. Il Guzzo, racconta che, sebbene la richiesta di tasse per la costruzione delle due nuove torri fosse stata negata dalle Università del posto, queste due nuove torri erano operanti nel 1557. Il Guzzo (…), a p. 248, scriveva in proposito che: “Nel Principato Citra, si costruivano torri, già progettate e comprese nel Bando del 1566, nelle seguenti località:………………….”. Anzi il Guzzo (…), a p. 250, scriveva che: “Alla fine del 1570 sulla costa cilentana, di tutte le torri progettate e comprese nel bando del 1566, solo le seguenti erano effettivamente compiute, come risulta dai pagamenti fatti ai caporali ed ai soldati: – ………………. (35).”. Il Guzzo (…), a p. 252, nella sua nota (35), sulla scorta del Vassalluzzo (…), che a p. 197, del suo ‘Castelli, torri e borghi della costa Cilentana’, nella sua nota (…), postillava la stessa cosa “……………………. Il Guzzo (…), nelle pagine seguenti, parla del programma di costruzione attuato nel Regno di Napoli dal governo Vicereale Spagnolo e a p. 250, a proposito della Torre del Buondormire, dice che questa era una delle torri che furono completate alla fine del 1570 e a p. 252, nella sua nota (35), postillava che: “(35) La Torre del Buondormire ora del tutto scomparsa, era ancora visibile nel 1888. Vi furono come torrieri: ecc..ecc..”. Il Guzzo (…), riguardo la documentazione attestante la notizia che alla fine del 1570, ricavata dal Pasanisi (…), la costruzione della Torre del Buondormire, presso Sapri, era effettivamente compiuta, in proposito postillava che: “(22) Perc. Prov. Fascio 119, fol. 138- citato da Pasanisi O., op. cit., pag. 433.”. Dunque, se notiamo bene, il Guzzo, sulla scorta del Pasanisi e dei documenti di Archivio citati, scrivendo che detta suffraga la costruzione “effettivamente compiuta”, come risulta dai pagamenti fatti ai caporali ed ai soldati”. Dunque, il Guzzo, sulla scorta del Pasanisi (…), comprendeva nell’elenco delle torri che venivano costruite nel 1566, anche quella dello Scialandro. Il Guzzo, nel suddetto elenco, citava la ‘Torre dello Scialandro’ e la citava dopo la Torre alla foce del torrente Rubertino che abbiamo visto essere poi stata chiamata Torre di Capobianco che è ancora visibile davanti lo scoglio dello Scialandro. Dunque, stando a ciò che lo stesso Guzzo scrivesse a p. 250, la Torre dello Scialandro seguiva in successione quella del torrente Rubertino, e dunque, questa torre doveva essere una torre posta lungo la costa dopo quella del torrente Rubertino. Sempre il Guzzo (…), a p. 253, scriveva che con la nuova tassa imposta nel 1582, e per effetto di essa furono portate a termine anche la torre alla foce del torrente Rubertino, presso Sapri. Dunque, della torre dello Scialandro, non si dice più nulla. Forse perchè era una torre già preesistente, come io credo, ma in rovina e dunque giudicata non idonea al programma di costruzione portato a termine dall’Ingegnere Tortelli. Dalla documentazione della Camera della Sommaria Vicereale del Regno di Napoli, pubblicata dal Pasanisi (…), si evince che la costruzione delle Torri cavallare fatte costruire verso la fine del ‘500 dai Vicerè spagnoli per la difesa delle coste e delle umili popolazioni dell’epoca, non interessavano alcune Torri costiere che già dovevano essere preesistenti, se non per il solo loro rafforzamento. Ma se il Guzzo (…), sulla scorta di Onofrio Pasanisi, a proposito di questa torre, a pp. 248-250, in proposito scriveva che: “Nel Principato Citra, si costruivano torri, già progettate e comprese nel Bando del 1566, nelle seguenti località (e continua l’elenco delle torri a p. 250): “alla Petrosa, a Villammare; al Buondormire, presso Sapri, alla foce del torrente Rubertino, presso Sapri, allo Scialandro, presso Sapri.”. Dunque, anche in questo caso il Guzzo (…), ci dà un quadro distorto della realtà dei fatti, in quanto secondo quanto asserisce, la torre dello Scialandro, si costruiva nel 1567. Come ho avuto già modo di ribadire, la torre dello Scialandro, nel 1567, era già preesistente ma dal documento citato dal Pasanisi non si evince che fosse in costruzione. Forse nel 1567, la Torre dello Scialandro, come altre torri già preesistenti, erano state oggetto di interventi di manutenzione. Sempre il Guzzo, a p. 253, scrive che nel programma di costruzione attuato nel Regno di Napoli dal governo Vicereale Spagnolo, per effetto della nuova tassa imposta nel 1582, fu portata a termine alcune torri ma nel suo elenco non figura quella dello Scialandro. Infatti, se la Torre dello Scialandro, veniva citata da Scipione Mazzella Napolitano, nella sua prima edizione del 1568, mi chiedo come fosse possibile che questa torre, pur essendo compresa nel programma di ricostruzione del 1566, non fosse stata ultimata a seguito del programma attuato a seguito della tassa del 1582. L’unica spiegazione logica è quella, come io credo, che la Torre dello Scialandro, fosse una torre già peesistente ancora prima della costruzioni vicereali e che poi in seguito, fu compresa nel programma di ricostruzione per rinforzarla ma, come io credo, i lavori non furono del tutto ultimati a causa del fatto che mancavano i fondi per ricostruirla o rinforzarla. Infatti, il sacerdote Mario Vassalluzzo (…), nel suo ‘Castelli, torri e borghi della costa Cilentana’, sulla scorta del Pasanisi (…), a p. 197, scriveva in proposito che: “Dopo Villammare, nel 1785 e nel 1888 ancora vi era la Torre del Buondormire. Ad oriente del porto di Sapri vi era quella di Obertino, così chiamata dal fiume omonimo e oggi detta di Capobianco (Tav. VI, fig. 6). A guardia della prima Torre vi furono, come torrieri, nel 1568 Pietro Caviczoles; nel 1576 Prando della Torraca; e dal 1598 al 1605 Francesco Brando. A torriere della Torre di Capobianco, nell’anno 1584, fu chiamato De Colis Giovanni.. Dunque, secondo l’elenco che fa il Vassalluzzo (…), tra il 1568 e il 1584, sulla ‘Torre dello Scialandro’, a sua guardia non risulta nessun torriere ma risultano torrieri a guardia delle torri di Buondormire e di Capobianco. Ovviamente il fatto che non risultassero torrieri a guardia della ‘Torre dello Scialandro, nel secolo XVI, non significa che questa torre non fosse già preesistente.  Il Guzzo (…), sulla scorta del Pasanisi (…), a p. 253, scriveva che nel 1580, la vicina Università di Maratea, “ricorreva al Vicerè per la mancata costruzione di una torre, già ordinata dal Governatore Conte di Briatico, nel luogo detto di Acquafredda, presso la grotta della Scala, approdo e dimora dei corsari (39).”. La “Grutta d’a Scala” (il nome significa ‘grotta della scala’). Il Guzzo, a p. 253, in proposito a questa torre in Acquafredda, nella sua nota (39), postillava che: “(39) O. Pasanisi, op. cit. p. 435.”. Infatti, Onofrio Pasanisi (…), a p. 435, aveva scritto che: “Nel 1580 l’università di Maratea ricorreva al vicerè per la mancata costruzione d’una torre già ordinata dal governatore Conte di Briatico nel luogo detto dell’Acqua fredda presso la grotta della Scala, approdo e dimora dei corsari (2).“. Il Pasanisi (…), a p. 435, nella sua nota (2), postillava che: “(2) Proc. R. Cam. (p.a.) n. 3037, vol. 277.”. Ma in questo caso il Pasanisi (…), non si riferiva alla ‘Torre di Scialandro’, ma si riferiva ad una torre costruita ad Acquafredda, nel luogo, dove io credo, oggi vi è la Villa Nitti. La vicina spiaggetta della grotta della Scala si trova ad Acquafredda di Maratea in Provincia di Potenza, ed è molto probabilmente la spiaggetta dove sbarcò il gruppetto al seguito di Costabile Carducci. Non sappiamo se il 10 marzo 1577, secondo quando scrive Onofrio Pasanisi (…), nel suo ‘Don Sancio Martinez de Leyna e le torri marittime della Molpa e Palinuro’, a p. 281: “il regio misuratore delle Torri delle cinque provincie di Terra di Lavoro, Principato Citra (il nostro) Basilicata, Terra di Bari e Capitanata, Liberato Lucido, ecc..”, l’avesse visitata insieme alle altre preesistenti lungo il litorale costiero del nostro Principato Citra. Certo è che se fosse ritrovato l’antico verbale di visita di Liberato Lucido, Regio misuratore del Regno di Napoli al tempo del governo dei Vicerè Spagnoli, sarebbe un ulteriore testimonianza dell’esistenza, anzi preesistenza della ‘Torre di Scilandro‘. A tal proposito stò cercando i registri ‘Quinernioni’, dove si annotavano le Sentenze e delibere della Regia Corte della Sommaria, come ci dice il Capasso. Riguardo la torre marittima della Molpa, requisita dal duca d’Alcalà, al De Leyna, e in seguito, il 10 marzo 1577, dunque dopo la prima edizione del Mazzella, secondo quanto il Pasanisi postillasse nella sua nota (3), si riferiva al “(3) Proc. R. Camera, n. 3749, vol. 315, p.a.”. Come pure, potrebbe risultare interessante il documento citato dal Guzzo (…), a p. 258: “Carta n. 41 del Volume 104 dell’Archivio di Stato di Napoli, Sommaria Diversi, I numerazione, in cui è ben chiaro il numero ed anche la dislocazione di tutte le torri marittime del Regno.”. Forse la ‘Torre dello Scialandro’ era una torre già preesistente, come io credo, ma in rovina e dunque giudicata non idonea al programma di costruzione portato a termine dall’Ingegnere Tortelli. Mazzella (…), a p. 87, elencava le torri costiere esistenti nel 1568, ed in proposito citava solo la torre dello ‘Scialandro’, scrivendo: “37 T. di Scilandro in Territorio di Policastro”. Scipione Mazzella (…), nel suo elenco delle Torri di Principato Citra, citava anche la “58 T. del Crivo di Scilandro in territorio di Cammerota”, confondendola con l’altra ‘Torre del Crivo‘, e confondendola il luogo, dicendola a Camerota. La torre dello Scialandro è una torre molto più antica delle altre visibili che la tradizione popolare orale chiama ‘Normanne’ ma, costruite in epoca Vicereale. Le torri vicereali,  non sono di forma circolare come quella dello Scialandro, ma esse hanno una sezione a base quadrata e, in elevato assumono una quasi perfetta forma cubica. La Torre dello Scialandro, invece, diversamente dalle altre e unico esempio esistente fino a Novi Velia, ha una sezione a base circolare ed in elevato, assume una forma quasi cilindrica, rastremandosi verso l’alto, forma questa tipica delle Torri d’epoca Angioina, dunque molto più antica delle altre. Inoltre, molti scrittori che l’anno citata, l’hanno confusa con la vecchia Torre dell’Obertino poi detta di Capobianco. La Torre dello Scialandro, come si può ben vedere in tutte le altre carte geografiche citate, è sempre segnata lungo la costa che da Sapri va verso Acquafredda ma posta in successione alla Torre di Capobianco. Credo che la Torre di Scialandro, sia la seconda torre ad oriente di Sapri e del fiume Lubertino, che si vede disegnata in rosso nella carta d’epoca Aragonese. Matteo Mazziotti (…), nel suo ‘Costabile Carducci ed i moti del Cilento del 1848′, edito nel 1909, parlando dei fatti che accaddero nel 1848, e sul Carducci, nel suo vol. II, a p. 5, in proposito alla torre che io credo fosse dello Scialandro, scriveva che: “Alcuni corsero ad avvertire le guardie doganali in una antica torre posta a ridosso della collina e addetta a caserma. Il brigatiere delle guardie, Salvatore Miggiani, raccolti i suoi pochi dipendenti ecc..”. A tal proposito, devo però citare il racconto dell’episodio e dei luoghi che fa Franco Maldonato (…), nel suo ‘Teste mozze’, edito recentemente, che a p. 104, in proposito allo sbarco di Carducci ad Acquafredda scriveva che: “Messo al sicuro il gozzo, si inerpicano in cerca di cibo verso l’abitato, un borgo di duecento anime, noto come Acquafredda perchè nelle acque rivierasche affiora, una bolla visibile solo in tempo di bonaccia, una sorgente sotterranea di acqua dolce, più fredda delle altre correnti in ogni periodo dell’anno. Quivi si era rifugiato il sacerdote Vincenzo Peluso, che in gennaio ..”. Maldonato (…), a p. 105 continuando il suo racconto scriveva che: “ritenne più prudente ritirarsi ad Acquafredda, poco più di cinque chilometri da Sapri, in una casina a forma circolare situata su un colle che guarda direttamente verso il mare ma dal lato opposto del Porticello.”Dunque, secondo il Maldonato, il vecchio prete Vincenzo Peluso, nel gennaio del 1848, si era ritirato o “rifugiato” in una una casina a forma circolare situata su un colle che guarda direttamente verso il mare ma dal lato opposto del Porticello.”.

Nel 1400, a Sapri, due torri costiere, in una carta inedita d’epoca Aragonese

In particolare per i casali citati, ci conforta l’immagine Fig…. (…), della carta d’epoca aragonese – dove essi vengono citati. La carta inedita, da me scoperta all’Archivio di Stato di Napoli, riveste una particolare importanza per i nomi dei luoghi o toponimi in essa citata, inoltre essa, è forse l’unica testimonianza cartografica dei due toponimi in questione che, ritroviamo solo in questa carta. Come si può vedere, nell’immagine sopra che illustra la carta in questione, nelle campagne poste a ridosso della fascia costiera di Sapri, e dopo il centro abitato di Sapri, andando verso Acquafredda, si possono leggere alcuni nomi di luogo, dei quali non conosciamo l’origine e che oggi sono del tutto scomparsi o di cui rimangono pochi ruderi. Nella carta in questione sono segnate con il colore rosso dei piccoli centri urbani o gruppi di costruzioni, che stanno ad indicare piccoli casali o borghi. Guardando la carta corografica: ‘Principato Citra – Regno di Napoli’, d’epoca Aragonese, dunque molto più antica del ‘Croquì’, ci accorgiamo che, all’altezza e di fronte lo scoglio dello Scialandro, che pure è segnato, vediamo riportata solo la figura colorata in rosso di una torre ma senza l’indicazione del suo nome. Nella stessa carta d’epoca aragonese, all’altezza dell’attuale Canale di Mezzanotte, vediamo indicata un’altra torre (sempre di colore rosso) che anche quì non è scritto il suo nome ma io credo fosse propio la Torre dello Scialandro. Le due torri, segnate lungo la costa ad oriente di Sapri e sul monte Ceraso, nella carta d’epoca Aragonese, indicate solo con il disegno di una torre ma senza i nomi, io credo siano proprio le torri citate da Scipione Mazzella Napolitano (…), segnalate nel suo ‘Descrittione del Regno di Napoli’, edito nel 1568.

Sapri nella carta del Cilento

(Fig…..) Carta corografica manoscritta ‘Principato Citra – Regno di Napoli‘, da me scoperta all’Archivio di Stato di Napoli (ASN) (…) e, citata nel 1987 (…) – particolare dell’entroterra e del litorale Saprese

Riccardo Cisternino (…) in un suo studio sulle Torri costiere nel Regno di Napoli, a pp. 107-108 in proposito scriveva che: “I disegni di recente rinvenuti presso la biblioteca nazionale di Napoli (nota 63) Vittorio Emanuele, riguardano esclusivamente i castelli dell’allora capitale ecc….Non potendosi, pertanto, trarre dei disegni o piante elementi di attribuzione di epoche, per le torri preesistenti se ne può fissare dalle forme esteriori l’origine se longobarda, normanna o angioina. Quella che scompare nella metà del seolo XVI è la forma cilindrica, mentre prevale quella quadrangolare, trasformazione dovuta a motivi pratici delle nuove torri destinate non solo alla difesa, ma anche a rigugio in caso di incursioni. Ecc…”. Dunque secondo il Cisternino, la forma esteriore cilindrica era diffusa nelle Torri preesistenti a quelle Vicereali, a quelle più antiche, come ad esempio le torri Angioine. E’ il caso della Torre detta dello “Scilandro” o “Scelandro”, che ritroviamo a circa due chilometri da Sapri. Questa Torre è una delle cose più antiche che si possono vedere sul nostro territorio. Appartiene sicuramente al Demanio in quanto non ci risulta sia stata ancora venduta come tante Torri del nostro litorale e si trova ancora nel nostro territorio Comunale di Sapri. Come ci fa notare Antonio Scarfone (…),  nel suo “Presenze geomitologiche nell’area costiera di Sapri” che, segnalava alcune notizie tratte da Scipione Mazzella Napolitano (…) e che in proposito affermava che: “nell’elenco dei centri abitati del Principato di Citra, così come nell’elenco delle torri costiere, viene segnalata solo una struttura litoranea, Scilandro nel territorio di Policastro (Guzzo, 1999) senza nessun accenno a Sapri come elemento di scalo.”, la prima citazione in assoluto di una ‘Torre dello Scialandro’ è di Scipione Mazzella Napolitano (…), che la citò a p. 87, del suo elenco delle Torri costruite nel Principato Citra, del suo ‘Descrittione del Regno di Napoli’, edito nel 1568. Scipione Mazzella Napolitano, nel 1568, citava l’antica Torre dello Scialandro. Antonio Scarfone (….), nel suo studio……………………………….. afferma, a supporto della sua tesi, che: “Un ultimo aspetto arricchisce di ulteriore mistero l’antica storia di Sapri: risale al 1586, quando il toponimo di Sapri non viene mai riportato da Scipione Mazzella Napolitano nella sua opera Descrittione del Regno di Napoli. Infatti, nell’elenco dei centri abitati del Principato di Citra, così come nell’elenco delle torri costiere, viene segnalata solo una struttura litoranea, Scilandro nel territorio di Policastro senza nessun accenno a Sapri come elemento di scalo.”. Scipione Mazzella Napolitano (…), nel suddetto elenco che vediamo illustrato nell’immagine della Fig…, citava due torri dello Scialandro ed in proposito scriveva che: “37. Torre di Scilandro in territorio di Policastro” e, poi scriveva pure: “58. Torre del Crivo di Scilandro in territorio di Camerota”. Dunque, il Mazzella, citava e le chiamava Torri di “Scilandro” , sia in territorio di Policastro e sia in territorio di Camerota. Non mi risulta che a Camerota o a Palinuro, vi sia una “58. Torre del Crivo di Scilandro”. Nell’elenco delle Torri costiere costruite a seguito delle ordinanza dei Vicerè spagnoli, non risulta questa torre nel territorio di Camerota. Certo la citazione di Scipione Mazzella (…), che scriveva nel 1568 è di esrema importanza per la ricostruzione storiografica di alcune torri preesistenti sul nostro territorio già in epoca, io credo, angioina:

Mazzella Napolitano, p. 83, sulle Torri del Principato Citra

(Fig….) Scipione Mazzella Napolitano (…), op. cit. (ed. 1568) p. 87, elenco delle Torri nel Principato Citra

Nel 1609, Enrico Bacco Alemanno (….), nel suo ‘Il Regno di Napoli diviso in dodici Provincie, con una breve descrizione delle cose più notabili ecc…’, pubblicato a Napoli, per i tipi di Giacomo Carlino e Costantino Vitale, pubblicava l’elenco delle Torri marittime e cavallare e dei castelli visibili lungo la costa del Regno di Napoli. Bacco Alemanno a p. 25 pubblicava l’elenco delle Torri in Principato Citra e per il “Territorio di Policastro” citava le seguenti torri: “37 Torre Scilandro. 38 Torre della Petrosa. 39 Torre di Capitello. 40 Torre di Capobene.”.

Bacco Alemanno, p. 25, torri

Estendendo l’indagine geo-storica ai documenti di archivio, nel 1954, Riccardo Cisternino (…), nel suo ‘Torri costiere e torrieri del Regno di Napoli (1521-1806)’, pubblicato per l’Archivio di Stato di Napoli e poi in seguito, nel 1977 ripubblicato dall’Istituto Italiano dei Castelli, pubblicò una serie di interessanti documenti da lui ordinati e tratti dalla Sezione Amministrativava, Registri Torri, Castelli, per le Torri (vedi: Archivio di Stato di Napoli, carta 41, vol. 104, Real Camera della Sommaria, Diversi, I numerazione, conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli. Questo studio, insieme ad altri saggi come quello di Onofrio Pasanisi (….) e quello di Angelo Guzzo (…), offre diversi spunti di indagine ulteriore sulla storia delle Torri cavallare e di avvistamento costruite prima di quelle Vicereali di cui pure parlerò. Cisternino (…), nell’edizione del 1977 per l’I.I.C, a pp. 98 in proposito scriveva che (elenco solo quelle in prossimità della costa vicino Sapri): “Dalla documentazione oggi esistente presso l’archivio di stato di Napoli si può dedurre che il numero delle torri e dei castelli esistenti nel periodo del viceregno era di 431, sottolineando immediatamente che l’impiego contemporaneo di esse fu sempre di molto inferiore, per evidenti motivi di economia. La suddivisione per provincia delle torri era la seguente: nota 38, p. 99. Basilicata – 2) torre dell’Arno alias Prezzame l’Asino (Maratea); 4) Caja (Maratea); 5) Crivo a Capo Filicosa (Maratea) ecc..Principato Citra: , p. 100. nota 39: 15) Bondormire (Policastro); 2) Capo Bianco (Policastro); nota 40., p. 101: 79) Petrusa (Bonati); 91) Scelandro (Policastro); ecc….”. Dunque, il Cisternino, riguardo il Principato Citra, in prossimità di Sapri ci dice di tre torri che sono le seguenti: la n. 15) Torre del Buondormire, la n. 2) Torre di Capo Bianco e la n. 15) torre ‘Scelandro‘. Queste torri sono tutte poste sotto l’Università (il comune di quei tempi che doveva provvedere al finanziamento per la loro costruzione) di Policastro. Credo che le tre torri citate dipendessero dall’Università di Policastro in quanto pur trovandosi queste tre torri (quella di Buondormire oggi scomparsa) nel territorio di Sapri e dunque nel subfeudo di Torraca, appartenevano alla più vasta contea dei Carafa di Policastro. Il Cisternino (…), nel suo pregevole lavoro a pp. 110 e s. cita le torri, l’anno ed i relativi suoi “Torrieri” ed a p. 119 e s. elenca i Torrieri che figurano nel Principato Citra, ovvero i Torrieri che stavano a guardia delle torri che qui elenco limitandomi a solo quelli che riguardao il litorale saprese: “Torrieri di Principato Citra. – p. 120.: 46) Cappellano Giuliano 1569 Scelandro. Policastro; 67) Cavaczicales Pietro 1569. Bondormire. Policastro; p. 121: 81) della Torraca Biagio, 1576, Bon Dormire. Policastro; 128) de Calis Giovanni, 1584, Capo Bianco, Policastro; 147) d’Ocha Giovanni, 1578, Petrusa, Bonati; p. 122: 195) Mangia Giulio, 1598 Scilandro, Policastro; 197) Magaldo Luca, 1599, Capo Bianco, Policastro; p. 123: 240) Prando Francesco, 1598, Bondormire, Policastro; 242) Pugliese Carlo, Petrosa, Libonati; p. 124: 305) Timpanello Attilio, 1577, Scilandro, Policastro; ecc…”. Questi i torrieri citati da Cisternino (…). Dunque, riepilogando abbiamo che: per la torre del Buondormire troviamo come torrieri nel 1569, Pietro Cavaczicales; nel 1576, Biagio della Torraca e, nel 1598, Francesco. Per la Torre detta dello ‘Scilandro’, nel 1569, Giuliano Cappellano; nel 1598 Giulio Mangia e, nel 1577 Attilio Timpanello. Riguardo la Torre di Capo Bianco, troviamo nel 1584 Giovanni de Calis; nel 1599, Luca Magaldo. Dunque, come leggiamo dai documenti citati dal Cisternino, la torre oggi detta di Mezzanotte, era quella dello “Scilandro” a volte detta “Scelandro”. Poi vi è la torre oggi detta di Capobianco, un tempo detta di “Capo Bianco” ed ancor prima torre di “Lubertino” dal nome del fiume carsico che ivi scorre nel monte Ceraso. Ancor prima e più antica di tutte era la torre detta del “Bon Dormire”, o torre del “Bondormire” non distante dall’omonima spiaggetta. Io credo che queste tre torri già esistessero ai tempi della costruzione delle torri vicereali. Furono certamente rinforzate ai tempi dei Vicerè Spagnoli. Anche il Cisternino estese l’indagine dei documenti di Archivio ad alcuni autori del ‘600 come ad esempio Scipione Mazzella Napolitano (…) nel suo ‘Descrittione del Regno di Napoli di Scipione Mazzella Napolitano’, Napoli, Giovan Battista Cappelli, 1601 ad Enrico Bacco Alemanno (….), ovvero al suo ………………………..del 1611, ed a Mario Cartaro (….) del 1613, ovvero al cartografo Mario Cartaro che insieme a Giovanni Stelliola (…), riportano nella carta illustrata in fig…..le torri esistenti lungo la costa del Regno di Napoli. Il Cartaro (….) stese la delineazione della carta geografica di “Principato Citra” delineata da Mario Cartaro (coll. C. A. Stelliola), 1613 (delineazione 1590-1594), cm. 36 x 51, riprodotta da Mazzetti Ernesto, op. cit., (….), vol. II, tav. XVII. Cisternino, a p. 140 elencava le Torri esistenti nel Principato Citra secondo il Mazzella, l’Alemanno e il Cartaro. Per il Mazzella a p. 140 per il Principato figurano le seguenti Torri: “37) Torre dello Scilandro (Policastro); ; 42 Torre Capobene (Policastro); 58) Torre Crivo di Scilandro (Camerota); 62) Torre Crivo del Capo Filicara; ecc..”. Riguardo il Cartaro (…), a p. 140, per il Principato e per la costa di Sapri si elencano le seguenti Torri: “84) Petrosa; 85) Bondormire; 86) Capo Bianco; 87) Scilandro; 88) Crivo.”. Dunque, dall’analisi di quanto fin quì detto si può concludere che in tutti i casi, lungo la costa o il litorale saprese figura sempre la Torre detta del “Bondormire”, posta ad occidente ed ad oriente lungo la dorsale del monte Ceraso figurano le due torri dette una di “Capobene” in Mazzella e in Cartaro detta di “Capo Bianco” (dall’omonimo Capo Bianco’, in prossimità dello scoglio dello Scialandro). Inoltre, sia in Mazzella (1601) che in Cartaro (1613) figura la torre detta dello “Scilandro”. L’altra torre segnata in queste due carte, all’altezza di Acquafredda, come io credo, è l’antichissima “Torre dello Scilandro”, citata nel 1568 da Scipione Mazzella Napolitano. Recentemente, nel 2008, i due studiosi, Ferdinando La Greca (recentemente scomparso) e Vladimiro Valerio (…), in un loro pregevole studio, ‘Paesaggio antico e medioevale nelle mappe aragonesi di Giovanni Pontano – Le terre di Principato Citra’, edito nel 2008, a p. 30, pubblicavano uno stralcio della carta corografica o geografica del ‘Principato Citra’ (Fig. 1.16) di Nicola Antonio Stigliola (…), delineata tra il 1583 e il 1595. Dunque, i dati statistici di cui si servì lo Stelliola (…), nel delineare la carta del Regno, venivano raccolti poco dopo quelli pubblicati da Scipione Mazzella Napolitano (…), nel suo ‘Descrizione del Regno di Napoli’, la cui prima edizione risale al 1568. Come si può ben vedere anche in questa carta corografica del Regno di Napoli delineata nel ‘600 (…), la carta di Mario Cartaro-Stelliola (…), delineata dai due cartografi del Regno di Napoli, nel 1613. Nell’immagine illustrata pubblico la carta corografica del ‘Principato Citra’, con l’indicazione di tutte le torri vicereali costruite lungo le coste al 1613. In questa carta, oltre a citarsi la “Torre del bondormire”, e “Torre lo Scilandro”, si citava anche l’altra torre esistente lungo la costa saprese ad oriente del porto, la “Torre del Capobianco”, che è quella attualmente visibile ed esistente e, possiamo leggere chiaramente, a seguire la “Torre lo Scilandro” e, la “Torre lo Crivo”.

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(Fig….) Mario Cartaro – carta geografica di “Principato Citra” delineata da Mario Cartaro (coll. C. A. Stelliola), 1613 (delineazione 1590-1594), cm. 36 x 51, riprodotta da Mazzetti Ernesto, op. cit., (….), vol. II, tav. XVII

Onofrio Pasanisi (…), nel suo ‘Don Sancio Martinez de Leyna e le torri marittime della Molpa e Palinuro’, racconta della richiesta che Don Sancio Martinez, nel 1554, fece alle Università del luogo per la costruzione di due nuove Torri a Molpa e Palinuro. Ma, l’opera più esaustiva che al momento sia stata scritta sulla costruzione delle Torri costiere nel periodo Vicereale è quella di Onofrio Pasanisi (…): ‘La costruzione generale delle torri marittime ordinata dalla Real Corte di Napoli nel sec. XVI’, pubblicata nel 1926. Infatti, Onofrio Pasanisi (…), è l’unico che riporta una notizia storica interessante e documentata sulla ‘Torre dello Scialandro’. Il Pasanisi (…), a p. 428, in proposito scriveva che: “Nel 1567 infatti venne imposta per la fabbrica una tassa di grana 22 per tutti i fuochi del regno (3), ecluse le terre lontane 12 miglia dalla marina ed alcune categorie di abitanti, schiavoni ed albanesi che pagavano la metà (4). L’aveva preceduta il 1° maggio 1566 una tassa di grana 7 ed 1 cavallo per il servizio di una guardia (5). L’adozione di questo sistema apportò immediatamente immensi benefici. Non solo permise una giusta ed ecqua ripartizione di questi pubblici pesi, non solo pose fine ai continui litigi delle università, ma quando, – e ciò fu assai notevole – col copioso affluire del danaro nelle casse dello Stato, diede modo a queste di essere rivalse delle spese di fabbrica e di quelle assai gravose del servizio di guardia, (queste ultime a datare dal 1° maggio 1566). Innumerevoli sono infatti gli ordini di rimborso dati dalla R. Camera ai percettori provinciali (1).”. Il Pasanisi (…), a p. 429, nella sua nota (1), postillava in proposito che: “(1) ad es. ‘Partium S., vol. 548, f. 150: rimborso dei ducati 93 a Guardiagrele pagati nel 1563 per la tassa del Sangro. Idem vol., fol. 122 per l’università di Rivello (Basilicata) per contribuzione torre Scialandro (Policastro).”. Il documento che cita il Pasanisi (…), è un documento tratto dai registri “Partium” della Real Camera della Sommaria del Regno di Napoli Vicereale. Dunque, questa notizia è di estrema importanza in quanto conferma la mia ipotesi circa l’esistenza (documentata) di una Torre dello Scialandro, che secondo questa notizia fornitaci dal Pasanisi che la cita, per la sua costruzione, le imposizioni fiscali pagate precedentemente dall’università di Rivello, il 1° maggio 1566, dovevano essere restituite a causa della nuova ordinanza emessa nel 1567, che escludeva dal pagamento tutte quelle università (i comuni dell’epoca) ed in questo caso l’università di Rivello, che distavano più di 12 miglia dalla torre costiera da costruire. Insomma, secondo quanto scrive il Pasanisi (…), nella sua nota (1), di p. 429, che cita il documento “Partium S., vol. 548, f. 150”, risulta che l’università di Rivello, prima del 1567, aveva contribuito al pagamento delle imposizioni fiscali per la “Torre Scialandro”. Tuttavia, non sono in grado di affermare il vero motivo per cui l’università di Rivello, pagava le imposizioni fiscali per la ‘Torre Scialandro’. Il Pasanisi (…), scrive che i motivi per i quali, nel 1567, il governo spagnolo Vicereale nel Regno di Napoli, imponesse il pagamento di pesi fiscali erano diversi. Infatti, i motivi addotti per il pagamento delle tasse poteva essere la: 1-  costruzione della torre (imposta per la fabbrica), 2 – servizio di guardia per le torri già funzionanti; 3 – la costruzione di opere di rifacimento e ammodernamento su fabbriche già esistenti. Dunque, alla luce del documento citato dal Pasanisi, posso solo affermare che dopo il 1567, a seguito della nuova ordinanza emessa per “tutti i fuochi del regno” (tutti i nuclei familiari presenti e rilevati nell’ultimo censimento), l’università di RIvello verrà esentata dal pagamento di qualsiasi tassa. Dal documento citato si può anche affermare che la ‘Torre dello Scialandro’, nel 1567, già esisteva, anche se non posso dire quando è iniziata la sua costruzione. Per l’epoca di fondazione o costruzione della Torre dello Scialandro, bisognerebbe trovare i documenti, semmai vi fossero, che ci dicono quando ne fu ordinata la sua costruzione. Inoltre, non possiamo dire quando l’università di Rivello, insieme alle altre università, contribuirono per la fabbrica o per il suo servizio di guardia. Il documento citato dal Pasanisi, ci dice quando furono restituiti i pesi pagati all’università di Rivello che probabilmente come altre università aveva presentato ricorso alla Real Camera della Sommaria. Inoltre, interessante è la citazione di “l’università di Rivello (Basilicata) per contribuzione torre Scialandro (Policastro).”. Il documento dunque, fa luce anche sulla citazione del Mazzella (…), che nel suddetto elenco scriveva che: “37 Torre di Scilandro in territorio di Policastro”. Il Mazzella, nel 1568, proprio l’anno dopo l’ordinanza vicereale del 1567, elencava le torri costruite ed esistenti nel Principato Citra e la torre dello Scialandro la poneva nel territorio di Policastro. Dunque, mi chiedo cosa centrasse l’università di Rivello ?. Nel 1567, l’università di Rivello, faceva parte della Diocesi di Policastro e forse apparteneva alla vasta contea dei Carafa della Spina di Policastro. Il sacerdote Mario Vassalluzzo (14), nel suo ‘Castelli, torri e borghi della costa Cilentana’, sulla scorta dell’Alfano (17), a p. 197 e, pure il Guzzo (…), a p. 252 del suo “Da Velia a Sapri”, scrivevano in proposito: “Dopo Villammare, nel 1785 e nel 1888 ancora vi era la Torre del Buondormire. Ad oriente del porto di Sapri vi era quella di Obertino, così chiamata dal fiume omonimo e oggi detta di Capobianco (Tav. VI, fig. 6). A guardia della prima Torre vi furono, come torrieri, nel 1568 Pietro Caviczoles; nel 1576 Prando della Torraca; e dal 1598 al 1605 Francesco Brando. A torriere della Torre di Capobianco, nell’anno 1584, fu chiamato De Colis Giovanni. “. Dunque, secondo il Vassalluzzo ed il Guzzo lungo la costa di Sapri vi erano le tre torri: 1- Torre del Buondormire ad occidente; 2 – Torre di Obertino ad oriente oggi detta Torre di Capobianco. Ma non citavano la Torre dello Scilandro. Inoltre, devo precisare delle non similitudini con i nomi dei Torrieri. Ad esempio il Cisternino scrive che a guardia della Torre di “Capo Bianco”, nel 1584 troviamo “de Calis Giovanni” mentre, il Vassalluzzo lo chiamano “De Colis Giovanni”.

Nel 1714, la torre dello Scialandro

Nella carta ‘Provincia del Principato Citra’, delineata dal Magini nel ‘600 e poi ampliata dal cartografo Domenico De Rossi (…), del 1714, si vede chiaramente una “Torre dello Scialandro”. In questa carta, non viene indicato Sapri, ma viene correttamente indicato il confine tra le due Regioni. Inoltre, nella carta, possiamo leggere un toponimo strano “Elcerosa” e poi anche un “S. Giorgio”, due casali di cui non abbiamo ben capito l’esistenza.

La Torre dello Scialandro figura pure nella carta dell’ “Atlante Geografico del Regno di Napoli” o“Carta Geografica della Sicilia prima o sia Regno di Napoli”, in quattro fogli’, delineata nel 1769 (I° edizione) dal cartografo Filippo Rizzi-Zannoni. Dunque in questa carta si può vedere chiaramente il nucleo urbano di Sapri e le sue Torri.

Rizzi Zannoni

(Fig…) Rizzi-Zannoni – Particolare dell’“Atlante Geografico del Regno di Napoli” o“Carta Geografica della Sicilia prima o sia Regno di Napoli”, in quattro fogli (1769) (Archivio Attanasio)

Come possiamo vedere nella carta manoscritta “Golfo di Policastro“, senza indicazione di scala, a colori, (1° quarto sec. XIX), cm. 30 x 178, conservata presso la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli, Sez. ‘Manoscritti e rari‘, Ba 5d (2, che pubblicai nel 1998), in essa vengono riportate le tre torri esistenti e visibili all’epoca della stesura della carta. La carta citata riporta le tre torri conosciute e posto lungo il litorale di Sapri, ovvero essa riporta la Torre di “T. Buon Dormire”, posta ad occidente di Sapri, oggi località Fortino; la Torre di “T. Capobianco”, la “Foce Obertino”, entrambi toponimi segnati sul Monte Ceraso; a mare poi troviamo segnato “Lo Scoglio” e un pò distante troviamo infine la Torre “T. Scialandro” e subito dopo, poco distante la Torre “T. delle Grive”. Questa carta è interessantissima in quanto essendo del primo quarto del secolo XIX, ovvero 1815 testimonia che nel 1815, lungo la costa di Sapri ancora erano visibili le tre torri cavallare e di avvistamento di cui si è parlato e che la Torre detta oggi di “Mezzanotte”, all’epoca invece era detta con il suo toponimo originario ovvero Torre “T. Scialandro”. Dunque, l’attuale denominazione di “Torre di Mezzanotte” è errata.

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carta Golfo di Policatro

(Fig…..) Carta manoscritta “Golfo di Policastro“, senza indicazione di scala, a colori, (1° quarto sec. XIX), cm. 30 x 178, conservata presso la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli, Sez. Manoscritti e rari, Ba 5d (2. Questa carta da me scoperta è inedita ed è stata da me pubblicata nellAnalisi sull’“Evoluzione storica-Urbanistica di Sapri“, a mia firma, per il nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.) del Comune di Sapri, redatto dal Prof. Francesco Forte, 1998 (Comune di Sapri)

Nel 1400, la formazione dei primi nuclei urbani: località e borghetto delle “Mocchie” e la “Marinella”

Paradossalmente, proprio negli anni in cui il toponimo di  Sapri và gradualmente scomparendo sulle carte nautiche manoscritte, ma citato su quelle a stampa, vanno aumentando le testimonianze sulla presenza di un centro abitato. Finito il fenomeno saraceno e cresciuta la popolazione, il  paese incominciò ad incrementarsi sull’arenile in luogo più vicino al mare e si formò l’antico villaggio del Timpone, sulla collinetta omonima non molto distante dall’odierno centro abitato. Contestualmente, andava allargandosi anche il piccolo borgo marinaro della ‘Marinella‘ che, dalla contrada delle ‘Mocchie’ andava sviluppando il suo centro abitato con case sparse sino al vallone dello ‘Ischitello‘. Sorsero poi ad occidente le contrade del ‘Rosario‘ e di ‘San Giovanni’ il piccolo borgo marinaro della ‘Marinella’ con poche case sparse lungo le colline, si andò poi successivamente ingrandendosi lungo la vecchia linea di costa arretrata rispetto a quella attuale e che nella zona delle ‘Mocchie‘ formava una piccola insenatura, sicuro riparo per le poche e piccole barche di pescatori. Il piccolo borgo marinaro chiamato ‘Portus Saprorum‘ si formò dapprima con piccoli raggruppamenti di case sulla china detta ‘Difesa‘ e ‘Fenosa‘ e del Timpone e sulla dorsale della collina di ‘San Martino’ (‘Santu Martin’) con case sparse e più giù, in località ‘Mocchie’ e poco distante da essa, un cospicuo raggruppamento di case si formò nella ‘Marinella’. Il piccolo nucleo della ‘Marinella‘, posto ad occidente della piccola insenatura formatasi nei secoli tra il torrente oggi detto ‘Brizzi‘ (‘Vrizz’) dell’arenile posto ai piedi della collina del Timpone, nacque come piccolo borgo marinaro. La sua posizione nascosta era quella più sicura per il ricovero delle piccole barche di pescatori, per la difesa dalle incursioni saracene, a quel tempo frequenti. Sicuramente il piccolo borgo della Marinella, era il luogo più salubre e, man mano, andò ingrandendosi insieme al gruppo di case sorte alle Mocchie ed al Timpone. In questi anni, oltre ad alcuni reperti, alle fonti archivistiche ed alla storiografia del tempo, si sono rivelati utili alcuni documenti diocesani e parrocchiali. Dai primi del ‘400, allorquando sorse il primo centro abitato alla marina del torrente Brizzi, oggi individuabile con la località detta le “Mocchie”, e poi sviluppatesi con la “Marinella”, era molto diffusa la produzione della calce viva che serviva a diversi usi nelle costruzioni di edifici e delle murature. Questo tipo di produzione locale era molto antica e abbastanza diffusa. Dalle informazioni che raccolsi nelle interveste a diversi anziani di Sapri appurai che al “Timpone”, oggi piccola frazione di Sapri, abbarbicata su una piccola altura prospiciente l’antica marina di Sapri, lungo il torrente Brizzi, vi era in passato una forte produzione di calce che avveniva con la costruzione delle cosiddette “carcare”. La “carcara” nel dialetto saprese era una piccola costruzione realizzata nel terreno e a forma di una piccola torretta di grosse pietre, una specie di fornace, cava all’interno che serviva alla cottura della pietra locale che una volta raggiunta una certa temperatura diventava calce viva. La calce viva così prodotta veniva in seguito posta all’intern di grosse vasche per farla spegnere e poterla così utilizzare nelle costruzioni edilizie. Forse il Primicerio Gennaro Guida avrà fatto un pò di confusione. Inoltre, dal Pesce (…) sappiamo che già alla sua epoca era diffusa a Rivello la produzione di caldaie di rame.

Credo che il borgo marinaro di Sapri si sia sviluppato in località “Mocchie”, dove oggi si possono notare un piccolo gruppo di edifici antichi che sono posti un pò sopraelevati rispetto al piano di campagna. Oggi li vicino è sorta la zona Industriale di Sapri ma un tempo quest’area era collegata con le vicine colline da una strada detta “Verdesca” che anche questa un toponimo di derivazione marinaresca. La strada della “Verdesca”, una strada mulattiera interna che si inerpica nei spuntoni rocciosi ed arriva più o meno dove oggi si trova l’edificio della Piscina Comunale di Torraca. Un tempo in quell’area sorgeva, già da molti secoli, la grancia di S. Fantino che è descritta dalla “Platea dei Beni e delle rendite ecc…” del 1595-96 che appartenevano all’Abbazia di S. Giovanni a Piro, cenobio Basiliano. La grangia o grancia era un piccolo monastero alle dipendenze dell’Abbazia che sorgeva proprio in quei luoghi. La testimonianza della strada detta della “Verdesca” ci viene dal Giudice borbonico Gaetano Fischetti (…) e dal suo ‘Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri nel 1857′, pubblicato nel 1877.

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(Fig….) Località Mocchie – piccolo borgo con vecchi edifici ed una rampa per il ricovero delle piccole barche

Credo che in quel luogo, non molto distante dal letto naturale dell’attuale torrente Brizzi, all’epoca vi fosse una piccola rada e insenatura naturale che permetteva un facile e sicuro ricovero dei piccoli legni ormeggiati per il trasporto delle derrate e per la pesca, un piccolo porto naturale. Quell’area è stata poco indagata e si trova di poco prospiciente all’altura o collinetta dove oggi si vedono abarbicati edifici del borgo del “Timpone”. Fu in quell’area delle “Mocchie” che nell’antichità si sviluppò il piccolo centro abitato di pescatori e marinareschi che solo in seguito si sviluppò nell’altro borgo detto della “Marinella”. Infatti, dalle evidenze storiche credo che il piccolo brogo marinaro delle “Mocchie” fosse più antico della “Marinella”. Oggi, oltre ad un piccolo gruppetto di case antiche, in località Mocchie a Sapri si può vedere ancora una scalinata ed una rampa che molto probabilmente serviva per il ricovero delle piccole barche. Infatti, io credo che anticamente il letto del torrente Brizzi, soprattutto in certi periodi dell’anno fosse diverso da quello attuale. In quel luogo esisteva una vera e propria insenatura che si collegava al mare aperto della baia di Sapri. L’ipotesi di un’insenatura è suffragata da un’attenta analisi ed indagine geologica. In quel punto, la Carta Geologica di Sapri ……………

Nel ‘400, Sapri e l’epoca della dominazione Aragonese

Dell’epoca della dominazione aragonese nel Regno di Napoli, Sapri, il suo porto ed il suo entroterra, doveva appartenere alla Contea aragonese di Policastro, costituitasi a seguito della donazione concessa da Re Ferrante d’Aragona al suo primo ministro Antonello de Petruciis, il quale, con il consenso del re, associò il figlio Giovanni Antonio de Petruciis alla Contea di Policastro che ormai si estendeva, in un unico complesso da Novi (Novi Velia) oltre Policastro (9). Il Di Luccia (12) affermava che, l’Abbazia di San Giovanni a Piro, possedeva a Sapri la Grancia di San Nicola, senza specificare però l’epoca di fondazione. Dopo la ‘Congiura dei baroni‘ e, la fellonia di Ferrante d’Aragona e, l’arresto e la decapitazione del Petrucci, il 25 ottobre 1496, la Contea aragonese di Policastro e quindi anche Sapri, furono avocate al fisco per fellonia e poi concessa da Re Ferrante d’Aragona a Giovanni Carafa (9).

La ‘Carta del Cilento’ d’epoca Aragonese

Nel lontano 1987 pubblicai a stampa in alcuni miei scritti uno studio (1) frutto di anni di ricerca e di fatiche che mi portarono a rintracciare alcune notizie storiche su Sapri e sul ‘basso Cilento‘ ed una serie di carte manoscritte inedite e sconosciute (1). Ancora studente iscritto alla Facoltà di Architettura  dell’Università ‘Federico II’ di Napoli frequentavo spesso l’Archivio di Stato di Napoli che, al suo interno custodiva tesori di inaudita bellezza per la nostra storia. Verso la fine degli anni ’70, nell’Archivio di Stato di Napoli rinvenni la carta in questione ivi custodita in una cartellina cartacea insieme ad altre mappe e disegni nella “Raccolta Piante e disegni” della Sezione ‘Diplomatico – Politica’. Si tratta della carta corografica con toponomastica che rappresenta parte del Regno di Napoli. Alla segnatura la carta era segnata come  ‘Principato Citra – Regno di Napoli‘. Questa carta, già studiata e citata nel lontano 1973 da Pasquale Natella e Paolo Peduto (…), non era completamente dimenticata. Mai pubblicata ma solo parzialmente citata, io penso che si tratti di una carta geografica d’epoca Aragonese (Fig. 1) (2).